Parigi
in fiamme, guerra civile. La stampa internazionale usa
parole forti e titoli impressionanti per rappresentare
l’ondata di violenza urbana che da una decina
di giorni sta mettendo a soqquadro le banlieues
e il mondo politico francese.
Dagli Stati Uniti all’Australia, dall’Africa
alla Svezia, le immagini di roghi e scontri si susseguono
incessanti sugli schermi intramezzate da commenti che
raccontano di rivolta e “intifada” (New
York Post), di un clima generalizzato di paura.
Tant’è è il ministero degli Esteri
francese, attraverso il portavoce Jean-Baptiste Mattéi,
ha voluto esprimere la propria “sorpresa”
di fronte ad una copertura degli avvenimenti che sarebbe
andata “un po’ al di là della realtà”.
“Ci sono degli incidenti molto seri che devono
essere presi come tali, ma siamo molto lontani da quello
che potrebbero lasciar pensare certi commenti della
stampa o certi reportage televisivi che si possono leggere
o vedere all’estero”, ha detto il Mattéi.
Alcune reti televisive, come quelle statunitensi, hanno
in effetti drammatizzato i fatti nei giorni scorsi:
la Abc apriva con un “Parigi brucia”,
mentre un giornalista della Cnn ha fatto riferimento
ad una situazione cecena evocando rischi di “guerra
civile”.
Ma al di là dell’enfasi messa sulla violenza
e le devastazioni, il giudizio unanime degli editoriali
della stampa internazionale, con differenze di toni
a seconda della fonte, punta a mettere sotto accusa
il modello d’integrazione alla francese e a stigmatizzare
l’incapacità del governo – soprattutto
del ministro degli Interni – ad intervenire nell’emergenza.
“Quelli che bruciano le auto e lanciano le pietre
sono i figli degli immigrati arabi e africani, la maggior
parte musulmani, che non sono mai stati integrati nella
società francese – scrive il New York
Times – Le immagini delle violenze dovrebbero
ricordare ai francesi che hanno un enorme problema al
quale dovrebbero dedicarsi urgentemente. La Francia
s’attacca al suo approccio dell’immigrazione
che consiste nel dichiarare che una volta che si è
in Francia tutti sono ugualmente francesi. Ma la verità
è che tutti non sono egualmente francesi, in
particolare in un’epoca d’immigrazione crescente”.
Il quotidiano della Grande Mela finisce criticando gli
sforzi di “un’integrazione imposta”
che vieta il velo a scuola.
Generalmente le critiche più accese al modello
francese d’integrazione repubblicana sono arrivate
dai paesi in cui s’è optato per la via
comunitarista alla multiculturalità. Come negli
Stati Uniti appunto, o come in Gran Bretagna, dove il
Time scrive che “la tradizione in Francia
d’insistere senza compromessi sull’identità
francese ha reso la vita difficile alle minoranze. Queste,
benché abbiano in teoria gli stessi diritti degli
altri cittadini, soffrono in pratica di una discriminazione
non ufficiale di fronte al lavoro e alla casa”.
Anche per El Pais le violenze si spiegano
in quanto “conflitto d’integrazione”
per la popolazione d’origine africana e maghrebina,
spesso vittima di “discriminazione istituzionalizzata”,
mentre in Germania il Tagesspiegel riassume
così il ritratto dei rivoltosi: “Giovani,
poveri, disoccupati… musulmani”. Il Frankfurter
Allgemeine Zeitung considera che “il modello
francese d’integrazione è entrato nella
sua ultima fase d’esistenza. Il paese che ha conosciuto
più minuziosamente la società multiculturale
ha perduto il contatto con la realtà”.
The Guardian, da Londra, attacca il Governo
per essersi perso dietro beghe e scontri interni invece
di agire e accusa il ministro degli Interni Nicolas
Sarkozy di usare un linguaggio a dir poco fuori luogo
– “ripuliremo le banlieues della feccia”.
Con un tale linguaggio, dice il quotidiano di sinistra,
“come ci si può stupire che il razzismo
in Francia sia più virulento che nel Regno Unito?
Le condizioni nelle quali vivono i giovani delle minoranze
etniche in Francia sono così cattive, se non
peggio, che quelle che hanno conosciuto i neri a Detroit
negli anni ’60 e a Brixton negli anni ’80”.
Mentre The Independent suggerisce ai francesi
di ricavare qualche lezione dal multiculturalismo britannico
che “vede le identità razziali come un
arricchimento” (“Nelle scuole i bambini
neri ballano al suono della musica irlandese e i piccoli
bianchi suonano in un’orchestra giamaicana”),
il Financial Times arriva a indicare delle
ricette economiche: “Il miglior mezzo per affrontare
la disoccupazione dei giovani e delle minoranze sarebbe
di ridurre il salario minimo e i costi”.
Dopo le notti di violenze in Francia e gli attentati
di luglio in Gran Bretagna (le bombe sono state piazzate
da immigrati di seconda generazione) non c’è
molto da rivaleggiare e, invece, bisognerebbe prendere
atto, come fa il quotidiano Ceco Dnes, che
un modello di “coesistenza che funzioni non esiste
ancora”, e preoccuparsi, con lo spagnolo La
Vanguardia, “che le burrasche dell’autunno
francese non diventino il preludio a un inverno europeo”.
Dopo pochi giorni dall’inizio dei roghi parigini,
il quotidiano algerino El Watan analizzando
le politiche dell’integrazione delle periferie
condotte in Francia, suggeriva di “riportare la
problematica delle banlieues in quella più globale
dell’immigrazione e della democrazia sociale,
perché i poteri pubblici continuano a trattare
il problema tecnicamente invece che con una visione
più integrata… e più integrante”.
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