La religione
sta rivendicando un ruolo sempre più attivo nella
sfera pubblica dove fa sentire sempre più evidente
la sua presenza, mentre meno visibile si fa la linea
di separazione che la distingue dalla politica. Pensiamo
al ruolo svolto dalla Chiesa italiana nel dibattito
sulla fecondazione assistita, sui Pacs o i numerosi
episodi che hanno visto il presidente della Conferenza
episcopale intervenire energicamente nel dibattito pubblico.
E non è solo una questione italiana, segnali
di una forte presenza religiosa nelle discussioni politiche
li troviamo anche fuori dai nostri confini. In Europa,
per esempio, dove la questione sulle radici cristiane
ha segnato la scrittura del testo del trattato costituzionale,
o anche negli Usa, dove schieramenti religiosi hanno
contribuito a far pesare dalla parte di Bush il piatto
delle ultime presidenziali.
Di fronte all’evidenza di questa impennata religiosa,
è lecito porsi delle domande chiare: dove possiamo
tracciare il confine tra politica e religione? Dove
possiamo tirare la linea che separa le indicazioni delle
diverse chiese dalle decisioni che spettano alle istituzioni
di uno stato democratico?
Per cercare le risposte a questi interrogativi, le
riviste “Reset” e “Dissent”
hanno invitato esperti americani ed europei a proporre
punti di vista e analisi nell’ambito del seminario
“Politica e Religione tra Europa e Stati Uniti”
tenutosi nei locali del Centro Studi Americani di Roma.
Michael Walzer e Giuliano Amato, Gilles Kepel e Alessandro
Ferrara, lo studioso americano Michael Kazin e Paolo
Pombeni, il sociologo tedesco Klaus Eder e Krzysztof
Michalsky tra i nomi che si sono confrontati nella discussione
introdotta dai direttori delle due riviste, Giancarlo
Bosetti e Mitchell Cohen.
Il tema ha facce diverse sulle diverse sponde dell’Atlantico.
Negli Usa, la religione ha un ruolo molto influente
sulla politica e non ci si stupisce se nell’arena
pubblica si fa sentire la voce della fede. “Gli
Stati Uniti – spiega Giuliano Amato – non
hanno mai conosciuto una religione di stato, quindi
non hanno mai avuto bisogno di un processo di secolarizzazione
della politica”. L’idea che la politica
e la religione debbano essere nettamente distinte è,
insomma, tutta europea perché è nel Vecchio
Continente che è prevalsa la tesi secondo cui
la fede è un fatto squisitamente privato e individuale
e non deve entrare a far parte della vita pubblica.
D’accordo, ma, se è vero che la politica
si trova costantemente a fare i conti con la voce delle
religioni, dall’affermazione dei principi della
secolarizzazione le cose sono cambiate. Un cambiamento
cui Klaus Eder dà il nome di società post-secolare
e che Giancarlo Bosetti, riprendendo le parole del sociologo
tedesco e tirando le conclusioni dell’incontro,
sintetizza nel ritratto di una società, la nostra,
che “lascia maggiore spazio, maggiore visibilità,
alle religioni nell’ambito della vita pubblica”.
Una visibilità, continua Bosetti, che “deriva
dal sempre maggiore uso dei media da parte delle comunità
e delle istituzioni religiose, da una richiesta esplicita
da parte dell’opinione pubblica di temi religiosi
e fio al concretizzarsi di una maggiore influenza di
posizioni religiose nella discussione pubblica”.
“La risposta della politica di fronte a questa
richiesta appare insufficiente”, sottolinea il
direttore di Reset ricordando come alla base del post-secolarismo
ci siano fenomeni importanti quali, da una parte, l’immigrazione
che porta le nostre società a diretto contatto
con una molteplicità di religioni che concorrono
nello spazio pubblico e cercano ciascuno la propria
visibilità, mentre il declino delle ideologie
e dei grandi partiti di massa ha favorito la crescita
di peso della religione nella vita pubblica e ha, con
le parole di Giuliano Amato, “riaperto il coperchio
della ricerca del senso della vita”, lo dimostra
il grande successo di massa che hanno negli ultimi anni
le manifestazioni che propongono dibattiti tra filosofi.
“Il vero problema che ci poniamo oggi –
chiarisce Amato – è di capire se e in quali
termini democrazia e religione sono compatibili”.
Da una parte la democrazia, che pensiamo come il regno
del relativismo in cui le opinioni trovano un accordo
attraverso il dialogo, “il regno del conflitto
che si compone attraverso le procedure democratiche”;
dall’altra parte, invece, pensiamo le religioni,
per definizione portatrici di verità assolute,
e queste, proprio in quanto assolute, non possono far
parte del dialogo democratico.
Posta in questi termini la strada sembra non avere uscite,
e il dilemma pare insolubile. Ma una via di uscita la
rintraccia ancora l’ex vicepresidente della Convenzione
europea: da una parte anche la democrazia, come la religione,
ha i suoi assoluti e sono “la libertà di
pensiero, il rispetto della persona umana, la preferenza
della pace rispetto alla guerra”, una volta che
questi sono condivisi da tutti coloro che entrano nell’arena
pubblica, allora ogni opinione si può comporre
all’interno del dialogo democratico. “Non
è che la democrazia non abbia bisogno dei principi
ultimi – conclude Amato richiamando l’intervento
in cui Alessandro Ferrara ha citato Rawls – ma
ha bisogno che chi se ne fa portatore nel dibattito
pubblico lo faccia attraverso le ragioni penultime”.
In altre parole, la democrazia rimane tale e trova spazio
legittimo autentico per ogni forma di pensiero, laica
e religiosa, a patto che queste lascino fuori dalla
sfera pubblica ogni assoluto ideologico o fideistico
e vi portino invece idee ed espressioni con l’intento
di condividerle e metterle in discussione.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|