Il
secolarismo è finito, finito il tempo in cui
politica e religione rimangono separate sul palcoscenico
della sfera pubblica. Sono i nostri, piuttosto, i tempi
di una nuova impennata religiosa che si affaccia e si
impone alla discussione pubblica. E di più, il
cambiamento ci fa parlare non più del semplice
rapporto tra politica e religione, ma di religioni,
al plurale, che guadagnano spazio nell’arena pubblica.
Così Klaus Eder, sociologo tedesco della HumBoldt-Universitat,
descrive i nostri tempi e battezza la società
in cui viviamo con il nome di post-secolare.
Prof. Eder, che cosa è la società
post-secolare?
È una società che ha fatto l’esperienza
del secolarismo e ne ha imparato qualcosa. Mentre allora
lo spazio pubblico era diviso tra una parte politica
e una parte religiosa che dovevano rimanere separate,
la società post-secolare, invece, vede le conseguenze
del secolarismo e ne trae la conclusione che lo spazio
pubblico non dà voce solo alla religione dominante
di una data realtà, ma consente l’espressione
di tante voci per tante religioni. Oggi tutti coloro
che manifestano e propongono un’idea di assoluto,
di mistica interpretazione della vita e dell’esistenza,
hanno la possibilità di esprimersi nello spazio
pubblico, di far sentire la propria voce e di far entrare
la propria fede attivamente nel dibattito pubblico.
Così abbiamo tante religioni che offrono tante
risposte diverse alle domande della nostra vita.
Dunque, secondo lei, l’incremento di
religiosità nella sfera pubblica non sta nel
fatto che la religione acquista maggiori rilevanza e
importanza e rilevanza nei suoi rapporti con la politica,
ma ha più voci diverse tra loro.
Esisteva già una religione che entrava nel discorso,
la religione tradizionale istituzionalizzata e con legami
particolari con lo Stato sanciti da concordati e leggi;
il resto, invece, gli altri credo, erano spariti nella
vita privata. Ora emergono da quella dimensione privata
e individuale.
Un’altra cosa che mi colpisce molto, poi, è
che molti cambiano atteggiamento religioso nel corso
della loro vita; in un certo senso si è persa
la stabilità della religione di fronte alla vita.
Nelle generazioni più giovani, soprattutto, la
convinzione religiosa è diventata sempre più
difficile, volubile, dipende molto dalle proprie esperienze
personali.
Nel seminario organizzato da Reset e Dissent
sui confini tra religione e politica, lei ha parlato
dell’importante ruolo dei media in questa nuova
impennata religiosa. Crede che esista, da parte delle
religioni, un uso strategico dei media per imporsi sulla
scena pubblica?
Da entrambe le parti esiste un uso strategico, da parte
dei media che utilizzano argomenti religiosi per attrarre
spettatori, e da parte di rappresentanti religiosi che
utilizzano i media per far sentire di più la
propria voce e garantirsi uno spazio sulla scena pubblica.
È interessante notare l’atteggiamento della
Chiesa cattolica che, a partire dal pontificato di Giovanni
Paolo II, ha posto grande attenzione nella costruzione
delle proprie strategie mediatiche. Ma, sull’esempio
del Vaticano, anche le altre religioni hanno dedicato
parecchie energie ai media, seguendo la strada di Papa
Wojtyla. Quindi credo che possiamo parlare di una competizione
sullo spazio pubblico. Da una parte i media hanno un
po’ forzato l’ingresso di una pluralità
di religioni nell’arena pubblica, ma allo stesso
tempo è vero che se abbiamo una competizione
vuol dire che ci sono più soggetti che si sentono
sullo stesso piano, capaci di agire e apparire sulla
scena pubblica. Questo è il fatto nuovo. Questo
è post-secolarismo: maggiore presenza pubblica
delle religioni nello spazio pubblico, ma allo stesso
tempo tutti partecipano alla competizione per avere
il proprio spazio e sopravvivere nella discussione pubblica.
Nella competizione di cui parla sembra aver
fatto parte anche il dibattito sulle radici cristiane
dell’Europa e la loro esplicita menzione nel preambolo
della costituzione europea. Qual è la sua opinione?
Una costituzione che offre una posizione privilegiata
a valori esplicitamente legati a una particolare tradizione
religiosa non va bene per l’Europa. Che cosa dovrebbero
farne tutti i musulmani che vivono in Europa di una
costituzione che esclude palesemente la loro confessione
dalla tradizione europea? Una costituzione deve essere
fatta in modo tale che tutti coloro che si dicono cittadini
europei vi si identifichino. Se così non è
non ha senso approvarla, tanto più nei nostri
giorni: se la scena pubblica si apre a una molteplicità
di voci e religioni, come facciamo ad accettare una
costituzione che non li rappresenti tutti allo stesso
modo?
La Commissione europea ha fissato la data dell’inizio
dei negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Ue.
Cosa dobbiamo aspettarci da questa scelta? La Turchia
sarà una porta di dialogo dell’Unione verso
realtà islamiche, oppure dobbiamo temere che
il contatto così ravvicinato il mondo musulmano
possa essere fonte di conflitti?
La Turchia ha compiuto un percorso molto simile a paesi
come Germania e Francia, ha attraversato la sua fase
secolare e adesso deve trovare il proprio modo di affrontare
la realtà post-secolare. Il premier turco Erdogan,
quindi, si trova nella condizione di dover controllare
i movimenti religiosi e allo stesso tempo contenere
il sistema istituzionale e secolare. Un altro aspetto
interessante della Turchia è che al suo interno
convivono e hanno spazio tante realtà diverse
dell’Islam, ecco, in questo senso la Turchia fa
parte dell’Europa. il suo ingresso nell’Unione
è ostacolato da molti problemi, è vero,
ma dal punto di vista culturale si tratta di una sfida
di cui l’Ue deve assolutamente farsi carico, perché
da questa può solo imparare.
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