Stefan Lauter
oggi ha trentotto anni, lavora per lo Stasi-Museum di
Berlino, e contribuisce a fare in modo che la gente
non dimentichi i crimini contro l'umanità di
cui si rese responsabile il regime comunista tedesco.
In occasione dei festeggiamenti per il quindicennale
della riunificazione della Germania, lo abbiamo incontrato
per sentire dalla sua voce il racconto della sua giovinezza
vissuta nella Repubblica Democratica Tedesca (Rdt) e
ferita dalle violenze del regime comunista.
Per la Germania Unita lei è un perseguitato
politico. Era il 1985 e, all’età di sedici
anni, a causa del suo comportamento definito non “conforme”,
venne internato in un Jugendwerkhof. Che cosa erano
questi istituti agli ochhi di un comune cittadino?
Ufficialmente, nella Rdt per Jugendwerkhof si intendevano
dei “campi” (Lager), in cui i cosiddetti
ragazzi difficili, ma anche ragazze, erano detenuti
senza processo, perché si mostrasse loro che
le leggi dello Stato dovevano essere rispettate. Fino
al mio internamento, la pensavo anch'io così.
Non potevo intuire che si potesse finire lì dentro
anche per ben altre ragioni e che la Rdt facesse volentieri
uso di queste strutture.
In effetti gli Jugendwerkhof si presentavano
sulla carta come centri di recupero giovanile, ma nei
fatti si rivelavano essere più simili a strutture
carcerarie, in cui si entrava senza alcun processo e
da cui si usciva solo maggiorenni...
In generale gli Jugendwerkhof non erano, nel
loro impianto complessivo, vere e proprie carceri, come
queste comunemente si intendono. Erano in gran parte
istituti della Jugendhilfe (l'assistenza sociale
per i minori a rischio nella Rdt, ndr), dove
venivano messi sotto chiave ragazzi tra i 14 e i 18
anni, che avevano comportamenti non conformi al sistema,
come me. Ciò che rendeva queste strutture così
uniche erano alcune pratiche che si esercitavano al
loro interno.
Innanzitutto, a chi entrava là dentro si ritiravano
tutti i documenti compresa la carta d'identità,
il corso di studi veniva interrotto, ci si doveva sottoporre
al corso di addestramento professionale lì presente.
Il processo educativo o, meglio, rieducativo si proponeva
di formare un nuovo tipo di individuo caratterizzato
da una “personalità socialista”.
Chi vi si opponeva, veniva mandato nello Jugendwerkhof
di Torgau, totalmente isolato e organizzato come un
vero carcere, anche se diretto da “pedagogisti”.
Lì si completava con l'uso della forza il processo
rieducativo.
Riguardo all'uso della forza, anche gli Jugendwerkhof
“aperti” disponevano di celle carcerarie,
dove si poteva essere reclusi anche fino a 12 giorni
nel caso si “disturbasse” il processo “educativo”,
ossia qualora ci si opponesse o vi si mostrasse “reticenti”,
Dato che ciò capitava spesso, si può sicuramente
considerare lo Jugendwerkhof come un'istituzione affine
a quella carceraria, con la differenza che nessun giudice
della Rdt era competente per la disposizione degli internamenti.
La sua odissea negli istituti della Jugendhilfe
è iniziata a 16 anni. Cosa avvenne?
Come lei dice, avevo allora 16 anni e mia madre pensò
semplicemente, in quel periodo, di non farcela più
a educarmi da sola, senza alcun aiuto. Si recò
allora alla Jugendhilfe e richiese un “sostegno
educativo” (Erziehungsunterstützung).
E così finii sotto il controllo di queste “autorità”.
Cos'era successo perché si arrivasse a ciò?
Ero uscito dalla FDJ (Freie Deutsche Jugend, l'associazione
giovanile del Sed, il Sozialistische Einheitspartei
Deutschland) ed ero entrato in una libera comunità
della chiesa evangelista. A questo proposito, è
opportuno sottolineare come tali comunità fossero
nel mirino del sistema, in quanto considerate nemici
dello Stato, e come la Stasi le controllasse. Al contempo
iniziai a impegnarmi nel movimento per la pace della
Rdt, che non aveva una garanzia parlamentare e mi vestivo
e sentivo come un punk, come chiunque altro a cui piacesse
quel genere musicale. Come chiunque a quell'età,
reagivo anche con irruenza. Così venni condotto
a Freital, in un Jugendwerkhof, per farmi passare ogni
fervore giovanile.
Freital, letteralmente valle libera, com'era
la vita lì dentro?
Riguardo a Freital non ho molto da raccontare, rimasi
lì davvero troppo poco. Da quello che ricordo,
il ritmo della giornata veniva condizionato dalla subordinazione
al sistema educativo esistente e su tutto pendeva la
minaccia “se non collabori, finisci a Torgau!”
Cercarono con la violenza di farmi riscrivere al Fdj,
cosa alla quale io naturalmente mi opposi.
La vita di tutti i giorni era paragonabile, per le continue
angherie subite, a quella di un centro di rieducazione,
dove l'educatore ha totale potere su chi vi è
rinchiuso. Io continuavo a oppormi contro tutto questo,
organizzai perfino una sorta di resistenza che coinvolgeva
gran parte degli internati.
E poi venne trasferito a Torgau.
Sì, l'8 Febbraio 1985 venni condotto con la
forza a Torgau.
Lì ciascuno veniva immediatamente posto in una
condizione utile a che si acquisisse una totale predisposizione
al processo rieducativo. In altre parole, gli si incuteva,
fin da subito, una paura terribile (bisogna ricordare
che parliamo di ragazzini e ragazzi tra i 14 e i 18
anni). Appena dopo la registrazione, si era condotti
in una cella di isolamento di piccole dimensioni, buia
e priva di riscaldamento, con una panca di legno su
cui di giorno non ci si poteva sedere. Non si poteva
uscirne e, per tutto il giorno, non c'era altro da fare
che mandare a memoria il proprio “ordine di arresto”,
sia che si fosse dislessici sia maturandi in un liceo
ginnasio, andava allo stesso modo per tutti. Un ragazzo,
per la paura, si impiccò subito.
Dopo, si era inseriti in uno dei gruppi in cui si suddividevano
i ragazzi. La quotidianità era condizionata dall'essere
perennemente in corsa e dalle continue angherie degli
educatori. Una minima mancanza poteva comportare punizioni,
come anche un comportamento non conforme. Si era svegliati
presto, verso le 05:30, poi seguiva la “ginnastica
mattutina”: centinaia di flessioni, piegamenti
sulle gambe, il tutto anche tenendo pesi con le mani,
e, infine, due chilometri di corsa. Questo ogni giorno.
Quindi si rifacevano i letti e le pulizie (Ämtererledigung).
Infine si consumava la colazione: stranamente mangiare
era la cosa che si doveva fare più in fretta.
Lavoravamo quindi almeno otto ore, intervallate da una
breve pausa pranzo, avvitando insieme parti per l'industria
degli armamenti della Rdt. Dopo il lavoro, di nuovo
via, nella stanza destinata al gruppo. Il tempo libero
non esisteva affatto, non un solo minuto. Tutto era
già predisposto dagli educatori. Tempo libero
in Torgau significava: massiva quantità di ginnastica
“punitiva” da aggiungersi a quella usuale,
educazione di base premilitare, ossia l’esercitarsi
per ore sul percorso di guerra fin quando uno non ce
la faceva più, o aggiuntivi, consistenti spesso
in insensati lavori di pulizia dentro e fuori l'edificio.
Infine alla sera, verso le otto, c'erano l'inclusione
e la quiete notturna. Persino allora si era tenuti sotto
osservazione.
Cosa facevano per voi gli educatori? Erano
presenti altre figure istituzionali, ad esempio, ecclesiastiche?
Tanto per chiarirci subito, secondo la concezione attuale,
davvero pochi “educatori” in Torgau avevano
una qualsivoglia formazione pedagogica.
E di possibili operatori sociali o addirittura rappresentanti
di una confessione ecclesiastica, non c’è
neanche da parlarne. Ci si trovava dentro un'istituzione
di una dittatura comunista, là non c'era di sicuro
nessuna Chiesa!
Riguardo agli educatori, erano compiacenti, per la maggior
parte, si trattava di gente caratterialmente misera
che, di fronte ai detenuti, faceva la parte del padrone.
Dovevano mettere in pratica tutto ciò che disponeva
Horst Kretzschmar, influente direttore di quell’
Istituto, in carica per molti anni, e soprattutto stabilire,
per ogni singolo ragazzo, l'obiettivo educativo da raggiungere.
Lo facevano con una precisione meticolosa, in alcuni
casi prendendosi anche la responsabilità per
le misure pretese.
Con lo sguardo di adesso, questi cosiddetti educatori
dovrebbero essere additati come criminali colpevoli
di aver spezzato l'anima di ragazzini, averne torturato
il corpo.
Molti credono che negli Jugendwerkhof finissero
per lo più giovani nazionalsocialisti, eppure
lei non lo era.
Io non sono, non ero e non sarò mai un Nazista!
E per quanto mi riguarda, a Torgau non ne ho visto neanche
uno di giovane nazista. Questa affermazione serviva
piuttosto a discreditare gli ex-internati di Torgau
e a criminalizzarli ancora di più di quanto già
non lo fossero lì dentro. Si trattava, nella
maggior parte dei casi, di ragazzini cresciuti in situazioni
difficili, non di nazisti, per favore!
Cosa succedeva dopo le dimissioni? Gli ex-internati
venivano discriminati?
Non posso parlare per tutti, dal momento che quelli
che conosco tra i tanti, sono troppo pochi per fare
generalizzazioni. Da parte mia, posso dire che la condanna:
“Tu sei stato in uno Jugendwerkhof”, era
come un marchio, i cui effetti durano a lungo, e sì,
questo lo avvertivo sempre. Io stesso ebbi fino al 1988,
il divieto di esercitare una professione o seguire un
corso di studi, potevo essere solo Hilfsarbeiter, ossia
potevo svolgere solo lavoro non qualificato. La mia
vita privata veniva spiata, controllate le mie relazioni
sociali.
Se questa non è discriminazione...
Quanto Torgau ha cambiato la sua vita?
Torgau mi ha totalmente cambiato la vita: non ci si
deve dimenticare che io avevo 17 anni quando ciò
successe. Soffro ancora di diversi disturbi che sono
riconducibili tutti, senza eccezione alcuna, ai mesi
trascorsi a Torgau. Tra gli altri, sono soprattutto
disturbi nervosi post-traumatici che si riscontrano
nelle vittime di violenze. Io sono oggi semi-invalido
e posso lavorare soltanto 20 ore alla settimana.
Cosa si fa oggi in Germania per raccontare
cosa è successo in quei luoghi? C'è una
presa di coscienza o ritiene invece sia in atto una
sorta di rimozione collettiva?
Esiste un luogo commemorativo nell'ex-Jugendwerkhof
di Torgau. È collocato nell'ala amministrativa.
Il vero e proprio carcere è stato trasformato
in un complesso abitativo molto elegante, con balconi
davvero carini.
Nel centro commemorativo ci si impegna, onestamente,
in un’adeguata rielaborazione e rappresentazione
dei fatti, purtroppo i pochi finanziamenti ne rendono
sempre più difficile il mantenimento. Qui va
così, nel 2005. La Germania sembra si dimentichi
volentieri di quanto tocca negativamente la sua storia.
Il 3 Ottobre, la Germania ha ricorda il quindicennale
della sua riunificazione politica. I pareri sugli esiti
di questo processo politico sociale sono contrastanti:
da una parte c’è chi festeggia la fine
della Rdt, dall'altra c'è disillusione riguardo
alle possibilità della Nuova Germania, nostalgia
per il passato e, sempre più spesso, si parla
di occasioni mancate, di fallimento. Per lei cosa significa
questa data?
Il 3 ottobre 1989 è per me la data della liberazione.
Liberazione da una dittatura, che non avrebbe potuto
essere più inumana e che, sotto questo aspetto,
non teme il confronto con la Germania hitleriana.
Un Paese che ha ucciso a colpi di arma da fuoco più
di mille uomini lungo i suoi confini solo per mantenere
il suo potere, un sistema che ha spinto milioni di uomini
all'espatrio o al suicidio, uno stato-partito che pensava
di “avere sempre ragione”, scrivendolo anche
sulle sue bandiere, “benemeriti pedagoghi”
del Popolo che hanno sulla coscienza le anime di migliaia
di bambini; un'”idea”, quella comunista,
che ha portato centinaia di migliaia di persone a spiare
gli amici più stretti, i membri della propria
famiglia, a tradirli.., potrei continuare per ore...
E mi chiede cosa ne penso della nostalgia? Non ne penso
niente! Al più, posso ritenere che i tedeschi
dell'Est cerchino così di esprimere la loro frustrazione
per la loro attuale condizione, cosa che posso anche
comprendere. Di peggio della nostalgia c'è però
che vecchi quadri dirigenti del Sed e collaboratori
della Stasi raccolgono di nuovo “consenso”
nei Land tedeschi, osservi solo il Linkspartei e chi
c'è dentro! Non consideri solo Gysi e Lafontaine,
no: in primissima fila trova anche vecchi dirigenti
della Rdt.
No, chi non considera oggi la democrazia conquistata
come una chance è, a mio parere, rimasto, in
quest’ arco di tempo, semi-addormentato e non
ha alcun diritto a decidere sul mio futuro. Nel caso
in Germania si arrivasse nuovamente a una dittatura,
come minimo, me ne andrei via per sempre, portando con
me i miei figli e la mia compagna. In Italia c'è
ancora un posto libero, nel caso?
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