«Clamoroso contropiede del centro-sinistra»
(Michele Serra); «Un terremoto intelligente»
(Ezio Mauro); «Oggi la democrazia è più
forte» (Piero Fassino).
L’effetto liberatorio – come quello di
una energia nascosta e repressa, che ha atteso per
mesi e mesi uno sfogo, vivendo di piccole abreazioni
(le primarie pugliesi), e che ora si manifesta con
l’irruenza di più di quattro milioni
di persone – è messo in evidenza, sulle
pagine dei quotidiani, da tutti i commentatori politici.
Quasi la fine di una paralisi, di un’inquietante
sensazione di scollamento tra sentimenti e idee percepite
come vere (un’Italia al collasso, una classe
politica che ha raggiunto l’anno zero, il desiderio
di un cambiamento radicale messo in atto da una coalizione
unita e con una sola voce) e uno spazio pubblico e
mass-mediologico in cui queste percezioni così
elementari venivano relativizzate tanto da ridurle
a voce di minoranza, a strane allucinazioni di una
parte residuale dei cittadini.
«Quello che viene da chiedersi, ora»,
ha scritto Serra, «è perché non
sia avvenuto prima. Perché, per lunghi anni,
un progetto di democrazia diretta come le primarie
abbia tardato tanto a prendere corpo». Eppure,
archiviata la lista unitaria, assente ancora il programma,
evidenti le radicale differenzi di posizioni su temi
cruciali come quelli bioetici (altro che pluralismo
di voci, come ha scritto tempo fa il pur quasi sempre
ineccepibile Cacciari. Si tratta piuttosto di una
cacofonia irritante e disperante, su questioni come
quella dei Pacs – che all’estero sono
state archiviate da anni come parti essenziali di
una democrazia che riconosce a tutti i cittadini eguali
diritti), c’è forse da rallegrarsi che
le primarie ci siano state ora, e che il risultato
sia quello che tutti hanno di fronte agli occhi.
Ma i problemi, invece che risolverli, le primarie
li aprono. Perché mettono in luce, come ha
scritto Massimo Franco, la stridente «assenza
di una strategia di fronte alla novità del
sistema proporzionale». «Il problema»,
continua Franco, «è di costruirgli intorno
una coalizione e un consenso che tengano conto delle
nuove regole del gioco, per quanto ritenute odiose
e delegittimate per il modo in cui sono state approvate
alla Camera».
Per fortuna, alcune indicazioni forti questo voto
le ha date. Prima di tutto, ha scritto il direttore
di “Repubblica”, «perché
ha dato senza equivoci a Prodi quel mandato, quella
forza e quella rappresentanza che non trovava nei
partiti. Ma in più, ha fissato rapporti interni
al di sopra di ogni ambiguità e di ogni strumentalizzazione,
perché nessuno potrà dire che il 15
per cento di Bertinotti condiziona il 75 per cento
di Prodi». Prodi leader, una volta per tutti.
E non si tratta della scoperta dell’acqua calda,
se si pensa all’estenuante dibattito pubblico
all’interno del centro-sinistra dei mesi passati.
Il secondo elemento – anche questo in teoria
del tutto elementare, ovvio, banale, chiaro come il
sole eppure non si sa bene perché trascurato
e oscurato – è la richiesta di unità.
Ha detto Fassino: «Prima di tutto, dobbiamo
tener conto delle trappole della nuova legge elettorale
e studiare con l’aiuto degli esperti come presentarsi
alla Camera e al Senato in modo da non disperdere
neppure un voto. Ma le scelte politiche non possono
contraddire la domanda di unità».
Infatti. Agli elettori non gliene frega proprio nulla
del coro delle voci, dell’abbondanza di posizioni,
perché, di nuovo, quell’abbondanza non
è sintomo di ricchezza di dibattito, feconda
discussione, sobrio e razionale confronto, ma semplicemente
di partitocrazia, frammentazione, arcaismi, prima
repubblica, voglia di ritorno al vecchio, molto vecchio.
Per questo il voto mette fine allo stantio interrogativo
sul ritorno al centro così come al raffinato
ma inutile dibattito tra politologi sulla questione
se sia meglio mobilitare i propri ovvero cercare di
attrarre il voto moderato («il voto strozza
in culla ogni ipotesi esplicita e ogni tentazione
di incubare un’esperienza centrista da far nascere
alle prime difficoltà del governo», ha
scritto Mauro). Perché non servono i sondaggi
per capire una cosa elementare, e cioè che
la gente vuole non moderazione ma – che è
una cosa ben diversa – chiarezza di posizioni,
aderenza alla realtà delle stesse, convinzione
autentica dei politici che le propugnano, lealtà
passione e dedizione alla causa. Quale causa? È
semplice, il rilancio delle sorti di un paese allo
sbando e la ripresa dello sviluppo. Che l’economia
italiana, cioè, torni competitiva. Che nessun
giovane debba soffrire dell’incubo della disoccupazione
o vivacchiare anni e anni con lavori precari. Che
le famiglie siano sostenute nel faticoso compito di
allevare figli. Che l’istruzione sia accessibile
a tutti fino ai suoi più alti gradi. Che nessun
ricercatore debba lasciare il proprio paese. Che gli
anziani possano avere una vecchiaia dignitosa. Che
nessun immigrato debba morire nel disperato tentativo
di fuggire alla fame. Che ci sia sicurezza e la giustizia
sia efficace. Che le sacche di privilegi, di qualsiasi
tipo, vengano aboliti, a favore della trasparenza
e del pluralismo. Che i monopoli vengano abbattuti.
Che la cultura possa tornare a fiorire.
E allora? La risposta non è che una sola. «Alla
sinistra serve unità, certezza nel comando,
chiarezza di linea, identità risolta».
In altre parole, lista unitaria. «Se c’è
una scelta coerente per il buon investimento del capitale
politico di Prodi, a questo punto non può che
essere la lista unitaria Ds-Margherita-Sdi. Il nucleo
duro dell’Ulivo», ha scritto Massimo Giannini,
invitando ad andare in fondo a questa strada, senza
se e senza ma. E anche se in politica spesso il senza
se e senza ma fa danni, questa volta non si può
tollerare alcun ritardo, alcun veto, alcuna ambiguità.
Tanto più che lo strumento non occorre inventarlo,
perché c’è, ha scritto Mauro.
È, ovviamente, l’Ulivo.
La lista unitaria, infine, dovrebbe guardare lontano,
verso, quel moderno partito democratico che rimane
il futuro del centro-sinistra. «La scelta di
domenica sollecita un centrosinistra che si muova
sulle orme tolleranti, occidentali, del partito democratico
Usa, che sembravano accettate da tutti pochi anni
fa, quando anche D’Alema dialogava con Blair
e Clinton sulla terza via e che invece l’eterno
ritorno del passato sembra rinnegare», ha scritto
Gianni Riotta.
Già, l’eterno ritorno. E proprio come
tanti commentatori di Nietzsche hanno sottolineato,
il ritorno di un passato sempre identico è
un’esperienza psicologicamente e esistenzialmente
insostenibile. Eppure tutti gli elettori di centro-sinistra,
e insieme ad essi tutti i cittadini italiani, la stanno
vivendo ormai da quando il governo Prodi cadde per
un maledetto cavillo.
Ora il risveglio è forse più vicino.
Ma, ancora, nient’affatto scontato.
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