Il politico
è una figura strana, che suscita in noi sentimenti
contrastanti che si traducono in opinioni e senso comune.
Idee che cambiano nel tempo e a seconda dei paesi. Dieci
anni fa, in Italia, al tempo di Mani Pulite, vigeva
l’equazione politico = ladro. Non a caso la retorica
pubblica confidava allora nella mitica “società
civile”: nei borghesi che avrebbero sacrificato
le proprie professioni per l’interesse comune.
Un puro spirito di sacrificio aveva contraddistinto
anche, in epoca precedente, il politico militante, fosse
esso l’intellettuale rivoluzionario di leniniana
memoria (vera “avanguardia del proletariato”),
oppure, semplicemente, il sobrio politico della Prima
Repubblica che informava i suoi comportamenti (almeno
quelli pubblici) a un pronunciato understatement.
D’altronde, come aveva teorizzato Max Weber in
un celebre discorso, la politica era da considerarsi
una vocazione, la risposta a una “chiamata”,
una missione. E se invece, si chiede l’eclettico
uomo politico e businessman napoletano Claudio
Velardi, la politica non fosse altro che una professione
come le altre? Cosa succederebbe se, piuttosto che la
scuola dei Nobili Ideali e delle Chiese, il politico
in erba fosse costretto a frequentare, semplicemente,
un corso di formazione come gli altri: una scuola in
cui si insegnino, come fossero mere abilità,
come certe metodologie e certe trucchi per vendere bene
il proprio prodotto? E poi: perché questo prodotto
dobbiamo necessariamente considerarlo più “alto”
e più “nobile” di altri? E se il
risultato da conseguire in democrazia è il consenso,
perché chiederci se il prodotto venduto sia più
“fumo” o più “arrosto”,
dimenticando da una parte che il nostro è anche
un mondo di simboli e di realtà immateriali e
dall’altra che comunque la prossima volta possiamo
non comprare ciò che ci vende il politico imbonitore?
Certo, se ci convincessimo di ciò, avremmo forse
presto nostalgia dei bei tempi andati e dei raduni con
le bandiere che sventolavano. Insieme alla acquisita
prosaicità (leggi democrazia), avremmo però
ottenuto un grande risultato: potremmo cominciare a
chiedere al politico non di volare alto, ma semplicemente
di impegnarsi a risolvere i tanti piccoli problemi del
vivere quotidiano.
Dicevamo di Velardi, uno che ha militato nel Partito
Comunista ma che oggi lo si può accomunare a
Lenin per un solo motivo: la passione per Capri. Il
nostro non è uomo di molte parole. E, postesi
forse le nostre stesse domande, in men che non si dica,
ha messo su Running, la prima società italiana
che organizza corsi in cui si insegna a fare politica
nell’età della comunicazione globale. A
supporto delle lezioni (che cominceranno il 3 ottobre),
quest’anno gli apprendisti politici troveranno,
fresco di stampa, il primo di una serie di manuali sul
tema: l’Introduzione al marketing politico
di Stefano Colarieti e Paolo Guarino, che inaugura una
collana diretta da Velardi presso Luiss University Press
(pagine 228, euro 15,00, con due interventi di Jacques
Séguéla e Philip Gould).
Il volume è diviso in tre parti: i lettori
trovano dapprima un inquadramento politico-istituzionale
(soprattutto alla luce delle recenti riforme della Pubblica
Amministrazione); poi, nella seconda sezione, una riflessione
sull’ “oggetto” del libro (cosa è
il marketing politico, ovvero la sua natura e i suoi
limiti); infine una serie di strumenti pratici, una
“cassetta degli attrezzi” fatta di metodologie
e strumenti di comunicazione. Inutile dire che quest’ultima,
è la parte più interessante. Fermi all’assunto
che “come comunichiamo conta e viene ricordato
più di ciò che abbiamo detto”, i
due autori ci insegnano, ad esempio, come curare l’aspetto
fisico e l’abbigliamento, come usare i gesti,
quale postura adottare, come lavorare sulla “mimica
facciale” e come muovere lo sguardo…Non
sono affatto parchi di suggerimenti (“una buona
posizione si raggiunge tenendo le spalle sulla linea
dei piedi e distribuendo il peso su entrambi i piedi”)
e costruiscono, quasi fossero in laboratorio, quello
che potrebbe sembrare il modello del perfetto politico
post-moderno. Un politico che è oltre la destra
e la sinistra: sempre pronto a catturare l’attenzione,
più un uomo di spettacolo che un intellettuale
o un pratico. Per costui il discorso, il ben parlare,
il convincere persuadendo è il punto centrale
della sua attività. Tanto che il libro gli offre
quasi un decalogo su cosa fare prima, durante e dopo
un discorso. Va persino nello specifico, con consigli
che potrebbero addirittura farci sorridere per la loro
ingenuità (prima di iniziare a parlare bisogna,
scrivono gli autori, “sintetizzare il discorso,
punto per punto, su fogli piccoli e numerati, per avere
una visione globale di ciò che si intende dire”).
Il mio consiglio è di non fermarsi su questi
aspetti, né sul fatto che i consigli partono
a volte da assunzioni di base non motivate (chi l’ha
detto che il politico debba vestirsi per forza bene?
Può anche vestirsi male se lo fa seguendo un
certo criterio, creando un proprio “personaggio
”. Senza dimenticare che a volte un “brutto”
come Andreotti fa più effetto e genera più
simpatia di tanti bellocci insignificanti). Il libro
è d’altronde, scrive Velardi, solo un momentaneo
punto di approdo. Più interessante può
essere invece contestare preventivamente le idee dei
detrattori, dei facili critici che sicuramente ci saranno.
Mostrando ad esempio che non di politica post-moderna
qui si tratta, ma di una politica addirittura antica
e classica. Un esempio: sul parlare corretto e sul porsi
in pubblico cose attualissime (e più profonde,
mi permettano gli autori) le ha già dette, tanti
anni fa, in quel villaggio globale che era l’Antica
Roma, Marco Tullio Cicerone.
A proposito, un suggerimento provocatorio a Velardi:
perché non ripubblicare, come secondo titolo
della collana, la Retorica dell’arpinate?
Così da poterlo poi portare in aula e farlo discutere
dai suoi allievi. Chissà, potremmo scoprire che
ciò che cercavamo (la New Politics di
cui parlano a Running) era lì già da sempre,
da tempo inutilizzata.
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