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che segue è stato pubblicato su Il
Foglio
Una catastrofe naturale si trasforma in cataclisma
politico. Scatena l’interesse frenetico dei “media”.
Emoziona tutto l’Occidente, apre discussioni infinite.
Ipnotizza il pubblico con storie d’orrore, ferocia
della natura e bestialità degli uomini, fanatismo
e superstizione. Diviene subito il disastro del secolo,
anche se le notizie su quel che è successo davvero
restano frammentarie, talvolta sono contraddittorie
(ancora oggi si ha un’idea delle distruzioni,
ma non si sa quante siano state le vittime: forse 15.000,
forse non più di 5.000). Suscita polemiche furibonde
tra gli opinion maker, gli specialisti, gli
addetti ai lavori, e anche ogni sorta di “tuttologi”.
Ciascuno ha la sua da dire, e non se ne lascia scappare
l’occasione. Si discute del perché alcuni
(i poveri) abbiano sofferto di più, e altri (i
ricchi e potenti) se la siano tutto sommato cavata.
Viene chiamato in causa il sistema politico del paese
colpito dalla tragedia, si puntano gli indici contrapposti
sulle responsabilità delle autorità (i
politici), una parte accusa l’altra. Ma soprattutto
se ne traggono “lezioni”, anch’esse
ampiamente contrastanti, su questioni che trascendono
il fatto e il luogo.
Succedeva esattamente 250 anni fa. Il terremoto che
aveva colpito Lisbona la mattina del 1 novembre 1755
era durato appena 10 minuti. Il peggio era venuto dopo,
col maremoto che aveva inondato l’intera città
bassa e gli incendi. Non fu affatto uno dei disastri
naturali più “assassini” dell’epoca,
tanto meno di tutti i tempi. Terremoti in Cina, o in
Giappone hanno fatto anche centinaia di volte più
morti (e quello stesso terremoto fece probabilmente
più morti sulla sponda africana del Mediterraneo
che in Portogallo). Ma ebbe un’eco nemmeno lontanamente
paragonabile agli altri disastri, epocale.
Lisbona, col suo porto, le sue favolose ricchezze,
il suo ruolo nei commerci tra Mediterraneo e Inghilterra,
era per l’Europa di allora quel che New Orleans,
col suo porto che si stende per 200 chilometri sulle
rive del Mississippi, è per l’economia
degli Stati Uniti. La ricostruirono più bella
di prima. Ma la discussione sui perché, violentissima,
continuò per molti decenni, impegnando e infiammando
le passioni di tutti i migliori cervelli d’Europa.
Non riguardava le vittime – presto dimenticate
– e nemmeno le distruzioni, non le disparità
per censo nell’accanimento dell’evento naturale,
non solo e non tanto le ripercussioni nella politica
interna del Portogallo e quelle internazionali, non
l’effetto serra o quale fosse il modo migliore
di difendersi da calamità del genere, ma la questione
della “Teodicea”, della “giustificazione”
della “volontà di Dio”. Ciascuno
dei protagonisti della polemica infinita tirava Dio
dalla propria (i non credenti l’assenza di Dio
quando ce ne sarebbe stato bisogno). Per fortuna oggigiorno
quasi nessuno ragiona in termini di teodicea (tranne
qualche eccezione, tipo i fanatici della jihad che sui
loro siti internet hanno definito Katrina come una mano
di Allah e Osama bin Laden, o i loro cugini Usa che
vi hanno visto una punizione divina contro i peccati
di una città troppo allegra).
Ma c’è anche chi ha visto una sorta di
versione aggiornata e moderna della teodicea “qui
all’opera nei modi in cui la reazione ad una catastrofe
naturale diventa così prontamente politica”.
Nel senso, osserva Edward Rothstein in un intervento
sul New York Times, che ogni teodicea che si
rispetti (e quindi anche quelle che non tirano direttamente
in ballo Dio) “non rovescia quello in cui si crede,
ma lo conferma. Così per alcuni commentatori
l’inondazione (di New Orleans) e il suo seguito
hanno confermato i dubbi che già avevano sull’amministrazione
Bush”.
In un delizioso libro dal titolo The Lisbon Earthquake,
scritto nel bicentenario della catastrofe (quindi ormai
mezzo secolo fa), l’allora direttore della Biblioteca
del British Museum, Sir Thomas Downing Kendrick, fornisce
una dotta e impressionante rassegna dei resoconti e
della raffica di opinioni e polemiche che si vennero
accumulando sui “media” di allora. Non solo
Voltaire, Rosseau, Kant, che prendevano spunto da Lisbona
per parlare già d’altro. Ma una caterva
di libri e pamphlet ormai dimenticati. Cose abbastanza
di buon senso, come gli scritti di un dottore portoghese
in Francia che dà consigli su come impedire le
epidemie e, soprattutto, il panico, e disserta sul valore
“sedativo” della musica. O come quelli dell’architetto
che scrive un manuale sulla ricostruzione e sostiene,
en passant, che “ci si dovrebbe abituare
a pensare ai terremoti esattamente come si pensa agli
uragani”. Altre che suonano come pure scempiaggini.
Il tema che domina tutti gli altri – compresi
quelli del cercare di capire cosa è successo
davvero e del vedere come si possa aiutare i sopravvissuti
– è quello dell’ “ira di Dio”.
Che ciascuno degli intervenuti si preoccupa di volgere
a sostegno della propria parte, con gli argomenti più
disparati e curiosi. Che si fosse trattato di un castigo
divino era un giudizio condiviso della Chiesa ufficiale
e dalla maggioranza del clero. Uno stuolo di predicatori
portò l’argomento all’estremo.
Tra questi si distingueva un gesuita, italiano di nascita,
Gabriel Malagrida, già missionario in Brasile.
Oratore formidabile, di quelli che si lanciano a testa
bassa, uomo indubbiamente coraggioso, e anche in odore
di santità. Ma forse, come tutti i fanatici,
anche un po’ matto. “Sappi o Lisbona, che
il distruttore delle nostre case, palazzi, chiese e
conventi, la causa della morte di tanta gente e delle
fiamme che hanno divorato così ricchi tesori,
sono i tuoi abominevoli peccati, e non comete, stelle,
vapori ed esalazioni, e simili fenomeni naturali. Lisbona
è ora un cumulo di rovine. Magari fosse meno
difficile pensare una qualche maniera di rimetterla
in piedi; ma è stata abbandonata, e i profughi
vivono nella disperazione. E quanto ai morti, quale
messe di anime peccatrici mandano all’inferno
disastri come questi! È scandaloso pretendere
che il terremoto sia stato solo un evento naturale,
perché se questo fosse vero, non ci sarebbe bisogno
di pentirsi e cercare di evitare la collera di Dio…
il caso di Lisbona è davvero disperato.. occorre
dedicare tutti i nostri sforzi al pentimento…
magari si vedesse tanto fervore e determinazione a questo
esercizio necessario, quanta se ne vede nell’edificazione
di nuovi edifici!”.
Non si trattava solo di una diversa valutazione delle
“priorità”: fare innanzitutto “pace
con Dio”, prima ancora di occuparsi dei sopravvissuti
e mettersi anche solo a pensare alla ricostruzione.
La cosa micidiale era che si accompagnava al fiorire
di profezie (comprese quelle di chi aveva “previsto”
la catastrofe, o aveva ricevuto da “alto loco”
avvertimenti dettagliati), preannunci di altri e ancor
più tremendi disastri, voci incontrollate di
ogni risma, che finirono per creare un clima di panico
permanente. Per mesi, forse per anni. L’interpretazione
aveva un punto debole: la questione irrisolta del perché
la collera divina si fosse abbattuta su una delle città
più religiose e timorate di Dio d’Europa,
e non, mettiamo, sugli infedeli che infestavano la riva
opposta del Mediterraneo, o sugli eretici, o sulle “mondane”
Parigi e Londra. La Lisbona colpita dal terremoto aveva
una quarantina di grandi chiese e cattedrali, un numero
ancora maggiore di chiese minori, una novantina di conventi,
e proprio i luoghi di culto erano stati quelli che avevano
subito le maggiori distruzioni. Molte delle vittime
si erano avute nelle chiese, dove al momento della scossa
si celebrava la messa di Ognissanti.
Qualcuno tirò in ballo la teoria che si trattava
di “avvertimenti”, il Signore non avrebbe
tardato a colpire ancora più duramente gli altri,
gli infedeli musulmani, i miscredenti protestanti, gli
atei. Altri, dalla sponda opposta, oggi diremmo più
“liberal”, dello schieramento di religione
in Europa, ne approfittarono per sostenere, con altrettanta
sicurezza e veemenza, che la “punizione”
era diretta contro lo snaturamento estremista e conservatore,
contro la corruzione dei religiosi ultrà e contro
l’eccesso di entusiasmo dei portoghesi nell’abbracciare
i gesuiti e l’Inquisizione importata dalla Spagna.
Il giansenista francese Laurent-Etienne Rondet scrisse
un intero libro di oltre 700 pagine, Réflexions
sur le Désastre de Lisbonne per dimostrare
che per mezzo di Lisbona Dio lanciava un avvertimento
all’intera Europa perché abbandonasse l’inquisizione
e l’estremismo religioso e tornasse ad una maggiore
tolleranza. Un portoghese esule, convertitosi protestante,
il cavaliere de Oliveira, scrisse un libro dopo l’altro
per denunciare la “diabolica, infernale e ridicola”
adorazione delle immagini e delle reliquie, l’
“odioso tribunale” dell’Inquisizione,
e il particolarmente brutale trattamento riservato in
Portogallo agli ebrei (così controproducente
anche dal punto di vista economico: “È
così che vogliamo promuovere il commercio, o
far fiorire arti e scienze?”). Si rivolgeva direttamente
al Re per invitarlo a liberarsi dalla nefasta influenza
dei gesuiti, parteggiare per “verità e
ragione”, rompere l’isolamento “invitando
teologi di altre nazioni, specialmente Francia e Germania”.
Non pare che questi argomenti, per così dire
“progressisti”, abbiano avuto molto successo
tra i portoghesi, che continuarono ad affidarsi alle
loro reliquie sante e prestare orecchio alle profezie
e apparizioni dei Santi e della Madonna. Ad almeno una
ventina di crocifissi e rappresentazioni di Cristo vennero
attribuiti miracoli, e di almeno un paio si disse che
parlavano; erano attribuiti miracoli ad almeno una dozzina
di celebri immagini della Vergine, e così a diverse
centinaia di immagini di Sant’Antonio da Padova,
patrono del natìo Portogallo; di una si dava
per accertato che fosse saltata in un pozzo per recuperare
offerte rubate, di altre che avessero pianto dopo il
terremoto; si celebrarono immagini trovate miracolosamente
illese nelle macerie. Ma al diffondersi di ogni nuovo
allarme apocalittico e profezia, la gente ricominciava
biblici esodi dalla città in lunghissime e caotiche
processioni, santi in testa, finché non si dovette
fare intervenire le truppe per bloccarli.
Non tutta Lisbona era stata colpita allo stesso modo.
Anche se un terzo della città fu distrutta, il
bilancio delle vittime fu secondo diverse fonti molto
minore di quanto avevano fatto temere le prime catastrofiche
notizie arrivate nelle capitali del resto d’Europa
(le notizie viaggiavano a rilento, ci vollero mesi per
avere un’idea). L’alluvione della Cidade
Baixa in seguito al maremoto e allo straripamento del
Tago, e gli incendi alimentati da un forte vento uccisero
forse più persone dei crolli. Tra gli episodi
più atroci quello di 400 pazienti bruciati vivi
nell’Hospital Real (eppure pare che, a differenza
dei poveri vecchietti annegati nell’ospizio di
New Orleans, pare che almeno qualcuno avesse cercato
di salvarli). Nelle settimane successive morirono molte
più persone – forse il doppio o il triplo
- che il giorno del terremoto. I benestanti abitavano
in collina (Lisbona viene definita la città dei
sette colli, come Roma). I più poveri nella “città
bassa”. Uno dei problemi fu a quanto pare che
molti si ostinavano a restare nelle loro case in rovina
nella città bassa: “rifiutavano di abbandonare
il quartiere che aveva ospitato le loro case e le loro
botteghe, alcuni erano troppo poveri per permettersi
di costruirsi una baracca nei campi suburbani”.
La tragedia aveva colpito tutti, senza distinzione
di censo, ma alcuni li aveva colpiti più degli
altri. Delle decine di migliaia di preti, monaci e suore,
all’appello definitivo ne vennero a mancare meno
di 200. La nutritissima comunità commerciale
internazionale, forse la più numerosa e fiorente
dell’Europa di allora, se la cavò con un
numero basso di perdite in termini di vite umane: la
presenza più numerosa era quella britannica,
contarono appena 77 morti (tra cui 49 donne). La nobiltà
e le altre “persone di distinzione”, meglio
ancora: registrò meno di una ventina di vittime.
Tra gli sfollati c’era anche il sovrano e la corte,
ma gli costruirono una tendopoli. Molti “grandi”,
come il marchese de Louriçal, avevano perso i
palazzi, ma si fece costruire una magnifica magione
di legno. Non passò molto tempo che nelle loro
residenze di fortuna i signori ripresero la dolce vita
di un tempo. Forse fin troppo ostentatamente allegra,
se giusto un anno dopo la catastrofe il Patriarca di
Lisbona, anche lui confortevolmente rialloggiato, si
sentì in dovere di proibire alle signore l’ostentazione
in chiesa di cappellini colorati al posto del velo nero.
Non molto diversamente dalle grandi famiglie di New
Orleans, che stando a quanto leggiamo in un servizio
del Wall Street Journal, hanno già recuperato
l’uso, piscina compresa, delle loro magioni “uptown”,
a ridosso dell’Audubon Park e “hanno grandi
piani per il futuro”. Non sarebbe il primo caso
in cui la vita continua anche dopo la più terrificante
delle catastrofi. Non è forse così scontato
che, come molti temono, New Orleans debba finire nel
novero delle molte città “scomparse”
della storia umana. Magari a prezzo di qualche pesante
compromesso, tipo quello che segnò la ricostruzione
di Noto dopo il terremoto del 1693, circa mezzo secolo
prima di quello di Lisbona. I più ricchi si trasferirono
in un’area più alta e ben protetta, i plebei
in un’area più bassa e più a rischio,
nel dedalo di vicoli che da un paio di secoli caratterizza
in modo pressoché inalterato la città
siciliana considerata una delle più belle espressioni
del barocco. Una divisione di classe “impressa
nella toponomastica delle strade”, sostiene uno
dei massimi esperti di Noto, l’urbanista Stephen
Tobriner, nel commentare recenti foto aeree. La conseguenza
è che ogni volta che la terra trema (quattro-cinque
volte per secolo), crollano le case dei più poveri
e magari la splendida cattedrale, ma Noto è sempre
lì, in bilico. Gli Asburgo spagnoli non avevano
voglia di intervenire nelle dispute locali, né
investire troppa energia e finanziamenti nel loro lontano
possesso siciliano (a differenza dei Borboni napoletani,
che nel ‘700 avrebbero addirittura inventato una
città antisismica). Noto non ebbe un suo marchese
di Pombal.
Ogni grande catastrofe (quelle naturali, ma anche quelle
umane, si pensi alle due guerre mondiali) è a
ben vedere definita dal dopo-catastrofe. Nel caso di
Lisbona, il personaggio centrale è Sebastiao
José de Carvalho y Mello, poi Conde de Oeiras,
e infine Marchese di Pombal, il titolo conferitogli
nel 1770 e con cui dà il nome alla principale
piazza della città, e alla Lisbona di oggi (di
cui si dice che è stata ricostruita in stile
“pombaliano”, alla stessa stregua con cui
il barone Haussmann viene associato alla Parigi dei
grandi boulevard post rivoluzioni ottocentesche, e il
sindaco “power-broker” Robert Moses alla
New York che conosciamo). “Seppellire i morti
e sfamare i vivi” è la frase lapidaria
che gli viene attribuita in risposta al suo re (l’allora
appena trentaseienne Don José) che, sgomento
per le dimensioni della catastrofe, gli chiedeva che
cosa si sarebbe dovuto fare. Mentre gli altri discutevano
e recriminavano, l’Europa giudicava e filosofeggiava,
predicatori e profeti annunciavano nuovi disastri, i
teologi si dilaniavano sull’interpretazione della
collera divina, tirando ciascuno Dio per la manica nelle
propria parrocchia, i dignitari si palleggiavano le
responsabilità, le cancellerie estere calcolavano
i vantaggi e la maggiore influenza che gli avrebbero
potuto portare gli aiuti, il modesto gentiluomo di campagna
da poco divenuto ministro degli Esteri e della Guerra,
prese in mano la situazione e si fece in pratica dittatore
del Portogallo.
Non era facile né seppellire i morti né
garantire la sopravvivenza ai vivi. La prima preoccupazione
era impedire lo scoppio di epidemie e risolvere il problema
dei cadaveri e delle carogne di animali che marcivano
sotto le macerie e nelle pozze di acqua stagnante e
putrida lasciate dall’alluvione. Il 2 novembre,
a meno di 24 ore dal terremoto, propose al cardinale
patriarca che il modo più efficace di risolvere
il problema era raccogliere i cadaveri, caricarli su
barconi e affondarli oltre la foce del Tago. Fu fatto
con discrezione, cercando che la gente non se ne accorgesse.
Ma gli valse da parte dei predicatori l’accusa
di empietà. Fece requisire tutti i granai nei
dintorni della città, e anche le provviste sulle
navi ancorate in porto, tutti i trasporti, impose controlli
severissimi sui prezzi, non si scordò di prestare
particolare attenzione alle necessità di coloro
che si trovavano negli ospedali, negli ospizi, e persino
nelle prigioni. Prese immediate misure per mettere fine
al caos, ai saccheggi, garantire sicurezza e ordine
pubblico. Al terzo giorno, il 4 novembre, aveva già
firmato l’autorizzazione all’esecuzione
sommaria di chiunque fosse stato colto a rubare o in
atti di sciacallaggio e fece erigere una forca in ciascun
quartiere della città. Nel giro di pochi giorni
furono impiccate 34 persone, 11 portoghesi, 10 spagnoli,
5 irlandesi, 3 savoiardi, un polacco, un fiammingo e
un moro. Le forche rimasero in bella vista a monito
per oltre un anno. Insomma, fece in poche ore, coi mezzi
del XVIII secolo, quello per cui a New Orleans, nel
XXI secolo, ci sarebbe voluta una settimana. Pretese
che le transazioni commerciali e finanziarie non si
interrompessero, e che gli addetti alle banche e agli
scambi continuassero l’attività per quanto
possibile. Riuscì persino a far sì che
le tipografie tornassero subito a funzionare (gli servivano
per stampare gli editti) e a far uscire regolarmente
la Gazeta de Lisboa, settimanale, il 5 novembre, senza
che slittasse nemmeno di un giorno la data di pubblicazione.
Incoraggiò in ogni maniera gli sfollati a rientrare,
e giunse ad inviare la forza pubblica nelle campagne
a precettare gli artigiani e gli specialisti che gli
occorrevano per la ricostruzione. I modi energici, sbrigativi
e spietati, gli valsero odii profondi, l’opposizione
dei maggiorenti e dei grandi nobili che si sentivano
scavalcati. Deluse e irritò gli inglesi, che
erano già padroni dell’economia del Portogallo,
rifiutandogli gli ulteriori privilegi commerciali che
speravano dagli aiuti. Ruppe con la Chiesa, che accusava
di frenare la ricostruzione, espellendo i gesuiti. Gli
ci volle un po’ più di tempo, qualche anno,
per regolare i conti con il predicatore Malagrida, che
tanto lo aveva infastidito coi suoi sermoni. Lo fece
prima allontanare, poi arrestare e condannare come eretico.
Tra le accuse: l’aver preso parte ad un complotto
per assassinare il re (in realtà si era limitato
a profetizzare un assassinio) e l’aver scritto
“libri disgustosi” in cui si sarebbe addentrato
nei dettagli della vita sessuale di Sant’Anna,
della Vergine e persino di “Nostro Signore Gesù
Cristo”, nonché di aver fatto false profezie
pretendendo di conversare con gli spiriti. In un autodafè
spettacolare il 21 settembre 1761, durato un intero
giorno, il gesuita fu pubblicamente strangolato e poi
bruciato di notte, al chiarore delle fiaccole. E tanto
per non scontentare nessuno, sullo stesso rogo fu bruciato
in effige il cavaliere de Oliveira, la bell’anima
riformista in esilio. Quel rogo fece inorridire l’Europa
benpensante, più ancora di quanto l’avesse
fatta inorridire il terremoto. Voltaire lo riprese nel
suo Candide, attribuendolo però all’Inquisizione,
non al mangiapreti Pombal.
Il marchese de Pombal era come il George W. Bush del
Portogallo di allora? Rovescerei la domanda: mi pare
più pertinente chiedersi a questo punto se Bush
è in grado, o riuscirà nel dopo-catastrofe
ad esercitare una leadership tipo quella del marchese.
Pombal non era eletto da nessuno, ma la sua “dittatura”
durò 27 anni, per l’intero regno di José
I. Tra i meriti che gli vengono attribuiti nelle agiografie
contemporanee c’è l’aver “seppellito
o morti, rialzato il morale, organizzato gli approvvigionamenti,
usato bene l’esercito, protetto il paese dai pirati
africani (i terroristi di allora), mantenuto una stretta
disciplina militare, protetto le suore, soppresso i
gesuiti, incoraggiato il commercio, ricostruito la città”.
Il che non gli impedì comunque di finir male:
la sua carriera finì con la morte del suo re,
i molti nemici che si era fatto presero la loro rivincita,
e morì in disgrazia, cacciato da Lisbona.
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