L’articolo
che segue è stato pubblicato su Il
Secolo XIX
Che cos’è la questione islamica in Italia?
Se sfogliassimo i giornali di queste ultime due settimane
sembrerebbe una questione amministrativa. Vista come
questione di sicurezza, oppure come questione abitativa.
Nel primo caso il problema è rappresentato dalle
espulsioni e dai rimpatri avviati con le nuove norme
antiterrorismo stabilite con la legge Pisanu successiva
agli attentati di Londra del luglio scorso. Nel secondo
caso dalla non apertura della scuola islamica di Via
Quaranta a Milano, dichiarata inagibile, assunta come
problema da risolvere da parte dell’amministrazione
del sindaco Albertini, poi rimasta a mezz’aria
senza che si profili una soluzione. Alla fine il tema
dell’Islam in Italia si riduce a un solo metro
e a un solo parametro: quello dell’ordine pubblico.
Si è così determinato un cortocircuito:
la questione del terrorismo è divenuta quella
relativa al controllo o meno delle scuole islamiche,
della loro legittimità. In mezzo si sono sommate
altre questioni in un qualche modo connesse ad entrambe:
la polemica a proposito della consulenza sulle questioni
di cultura islamica data da Tony Blair all’intellettuale
Tariq Ramadan, e quella sulla opportunità di
aprire nei modi e nelle forme con cui è stata
avviata dal Ministro Pisanu, la Consulta con gli islamici.
In ballo non c’è la politica di prevenzione
o di controllo: se sia lecito dotarsi di una direttiva
più severa o se ci siano da fare (e dove) interventi
migliorativi tecnici o giuridici. Non è mia competenza
e dunque non ne discuto. Piuttosto la questione è
la seguente: come si sta sviluppando una discussione
pubblica sulla presenza islamica in Italia e quali nervi
scoperti quella discussione evidenzia.
Il problema della scuola islamica parificata –
una tipologia di scuola che riguarda molte altre realtà
confessionali in Italia – diventa un segnalatore
interessante e significativo delle difficoltà
con cui ancora stentiamo a misurarci con una realtà
in crescita in Italia. Nei giorni scorsi il Ministro
all’Istruzione Moratti ha avanzato l’ipotesi
di un accoglimento nella scuola pubblica di giovani
musulmani, anche col velo, dichiarando in questo una
maggiore modernità rispetto alla legislazione
francese che appunto vieta il velo e, più generalmente,
l’ostentazione dei simboli di appartenenza nella
scuola pubblica. Una posizione all’avanguardia,
qualcuno avrà detto. Ne dubito. Perché
il problema non è il velo, ma quale clima si
costruisce nel cosmo di una classe, più generalmente
di una scuola, intorno a quella “novità”.
La presenza in una realtà fino ad oggi confessionalmente
omogenea, comunque caratterizzata dal ritorno in forze
della identità religiosa, infatti può
essere solo secondo due moduli: o in una dimensione
di pluriconfessionalismo determinato da un rapporto
tra maggioranze e minoranze secondo il canone della
confessione ammessa, al più guardata come eccentrica;
o in una continua sfida che ha come premessa la centralità
di una confessione, per di più con il problema
di riaffermare la propria presenza militante in una
società secolarizzata. In ogni caso il tema è
quello delle identità individuali che non si
modificano, che forse hanno l’opportunità
di incontrarsi, ma che rimangono inalterate. Ci si incontra
– forse – per rimanere reciprocamente “estranei”.
La dimensione della multiculturalità degli individui
rimane una prospettiva non solo lontana, ma nemmeno
inserita in agenda. La riduzione anche della questione
scolastica a un problema di ordine dunque allude a un
passaggio non ancora compiuto nella società italiana.
Un passaggio che non può solo costruirsi sulla
buona volontà, ma che ha bisogno di un surplus
di filosofia pubblica.
Il Corriere Milano di lunedì 12 settembre
ha in prima pagina una lettera aperta di Gaspare Barbiellini
Amidei agli studenti stranieri in classe nella scuola
italiana. Quel testo è interessante, è
encomiabile per le intenzioni, ma tace su una questione
che non possiamo accantonare. “Lasciate fuori
dalla porta dell’aula - scrive Barbiellini Amidei
- la retorica e la confusa polemica degli adulti. Nessuno
può chiedervi di smemorarvi della vostra lingua
e della vostra religione. (…) È interesse
di tutti che voi cresciate rimanendo voi stessi e allo
stesso tempo diventando pieni cittadini. Iscriversi
a scuola è stato un gesto di civismo da parte
dei vostri genitori. È anche una parola data,
aiutateli a rispettarla”. Bene. Sottoscriviamo,
ma non illudiamoci, né limitiamoci alla politica
della comprensione il primo giorno di scuola: la guerra
di civiltà è anche dalla nostra parte,
dalla parte di chi grida di subirla ma allo stesso tempo
la coltiva perché crede che sia l’unico
percorso proponibile per vincerla, una volta che l’ha
diagnosticata nel proprio avversario.
E neppure un’omelia sull’emozione di incontrarsi
ha qualche utilità. Nella strada lungo la quale
si produce scontro tra vissuti culturali nella convinzione
comune che convivere si deve – non perché
convivere “è bello”, ma perché
“conviene” – si danno molte battute
d’arresto e molte incertezze. Quelle incertezze
si superano solo attraverso l’assunzione di una
dimensione laica, ovvero collocandosi all’opposto
di molta cultura diffusa che vede invece il ritorno
della religione come forza attrattiva. La partita che
abbiamo di fronte quindi non è solo che cosa
dobbiamo pensare dell’Islam (e se dobbiamo almeno
avere la percezione che ci siano musulmani nella società
e non un indistinto islam più simile ai “saraceni”
e ai “pirati”, che non a un sistema culturale
variamente e distintamente vissuto e praticato al suo
interno), ma se siamo in grado di ripensare e rifondare
una moderna e aggiornata dimensione della laicità.
La vera dimensione assente in tutto questo dibattito.
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