285 - 28.09.05


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Laici, a partire
dalla scuola

David Bidussa



L’articolo che segue è stato pubblicato su Il Secolo XIX

Che cos’è la questione islamica in Italia? Se sfogliassimo i giornali di queste ultime due settimane sembrerebbe una questione amministrativa. Vista come questione di sicurezza, oppure come questione abitativa. Nel primo caso il problema è rappresentato dalle espulsioni e dai rimpatri avviati con le nuove norme antiterrorismo stabilite con la legge Pisanu successiva agli attentati di Londra del luglio scorso. Nel secondo caso dalla non apertura della scuola islamica di Via Quaranta a Milano, dichiarata inagibile, assunta come problema da risolvere da parte dell’amministrazione del sindaco Albertini, poi rimasta a mezz’aria senza che si profili una soluzione. Alla fine il tema dell’Islam in Italia si riduce a un solo metro e a un solo parametro: quello dell’ordine pubblico.

Si è così determinato un cortocircuito: la questione del terrorismo è divenuta quella relativa al controllo o meno delle scuole islamiche, della loro legittimità. In mezzo si sono sommate altre questioni in un qualche modo connesse ad entrambe: la polemica a proposito della consulenza sulle questioni di cultura islamica data da Tony Blair all’intellettuale Tariq Ramadan, e quella sulla opportunità di aprire nei modi e nelle forme con cui è stata avviata dal Ministro Pisanu, la Consulta con gli islamici. In ballo non c’è la politica di prevenzione o di controllo: se sia lecito dotarsi di una direttiva più severa o se ci siano da fare (e dove) interventi migliorativi tecnici o giuridici. Non è mia competenza e dunque non ne discuto. Piuttosto la questione è la seguente: come si sta sviluppando una discussione pubblica sulla presenza islamica in Italia e quali nervi scoperti quella discussione evidenzia.

Il problema della scuola islamica parificata – una tipologia di scuola che riguarda molte altre realtà confessionali in Italia – diventa un segnalatore interessante e significativo delle difficoltà con cui ancora stentiamo a misurarci con una realtà in crescita in Italia. Nei giorni scorsi il Ministro all’Istruzione Moratti ha avanzato l’ipotesi di un accoglimento nella scuola pubblica di giovani musulmani, anche col velo, dichiarando in questo una maggiore modernità rispetto alla legislazione francese che appunto vieta il velo e, più generalmente, l’ostentazione dei simboli di appartenenza nella scuola pubblica. Una posizione all’avanguardia, qualcuno avrà detto. Ne dubito. Perché il problema non è il velo, ma quale clima si costruisce nel cosmo di una classe, più generalmente di una scuola, intorno a quella “novità”.

La presenza in una realtà fino ad oggi confessionalmente omogenea, comunque caratterizzata dal ritorno in forze della identità religiosa, infatti può essere solo secondo due moduli: o in una dimensione di pluriconfessionalismo determinato da un rapporto tra maggioranze e minoranze secondo il canone della confessione ammessa, al più guardata come eccentrica; o in una continua sfida che ha come premessa la centralità di una confessione, per di più con il problema di riaffermare la propria presenza militante in una società secolarizzata. In ogni caso il tema è quello delle identità individuali che non si modificano, che forse hanno l’opportunità di incontrarsi, ma che rimangono inalterate. Ci si incontra – forse – per rimanere reciprocamente “estranei”. La dimensione della multiculturalità degli individui rimane una prospettiva non solo lontana, ma nemmeno inserita in agenda. La riduzione anche della questione scolastica a un problema di ordine dunque allude a un passaggio non ancora compiuto nella società italiana. Un passaggio che non può solo costruirsi sulla buona volontà, ma che ha bisogno di un surplus di filosofia pubblica.

Il Corriere Milano di lunedì 12 settembre ha in prima pagina una lettera aperta di Gaspare Barbiellini Amidei agli studenti stranieri in classe nella scuola italiana. Quel testo è interessante, è encomiabile per le intenzioni, ma tace su una questione che non possiamo accantonare. “Lasciate fuori dalla porta dell’aula - scrive Barbiellini Amidei - la retorica e la confusa polemica degli adulti. Nessuno può chiedervi di smemorarvi della vostra lingua e della vostra religione. (…) È interesse di tutti che voi cresciate rimanendo voi stessi e allo stesso tempo diventando pieni cittadini. Iscriversi a scuola è stato un gesto di civismo da parte dei vostri genitori. È anche una parola data, aiutateli a rispettarla”. Bene. Sottoscriviamo, ma non illudiamoci, né limitiamoci alla politica della comprensione il primo giorno di scuola: la guerra di civiltà è anche dalla nostra parte, dalla parte di chi grida di subirla ma allo stesso tempo la coltiva perché crede che sia l’unico percorso proponibile per vincerla, una volta che l’ha diagnosticata nel proprio avversario.

E neppure un’omelia sull’emozione di incontrarsi ha qualche utilità. Nella strada lungo la quale si produce scontro tra vissuti culturali nella convinzione comune che convivere si deve – non perché convivere “è bello”, ma perché “conviene” – si danno molte battute d’arresto e molte incertezze. Quelle incertezze si superano solo attraverso l’assunzione di una dimensione laica, ovvero collocandosi all’opposto di molta cultura diffusa che vede invece il ritorno della religione come forza attrattiva. La partita che abbiamo di fronte quindi non è solo che cosa dobbiamo pensare dell’Islam (e se dobbiamo almeno avere la percezione che ci siano musulmani nella società e non un indistinto islam più simile ai “saraceni” e ai “pirati”, che non a un sistema culturale variamente e distintamente vissuto e praticato al suo interno), ma se siamo in grado di ripensare e rifondare una moderna e aggiornata dimensione della laicità. La vera dimensione assente in tutto questo dibattito.

 

 

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