Una volta
era diverso, ha scritto Philip Gordon: “Sentite
se questa storia vi suona familiare. Una grande potenza
occidentale, a lungo responsabile della sicurezza del
Medio Oriente, si spazientisce sempre più per
la posizione intransigente dei leader nazionalisti iraniani”.
Dopo anni di trattative fallite, racconta ancora l’analista
del think-tank democratico Brookings Institution,
gli alleati della grande potenza occidentale inviano
i propri negoziatori a Teheran e offrono un compromesso,
ma la grande potenza lo considera un cedimento, e prepara
le armi per attaccare l’Iran.
Potrebbe sembrare quello che sta accadendo oggi, spiega
Gordon, con gli Stati Uniti (la grande potenza occidentale)
delusi dai lunghi negoziati degli europei e pronti ad
attaccare l’Iran. Ma non lo è. Questa storia
è infatti ambientata nel 1951, e la potenza occidentale
arrabbiata con Teheran è europea (la Gran Bretagna)
e l’alleato negoziatore è l’America
del presidente Harry Truman. Quando l’Europa controllava
il Medio Oriente, con le buone e con le cattive. E l’America,
tutt’al più, mediava. Allora il casus
belli non era rappresentato dalla minaccia nucleare
di Teheran, ma dal piano di nazionalizzazione dell’industria
petrolifera da parte del regime di Mohammad Mosaddeq.
L’amministrazione Truman temeva che la linea dura
di Londra radicalizzasse ancor più in senso anti-occidentale
Teheran, e Dean Acheson, Segretario di Stato americano,
reputava una follia il piano di invasione britannico.
“Oggi le parti si sono invertite”, scrive
Philip Gordon su Survival, la rivista dell’International
Institute for Strategic Studies di Londra: “Non
così tanto tempo fa, gli europei erano sicuri
di sé, interventisti e militaristi, mentre gli
americani erano sempre pronti al compromesso, e insistevano
sulla necessità dell’applicazione del diritto
internazionale e sulla collaborazione delle Nazioni
Unite”. Anche se la storia non si ripete mai esattamente,
ammette Gordon, cosa si può imparare da tutto
ciò? Beh, anzitutto, che l’Europa è
meno incline all’uso della forza non perché
sia moralmente superiore agli Stati Uniti, ma perché
semplicemente è più debole: “Le
prospettive e le politiche di una nazione derivano dal
suo potere relativo, dalle sue responsabilità
globali e dalla sua storia – argomenta il direttore
del centro studi euro-americano della Brookings –
Oggi, nel medio Oriente, gli Stati Uniti non fanno che
ricalcare le orme degli europei, che quando erano la
più grande potenza del mondo ritenevano necessario
usare anche la forza per rimodellare la regione”.
Per Gordon l’America farebbe bene a evitare gli
errori che allora compì l’Europa, ovvero
“le tentazioni imperialiste, l’arroganza,
l’iperottimismo, l’affidarsi eccessivamente
all’uso della forza e l’agire senza legittimazione”.
Il discorso di Gordon è interessante: l’Europa
allora era sicura di sé, interventista e militarista.
Ma se oggi è il contrario, cosa sarà domani?
Secondo Gordon è solo una questione ciclica,
di potenza, e un’Europa nuovamente potente e sicura
di sé tornerebbe a maneggiare le armi con più
disinvoltura. Ma non dovremmo invece credere che questi
ultimi 60 anni di pace interna abbiano iscritto nel
dna dell’Europa, o almeno delle sue opinioni pubbliche,
un “pacifismo” ormai incancellabile, così
come il mito della frontiera ha donato al dna dell’America
un incancellabile individualismo?
Delle tre caratteristiche (sicurezza di sé, interventismo
e militarismo) forse il militarismo (o meglio “il
militarismo irragionevole”, quello dell’Europa
di sessant’anni fa e quello dell’America
di Bush junior) è definitivamente uscito dall’ottica
europea. Se solo ritornerà ad esser sicura di
sé, e in questo Gordon ha perfettamente ragione,
allora l’Europa saprà recuperare anche
un sano e convincente interventismo politico globale.
Quello di cui la comunità internazionale ha urgente
bisogno, visto il fallimento dell’attuale amministrazione
americana. Quello che saprebbe davvero persuadere un’Iran
che punti al nucleare. E che eviterebbe al mondo la
ripetizione del finale della storia del 1951, quando
la Gran Bretagna, respinto ogni compromesso, riuscì
a convincere gli americani a sostenere il “cambio
di regime” del 1953. Un’ingerenza interessata
e di breve respiro, un colpo di stato che servì
solo a alimentare l’ostilità antioccidentale
nel paese. E che da molti autorevoli analisti iraniani
è considerata una delle prime cause della mancata
democratizzazione di Teheran.
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