284 - 14.09.05


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Quando l’Europa
era interventista

Daniele Castellani Perelli



Una volta era diverso, ha scritto Philip Gordon: “Sentite se questa storia vi suona familiare. Una grande potenza occidentale, a lungo responsabile della sicurezza del Medio Oriente, si spazientisce sempre più per la posizione intransigente dei leader nazionalisti iraniani”. Dopo anni di trattative fallite, racconta ancora l’analista del think-tank democratico Brookings Institution, gli alleati della grande potenza occidentale inviano i propri negoziatori a Teheran e offrono un compromesso, ma la grande potenza lo considera un cedimento, e prepara le armi per attaccare l’Iran.

Potrebbe sembrare quello che sta accadendo oggi, spiega Gordon, con gli Stati Uniti (la grande potenza occidentale) delusi dai lunghi negoziati degli europei e pronti ad attaccare l’Iran. Ma non lo è. Questa storia è infatti ambientata nel 1951, e la potenza occidentale arrabbiata con Teheran è europea (la Gran Bretagna) e l’alleato negoziatore è l’America del presidente Harry Truman. Quando l’Europa controllava il Medio Oriente, con le buone e con le cattive. E l’America, tutt’al più, mediava. Allora il casus belli non era rappresentato dalla minaccia nucleare di Teheran, ma dal piano di nazionalizzazione dell’industria petrolifera da parte del regime di Mohammad Mosaddeq. L’amministrazione Truman temeva che la linea dura di Londra radicalizzasse ancor più in senso anti-occidentale Teheran, e Dean Acheson, Segretario di Stato americano, reputava una follia il piano di invasione britannico.

“Oggi le parti si sono invertite”, scrive Philip Gordon su Survival, la rivista dell’International Institute for Strategic Studies di Londra: “Non così tanto tempo fa, gli europei erano sicuri di sé, interventisti e militaristi, mentre gli americani erano sempre pronti al compromesso, e insistevano sulla necessità dell’applicazione del diritto internazionale e sulla collaborazione delle Nazioni Unite”. Anche se la storia non si ripete mai esattamente, ammette Gordon, cosa si può imparare da tutto ciò? Beh, anzitutto, che l’Europa è meno incline all’uso della forza non perché sia moralmente superiore agli Stati Uniti, ma perché semplicemente è più debole: “Le prospettive e le politiche di una nazione derivano dal suo potere relativo, dalle sue responsabilità globali e dalla sua storia – argomenta il direttore del centro studi euro-americano della Brookings – Oggi, nel medio Oriente, gli Stati Uniti non fanno che ricalcare le orme degli europei, che quando erano la più grande potenza del mondo ritenevano necessario usare anche la forza per rimodellare la regione”.

Per Gordon l’America farebbe bene a evitare gli errori che allora compì l’Europa, ovvero “le tentazioni imperialiste, l’arroganza, l’iperottimismo, l’affidarsi eccessivamente all’uso della forza e l’agire senza legittimazione”. Il discorso di Gordon è interessante: l’Europa allora era sicura di sé, interventista e militarista. Ma se oggi è il contrario, cosa sarà domani? Secondo Gordon è solo una questione ciclica, di potenza, e un’Europa nuovamente potente e sicura di sé tornerebbe a maneggiare le armi con più disinvoltura. Ma non dovremmo invece credere che questi ultimi 60 anni di pace interna abbiano iscritto nel dna dell’Europa, o almeno delle sue opinioni pubbliche, un “pacifismo” ormai incancellabile, così come il mito della frontiera ha donato al dna dell’America un incancellabile individualismo?
Delle tre caratteristiche (sicurezza di sé, interventismo e militarismo) forse il militarismo (o meglio “il militarismo irragionevole”, quello dell’Europa di sessant’anni fa e quello dell’America di Bush junior) è definitivamente uscito dall’ottica europea. Se solo ritornerà ad esser sicura di sé, e in questo Gordon ha perfettamente ragione, allora l’Europa saprà recuperare anche un sano e convincente interventismo politico globale. Quello di cui la comunità internazionale ha urgente bisogno, visto il fallimento dell’attuale amministrazione americana. Quello che saprebbe davvero persuadere un’Iran che punti al nucleare. E che eviterebbe al mondo la ripetizione del finale della storia del 1951, quando la Gran Bretagna, respinto ogni compromesso, riuscì a convincere gli americani a sostenere il “cambio di regime” del 1953. Un’ingerenza interessata e di breve respiro, un colpo di stato che servì solo a alimentare l’ostilità antioccidentale nel paese. E che da molti autorevoli analisti iraniani è considerata una delle prime cause della mancata democratizzazione di Teheran.

 

 

 

 

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