283 - agosto 2005


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Stanchi di opportunismi
su scala industriale

Guido Martinotti



Credo che molti di noi, cittadini di questo paese e involontari abitanti di questa epoca, sentano occasionalmente il desiderio di “una nuova etica”, per rispondere al disagio di una società, che, nei suoi aspetti pubblici, appare profondamente corrotta, nel senso santagostiniano di mutevole.

Coloro che credono che una componente fondamentale della incorruttibilità sia il senso dell’onore e della decenza, radicato nel rispetto di se stessi e quindi nella coerenza di comportamento e di pensiero, rimangono sconcertati. Certo siamo ben lontani sia dalle shame cultures che dalle guilt cultures: chi segue le dichiarazioni degli uomini politici, ma soprattutto di quelli che si sono autonominati maestri di morale, ha, giorno dopo giorno, l’impressione che il famoso free-floating intellectual (Soziale Freischwebende Intelligenz) sia diventato così volatile e gasoso da perdere ogni parvenza di substantia. L’ossimoro viene perseguito con accanimento, così abbiamo gli atei clericali, i liberisti di valle, i socialisti nel partito del padrone e i popperiani integristi. E’ l’ondata postmodernista e decostruttivista che investe la politica, introducendovi il bricolage e il metissage di cui ci parlavano anni fa i filosofi francesi e Alberto Melucci. L’importante è, come diceva De Coubertin, partecipare, ma con un additional twist, “sempre dalla parte del più forte”.

Seguendo la regola del saggio babbo del mio amico Roger Friedland che raccomandava: “quando si parla di te sui giornali l’unica cosa di cui ti devi preoccupare è che il tuo nome sia scritto giusto”. E’ vero che, come ha dimostrato in un ponderoso saggio il filosofo Derek Parfit, la nostra persona di domani non è la medesima di oggi, neppure sul piano fisico, ma una sottile questione filosofica non può diventare la scusa per l’opportunismo di massa su scala industriale. E il bello poi è che, per rimanere nell’area ossimorica, gran numero di coloro che non riconoscerebbero la parola data neppure se la sentono, si stanno sgolando a parlare di identità. Questo termine è diventato la bandiera dell’ultimo imbecille che, come dicono gli inglesi, si scruta l’ombelico, navel gazing.

Ma come si fa a pensare a una identità qualsivoglia, locale, italiana, europea o cristiana o semplicemente umana, se i soggetti che si affannano a propugnarla appartengono a quella categoria di cristiani che, sotto l’impero ottomano, facevano la fila per diventare giaurri convertiti? Un campione delle conversioni è il filosofo Pera, che mi ricorda il personaggio di Forrest Gump che compariva dietro a ogni grande della sua epoca senza afferrare il senso dell’evento: passa da Popper, senza che apparentemente gli sia rimasto attaccato alcuno dei chiari principi popperiani, compare tra i volti dei giudici di Mani pulite, ma subito dopo, dimostrando il coefficiente d’attrito più basso della penisola italica, spunta a fianco di Berlusconi e tuona contro la magistratura.
Da Popper passa a Ratzinger, scrive un saggio a quattro mani con il futuro Papa e di colpo si trova a fare il neogiobertiano. Anche dal punto fisico il suo volto che compare qui e lì tra i grandi della Terra, ha l’indimenticabile espressione di Tom Hanks, con l’occhio sbarrato dallo stupore e dal candore. La prossima fase? Guerriero: che oggi impugna l’alabarda dello scontro di civiltà, ma non si rende conto che è difficile credere alla resistenza in combattimento (“qua l’armi, combatterò sol’io, sol’io soccomberò”) di uno che ha cambiato posizione tante volte, seguendo le ragioni dell’opportunità invece di quelle della propria coerenza.

Ed è questo, mi sembra, il maggior problema dei combattenti per la civiltà. Chi mandiamo al fronte? I nostri eroi della domenica? I calciatori dell’Inter che di fronte alla prospettiva di avvicinarsi al luogo dell’esplosione, anche dopo che il bum c’era già stato?Non si sa mai.

Siamo sempre alla bolsa retorica fascista che ha la sua epitome nella scritta mussoliniana che si legge ancora sull’edificio dell’E42, entrando in Roma da Fiumicino. L’avete mai notata? "Gli italiani sono un popolo di poeti di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati di navigatori e di trasmigratori". Trasmigratori eccome! Ma c’è un piccolo particolare, non c'è scritto che sono un popolo di onesti lavoratori e buoni cittadini. E manca anche “bravi soldati”.

Ma la Lega invita a sparare. Bravi,bravissimi, in verità. Cosa fa il torero con il toro? Lo punzecchia e gli agita uno straccio rosso sotto il naso finché quello si inferocisce e carica, finendo infilzato. E questo è esattamente quello che fa la Lega: comincia a soffiare dalle froge e tira fuori la rivoltella. Pronti a sparare. Ma sparare a chi? Al barbone della strada accanto, forse Rom, forse albanese, forse marocchino, chissà; come è avvenuto nella metropolitana a Londra, dove hanno ucciso un brasiliano? Intanto chi prepara le nuove bombe se la ride sotto i baffi e addita alla platea mondiale di milioni di potenziali reclute, il toro che nell’arena fa nuove innocenti vittime, sbudellando qualche cavallo a caso e dimostrando a ogni mossa di questo genere di essere debole e impaurito. Sparare è facile, chiunque sappia tirare un grilletto lo può fare. Ma per sparare sul giusto bersaglio occorre prima conoscerlo e identificarlo. Tutti gli esperti dicono che questa guerra non si vincerà sparando, ma con l’ intelligence. E prima ancora, aggiungerei io, con l’intelligenza. Materia che manca largamente a chi indebolisce la battaglia comune facendosi prendere dal panico e perdendo la testa, come un branco di megere urlanti di Scampia, come sta facendo la Lega.

Fanno i duri, ma mandano avanti gli altri e le soluzioni sono sempre quelle, Dna degli immigrati (una volta erano le impronte dei piedi tribali) e lungo fermo di polizia. Purtroppo lasciare la mano libera ai poliziotti di pestare i fermati è solo un vecchio rigurgito borbonico, non serve a migliorare l’efficienza della polizia (anzi), ma a fargli sfogare la paura. Il caso dell’iraniano, cittadino statunitense, fermato e massacrato a Bologna (intervista tradotta su Radio popolare, 25 Luglio 2005) con il questurino che, tra un calcio e l’altro, gli scorreggiava in faccia dicendo “ecco cosa faccio io agli iraniani”. “Gli iraniani” come se metà di quel popolo non fosse contro gli integralisti, essendo filo-occidentali e potenziali alleati. “Gli iraniani” come “gli ebrei” “ i comunisti”, “i neghér”, “ i terroni”, “gli islamici”. Tutti quelli che non ci piacciono, insomma, che non sono noi. Ma poi chi sono questi “noi”? Siamo davvero sicuri che trasformare le questure in luoghi extraterritoriali dove non comanda il diritto, ma l’arbitrio violento molto più di quanto non avvenga già ora, sia il modo più efficiente per difendersi dagli attacchi terroristici? Purtroppo, finora più che a un confronto tra civiltà, stiamo assistendo a uno scontro di inciviltà.

 

 

 

 

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