Il terrorismo come fatto economico. O meglio, il
terrorismo fondamentalista islamico come figlio di
una economia che lotta per la conquistare il dominio
del mondo musulmano.
La tesi è di Loretta Napoleoni, esperta di
terrorismo e di economia, che ce la racconta al telefono
dopo che averla scritta in un libro, tradotto in Italia
nel 2004 da Marco Tropea, dal titolo La nuova
economia del terrorismo, un’analisi del
terrorismo islamico e della sua storia che ne rintraccia
l’origine nella competizione di un intero sistema
economico che si oppone al capitalismo occidentale.
Ecco allora l’economia del terrore, movimenti
finanziari, attività lecite e illecite che
sfruttano il capitalismo occidentale per alimentare
il proprio potere nel mondo arabo, con un giro di
affari che l’autrice stima intorno ai 1.500
miliardi di dollari ogni anno.
Al Quaeda era stata un tempo, almeno fino all’11
settembre 2001, parte integrante di questa economia,
ma da allora tutto è più complesso perché,
ci dice Napoleoni, “la guerra in Iraq ha complicato
molto di più la situazione, ha offerto al terrorismo
la possibilità di reclutare militanti sulla
base di un fatto reale, la guerra, che genera forti
sentimenti anti-occidentali. Non si riuscirà
mai a risolvere la questione del terrorismo, se non
si troverà soluzione alla guerra irachena”.
Ma prima di ogni altra cosa vorremmo che
lei ci spiegasse in che cosa consiste questo lo scontro
tra due diversi tipi di economia che genera il terrorismo
islamista.
Alla base del terrorismo fondamentalista islamico
c’è l’intenzione di distruggere
i regimi oligarchici che governano i paesi musulmani.
Per raggiungere questo scopo il movimento jihadista
utilizza due strategie: una diretta contro il nemico
vicino, cioè ai governi dei paesi musulmani
stessi; l’altra, invece, attacca e colpisce
l’occidente, sede del potere economico che sostiene
i regimi oligarchici del mondo islamico. Da qui la
visione dello scontro tra due sistemi economici, da
una parte l’economia del terrore, dall’altra
il capitalismo occidentale del quale le élites
di governo musulmane fanno parte perché appartenenti
a un complesso intreccio di interessi.
Come si lega alla jihad il sistema economico
di cui lei parla?
Il movimento jihadista ha rappresentato l’avanguardia
di un movimento molto più vasto che viene finanziato
da quella che potremmo descrivere come l’embrione
della borghesia mussulmana, una parte di popolazione
che vuole crescere economicamente, ma ci riesce solo
fino a un certo punto perché i propri interessi
si scontrano contro quelli delle oligarchie che governano
i loro paesi, e, di conseguenza, contro il sistema
capitalistico occidentale a quei paesi strettamente
legato. In questa realtà si inserisce Bin Laden,
il suo progetto di distruggere il mondo capitalista
e il sistema economico americano: un sistema che,
ai suoi occhi, sfrutta il popolo musulmano perché
mantiene le oligarchie al potere nel mondo islamico.
E quindi, secondo lei, gli elementi culturali
e religiosi sono fattori di secondo piano nell’analisi
del terrorismo islamista?
La religione è uno strumento di reclutamento.
I membri di Al Qaeda qualche anno fa venivano reclutati
nelle moschee dove si cercavano i seguaci della nuova
jihad globale, Al-Zarqawi è un esempio di come
il reclutamento passasse attraverso il canale religioso.
Ora però, all’elemento religioso inteso
come coagulante del movimento jihadista, si è
sovrapposta la guerra in Iraq che viene vissuta da
molti musulmani, non solo fondamentalisti ma anche
moderati, come una umiliazione costante dei fratelli
islamici. Ora, quindi, il reclutamento non si appoggia
soltanto alla religione, ma può contare su
eventi reali che danno grandissima propulsione all’ideologia
jihadista.
Quando lei parla di uno scontro di due economie,
parla di due sistemi completamente diversi e antagonisti.
Ma l’economia capitalista occidentale e quella
islamica non sono parte di uno stesso sistema globale?
No, il sistema economico islamico è molto
diverso da quello occidentale, ad esempio manca completamente
del concetto di interesse che è alla base del
capitalismo. L’economia islamica rappresenta
un sistema che, pur avendo legami con il mondo occidentale,
è un sistema a sé che è cresciuto
moltissimo dopo l’11 settembre. I soldi che
fino a quel giorno erano stati investiti nelle borse
occidentali sono rientrati quasi tutti nel mondo arabo;
consideri, ad esempio, che da quella data la borsa
saudita è stata quella che è cresciuta
di più al mondo, il prezzo del petrolio è
oggi di gran lunga più alto di quanto non sia
allora, e da quel giorno si è creato un movimento
di fondi della stessa dimensione di quello generato
dal primo shock petrolifero degli anni ’73 e
’74.
Questi capitali non sono più tornati in occidente,
sono stati investisti nelle banche arabe, riciclati
in qualche modo, ma comunque sono rimasti nel mondo
musulmano che ha visto crescere al suo interno un
sistema economico alternativo al nostro.
E non esistono delle zone d’ombra,
delle sovrapposizioni tra le due economie?
Ci sono delle interdipendenze pazzesche, ovviamente
siamo in un sistema globale e quindi i movimenti di
denaro sono legati tra loro, e poi esistono le attività
illegali in cui sicuramente queste dinamiche economiche
e finanziarie si sovrappongono. Però si tratta
di uno sfruttamento da parte dell’economia araba
verso il capitalismo, non c’è da parte
loro una volontà di entrare nel sistema economico
occidentale né di prenderne il sopravvento,
ma lo utilizzano come uno strumento per finanziarsi
e per attaccare il sistema occidentale.
All’interno dell’economia del
terrore, quali sono le caratteristiche specifiche
di Al Qaeda?
Al Quaeda non esiste più come era prima. Qualche
anno fa la sua strategia non era molto diversa da
quella che metteva in pratica un leader musulmano
come Arafat il quale utilizzava il capitalismo occidentale
per investire e per generare del denaro che poi utilizzava
per aiutare il popolo palestinese e per comprarsi
la fedeltà all’interno dei Territori
Occupati. Al Qaeda ha fatto la stessa cosa, e infatti,
come ho sottolineato nel libro, il modello di comportamento
economico di Osama Bin Laden era proprio Arafat.
Però le cose sono radicalmente cambiate dopo
l’11 settembre perché Al Qaeda si è
frantumata in una miriade di cellule e noi non possiamo
più rintracciare un vertice decisionale o una
cupola finanziaria. Tutti i capitali che in passato
finanziavano Al Qaeda, ora sono diretti in Iraq, perché
è lì che servono i soldi per finanziare
la guerra. I terroristi che vivono fuori dall’Iraq,
e quindi anche coloro che hanno compiuto gli attentati
di Londra e Madrid, ricorrono a forme di autofinanziamento,
così come facevano le Brigate Rosse l’Eta
e l’Ira, con attività legittime e illegittime
tra cui una vera e propria raccolta di fondi tra amici,
parenti, all’interno delle moschee informali,
luoghi di preghiera organizzati nelle abitazioni o
all’università.
Nell’ambito della globalizzazione del terrorismo,
in sostanza, si è verificata una riprivatizzazione
che ci mette, oggi, di fronte a due realtà:
da una parte l’Iraq, dall’altra l’autofinanziamento
dei singoli gruppi. Per questo ritengo che la situazione
oggi sia molto più seria di quanto non fosse
in passato, allora avevamo la possibilità di
individuare i vertici delle organizzazioni, oggi,
scomparsi i vertici, tutto è più difficile.
Non si può cercare di fermare il terrorismo
cercando di fermare i capitali che lo alimentano?
Credo che al momento la pista del denaro è
difficilissima da percorrere, bisognava farlo prima
e abbiamo perso un’occasione unica. Ma adesso
la vera pista dei movimenti finanziari sta nel mondo
musulmano. Vendono il petrolio alle società
occidentali, queste pagano la banca occidentale che
trasferisce i fondi su una banca, ad esempio, a Rijad,
a questo punto noi perdiamo le tracce di questi soldi
perché su quella banca non abbiamo assolutamente
giurisdizione, sono fuori dal nostro sistema bancario.
Allora sappiamo che un sacco di soldi vengono messi
in valigette e portati in Iraq. Ma come li fermiamo?
Sono fuori dal nostro sistema bancario tradizionale.
L’unico modo possibile passa per la collaborazione
dei paesi in cui finiscono i soldi, ma non è
semplice chiedere e ottenere la collaborazione
di musulmani che vivono la guerra in Iraq come un’umiliazione
verso la propria religione e il proprio popolo.
È possibile stabilire una connessione
tra transazioni finanziarie e attentati terroristici?
Prima degli attentati di Londra ad esempio, si è
parlato di strane speculazioni in borsa, così
come sembra sia successo anche per Madrid e l’11
settembre.
I terroristi fanno parte di una rete fatta di personali,
all’interno della quale circolano voci e informazioni,
è possibile allora che qualcuno venga a sapere
della pianificazione di un attentato e, fra questi,
finanziatori e persone che hanno accesso a Wall Street
che mettono in atto una speculazione. È vero,
esistono degli episodi che si possono connettere ai
recenti attentati. Nel caso dell’11 settembre
si è trattato dell’episodio forse più
evidente, perché ci sono state speculazioni
da insider trading – così le ha definite
la Bundesbank – su titoli chiaramente legati
all’attacco alle torri gemelle (tra i titoli
oggetto di compravendita alla vigilia degli attentati,
ad esempio, figurano quelli di due compagnie aeree
direttamente coinvolte nella tragedia, American Airlines
e United Airlines, oltre ad alcune società
che avevano sede nel World Trade Center, NdR);
nel caso di Madrid c’è stata, poco prima
dell’11 marzo, una speculazione sull’euro.
Ora, dieci giorni prima degli attentati londinesi
del 7 luglio, c’è stato un aumento degli
scambi legati all’oro che ne facevano improvvisamente
impennare il prezzo. È difficile prevedere
un evento terroristico da possibili speculazioni finanziarie,
sono episodi difficili da legare agli attentati anche
perché nei mercati si verificano a volte dei
fenomeni inspiegabili, però sebbene sia impossibile
legare direttamente speculazioni finanziarie, reali
o supposte, agli attentati, possiamo notare nei tre
episodi una casualità un po’ preoccupante.
Le istituzioni internazionali, i servizi
di intelligence, nessuno ha mai fatto nulla per contrastare
l’economia del terrore?
No, sul piano internazionale non è stato fatto
nulla. Tenga presente che dall’11 settembre
fino ad oggi sono stati congelati appena 125 milioni
di dollari. Non c’è stata la volontà
di toccare le interdipendenze economiche che esistono
tra i paesi musulmani, i finanziatori dei terroristi
e i jihadisti in occidente, quindi non si è
fatto nulla.
E cosa si potrebbe fare?
Creare un centro di internazionale di coordinamento
della lotta la terrorismo. Questa è una proposta
che una commissione sulla lotta al terrorismo, da
me presieduta, ha avanzato nell’ambito di una
grande conferenza
mondiale sul terrorismo organizzata dal Club de
Madrid, un’associazione di ex capi di stato,
e svoltasi nella capitale spagnola. Dalla conferenza
è nata una serie di proposte tra le quali appunto
quella di creare un fulcro di coordinamento internazionale
per la lotta al terrorismo, per fare in modo che le
forze nazionali collaborino.
Un’altra proposta che riguarda le connessioni
tra economia e terrorismo è quella di introdurre
nei mercati la formula looking compliance. Si tratta
di controllare il flusso di capitali non solo sull’origine
del denaro, come avviene ora, ma anche sulle destinazioni.
Sarebbe molto importante questa forma di controllo,
perché dopo che il denaro è arrivato
a una banca di una paese arabo, noi dobbiamo sapere
dove continua il suo percorso.
Sono strumenti che ci aiuterebbero ad avere una visione
globale di tutto quello che succede e a vedere tutte
le interdipendenze che sono intessute tra capitali
e terrorismo.
Queste proposte hanno avuto una risonanza internazionale
abbastanza ampia, se ne è discusso alla Comunità
Europea, al Congresso americano, però la volontà
politica di accettare questa nuova realtà e
quindi di cooperare tutti insieme ancora non si vede.
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