282 - 27.07.05


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Dalla gioia alla paura

Daniele Castellani Perelli



Lettera da Londra, lettera da una democrazia occidentale colpita dal terrorismo. E’ quella che Isabel Hilton, direttrice di Open democracy, ha scritto il 7 luglio, il giorno in cui le quattro bombe hanno colpito la capitale londinese. Open democracy è tra i più noti think-tank britannici: ha sede nella capitale britannica, non aderisce “ad un’unica posizione ideologica” e ha come scopo quello di “fornire un’arena per il cambiamento democratico e influenzare la linea di condotta politica mondiale”.

Gli attacchi del terrore a Londra sono un momento per riaffermare i valori democratici”, scrive Isabel Hilton, che racconta il “crudele contrasto” di una città passata in 24 ore dalla gioia per l’assegnazione delle Olimpiadi del 2012 all’orrore dei cittadini intrappolati nella metropolitana, dei feriti, dei morti. E la città della gioia diventa la città della morte, come già New York, Bali, Madrid, Istanbul, Baghdad. L’obiettivo dei mezzi pubblici sembra dannatamente ben scelto: “Londra è una città di diversità e tolleranza, una capitale multiculturale, aperta, affollata e dinamica – racconta commossa – Queste sono le qualità che le donano la sua vitalità, e il sistema dei trasporti è un obiettivo facile: oggi la città è immobilizzata”.

Londra è una città che nel ‘900, a differenza di New York, ha vissuto la tragedia europea della guerra e del terrorismo. Le bombe naziste, le bombe dell’Ira. “Ogni attacco è un assalto alla fiducia della città e alla sua tolleranza – scrive la direttrice di Open democracy – ma sarebbe ingenuo credere che queste qualità non siano a rischio”. Tuttavia “questo è il momento di riaffermare quei valori”, di “trattenersi dal colpevolizzare qualsiasi comunità o fede per le azioni di alcuni criminali”, di “difendere le nostre tradizioni di giustizia, dissenso e solidarietà”. La pensa allo stesso modo, alcune migliaia di chilometri più in là, Sebestyén Gorka, analista ungherese molto ascoltato dai media internazionali. Lo raggiungiamo al telefono a Budapest, dove ha sede il centro studi di cui è direttore, l’Istituto per la democrazia di transizione e la sicurezza internazionale, e ci dice: “Finché si vive in una democrazia, inevitabilmente si scopre il fianco alla minaccia degli attacchi terroristici. Gli unici paesi che non sono vulnerabili al terrorismo sono le dittature, come l’ex Unione Sovietica o l’Iraq di Saddam Hussein”.

“In una democrazia i cittadini circolano liberamente, non sei perquisito, le tue borse non sono ispezionate quando sali su un treno o su un autobus – racconta Gorka, che in una dittatura è nato, ma che poi ha studiato a Londra e Washington – Questo è uno dei prezzi da pagare per vivere in una libera democrazia”. Nulla è perduto, e come al solito in ogni crisi è nascosta una chance (come ben sa l’Europa, che di crisi se ne intende). L’analista ungherese attira l’attenzione sul fatto che la Gran Bratagna è presidente di turno dell’Unione: “Penso che come conseguenza di quest’attacco avremo un maggiore coordinamento all’interno dell’Ue sul controterrorismo – ci dice – e mi aspetto che il primo ministro Blair lanci una proposta perché l’Europa sia più aggressiva, e più solidale con gli Usa, nel combattere il terrorismo a livello globale”.

In tutta Europa si è aperto il dibattito su quali leggi sia giusto studiare per rispondere efficacemente alla minaccia terroristica. Anche l’Italia è in marcia, e al coro delle proposte sensate si è subito aggiunto – purtroppo immancabile – l’urlo di chi soffia sul fuoco, vorrebbe cogliere l’occasione per lo scontro di civiltà, e populisticamente chiede (la Lega Nord) lo stato di guerra. Ma le paure di tutti noi cittadini non sono merce elettorale, sono il nostro pane quotidiano. Dopo Londra c’è Roma, dicono dei messaggi su internet. Come dovremmo reagire noi cittadini, agli attacchi che sono stati e che saranno? Isabel Hilton, che scrive da una città immersa nella paura, non ha dubbi: “Il terrore, da solo, non può distruggere la democrazia, ma può indurci a distruggerla. Spetta alla polizia trovare i colpevoli, spetta ai cittadini insistere affinché lo stato non faccia quello che il terrore non può fare, spetta al governo – sebbene provocato – onorare e difendere le nostre libertà”.

Mary Kaldor, su Open democracy, scrive che “il modo migliore per rispondere alle minacce – da dovunque arrivino, dai terroristi islamici ai vigilanti – è ricordare come ci sentivamo prima degli attacchi, e mantenere vivo quell’umore”. Ken Livingstone, sindaco di Londra, e che ha saputo gestire l’emergenza con la stessa saggezza con cui Rudolph Giuliani ha gestito la New York dell’11/9, dice che la sua è una città dove la gente viene “per essere libera, per vivere la vita che scelgono, per essere in grado di essere se stessi”. E’ così facile, ecco perché Londra doveva essere colpita.
But London lives. Londra vive.

 

 

 

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