Lettera
da Londra, lettera da una democrazia occidentale colpita
dal terrorismo. E’ quella che Isabel Hilton, direttrice
di Open democracy, ha scritto il 7 luglio,
il giorno in cui le quattro bombe hanno colpito la capitale
londinese. Open democracy è tra i più
noti think-tank britannici: ha sede nella capitale britannica,
non aderisce “ad un’unica posizione ideologica”
e ha come scopo quello di “fornire un’arena
per il cambiamento democratico e influenzare la linea
di condotta politica mondiale”.
Gli attacchi del terrore a Londra sono un momento per
riaffermare i valori democratici”, scrive Isabel
Hilton, che racconta il “crudele contrasto”
di una città passata in 24 ore dalla gioia per
l’assegnazione delle Olimpiadi del 2012 all’orrore
dei cittadini intrappolati nella metropolitana, dei
feriti, dei morti. E la città della gioia diventa
la città della morte, come già New York,
Bali, Madrid, Istanbul, Baghdad. L’obiettivo dei
mezzi pubblici sembra dannatamente ben scelto: “Londra
è una città di diversità e tolleranza,
una capitale multiculturale, aperta, affollata e dinamica
– racconta commossa – Queste sono le qualità
che le donano la sua vitalità, e il sistema dei
trasporti è un obiettivo facile: oggi la città
è immobilizzata”.
Londra è una città che nel ‘900,
a differenza di New York, ha vissuto la tragedia europea
della guerra e del terrorismo. Le bombe naziste, le
bombe dell’Ira. “Ogni attacco è un
assalto alla fiducia della città e alla sua tolleranza
– scrive la direttrice di Open democracy
– ma sarebbe ingenuo credere che queste qualità
non siano a rischio”. Tuttavia “questo è
il momento di riaffermare quei valori”, di “trattenersi
dal colpevolizzare qualsiasi comunità o fede
per le azioni di alcuni criminali”, di “difendere
le nostre tradizioni di giustizia, dissenso e solidarietà”.
La pensa allo stesso modo, alcune migliaia di chilometri
più in là, Sebestyén Gorka, analista
ungherese molto ascoltato dai media internazionali.
Lo raggiungiamo al telefono a Budapest, dove ha sede
il centro studi di cui è direttore, l’Istituto
per la democrazia di transizione e la sicurezza internazionale,
e ci dice: “Finché si vive in una democrazia,
inevitabilmente si scopre il fianco alla minaccia degli
attacchi terroristici. Gli unici paesi che non sono
vulnerabili al terrorismo sono le dittature, come l’ex
Unione Sovietica o l’Iraq di Saddam Hussein”.
“In una democrazia i cittadini circolano liberamente,
non sei perquisito, le tue borse non sono ispezionate
quando sali su un treno o su un autobus – racconta
Gorka, che in una dittatura è nato, ma che poi
ha studiato a Londra e Washington – Questo è
uno dei prezzi da pagare per vivere in una libera democrazia”.
Nulla è perduto, e come al solito in ogni crisi
è nascosta una chance (come ben sa l’Europa,
che di crisi se ne intende). L’analista ungherese
attira l’attenzione sul fatto che la Gran Bratagna
è presidente di turno dell’Unione: “Penso
che come conseguenza di quest’attacco avremo un
maggiore coordinamento all’interno dell’Ue
sul controterrorismo – ci dice – e mi aspetto
che il primo ministro Blair lanci una proposta perché
l’Europa sia più aggressiva, e più
solidale con gli Usa, nel combattere il terrorismo a
livello globale”.
In tutta Europa si è aperto il dibattito su
quali leggi sia giusto studiare per rispondere efficacemente
alla minaccia terroristica. Anche l’Italia è
in marcia, e al coro delle proposte sensate si è
subito aggiunto – purtroppo immancabile –
l’urlo di chi soffia sul fuoco, vorrebbe cogliere
l’occasione per lo scontro di civiltà,
e populisticamente chiede (la Lega Nord) lo stato di
guerra. Ma le paure di tutti noi cittadini non sono
merce elettorale, sono il nostro pane quotidiano. Dopo
Londra c’è Roma, dicono dei messaggi su
internet. Come dovremmo reagire noi cittadini, agli
attacchi che sono stati e che saranno? Isabel Hilton,
che scrive da una città immersa nella paura,
non ha dubbi: “Il terrore, da solo, non può
distruggere la democrazia, ma può indurci a distruggerla.
Spetta alla polizia trovare i colpevoli, spetta ai cittadini
insistere affinché lo stato non faccia quello
che il terrore non può fare, spetta al governo
– sebbene provocato – onorare e difendere
le nostre libertà”.
Mary Kaldor, su Open democracy, scrive che
“il modo migliore per rispondere alle minacce
– da dovunque arrivino, dai terroristi islamici
ai vigilanti – è ricordare come ci sentivamo
prima degli attacchi, e mantenere vivo quell’umore”.
Ken Livingstone, sindaco di Londra, e che ha saputo
gestire l’emergenza con la stessa saggezza con
cui Rudolph Giuliani ha gestito la New York dell’11/9,
dice che la sua è una città dove la gente
viene “per essere libera, per vivere la vita che
scelgono, per essere in grado di essere se stessi”.
E’ così facile, ecco perché Londra
doveva essere colpita.
But London lives. Londra vive.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|