“Coloro
che commettono atti violenti sono gli unici colpevoli;
non sono mai solo fantocci o ingranaggi di forze sociali
impersonali, ma soggetti responsabili». Sgombra
subito il campo da equivoci Judith Butler, filosofa
femminista statunitense, nota per le sue discusse riflessioni
sul potere, la sessualità e l’identità.
Eppure il suo volume Vite precarie. Contro
l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo
(Meltemi, 2004), scritto all’indomani dell’11
settembre è un potente atto di accusa alla politica
di Bush e all’intervento in Iraq. “Il fatto
che fossero stati violati i confini degli Usa, che fosse
emersa una vulnerabilità intollerabile, che fosse
stato pagato un terribile prezzo di vita umane era ed
è tuttora motivo di lutto. Ma se vogliamo mettere
un freno alle spirali di violenza per produrre esiti
meno violenti è importante chiedersi quale uso
politico si possa fare dell’angoscia, oltre che
un mero grido di battaglia”, ha scritto.
Abbiamo intervistato la Butler poche ore dopo gli attentati
di Londra.
Lei ha criticato la reazione politica americana
e britannica agli attentati dell’11 settembre.
Cosa succederà ora dopo i tragici eventi londinesi?
Le reazioni agli attentati di Londra sono stati di due
tipi, profondamente divergenti tra loro. Un primo tipo
di risposta è quella data da Bush e Blair, che
hanno individuato in questa violenza la ragione della
guerra, intrapresa da entrambi, al terrorismo. Bush
è andato oltre, definendo la violenza come la
strategia principe dei terroristi e chiamandosi fuori
da essa: ciò è ai miei occhi abbastanza
sorprendente, vista la gravità della guerra contro
l’Iraq e le oltre 100.000 persone che sono morte
in questo assurdo sforzo bellico.
L’altra risposta, invece?
La seconda risposta individua un legame tra gli attentati
di Londra e la vicenda irachena, suggerendo che essi
siano conseguenza di una guerra ancora in atto, che
nessuna breve sospensione potrà fermare. È
ovvio che non c’è alcun Islam monolitico,
e che molte persone di fede islamica si oppongono alla
violenza terrorista. Ed è anche importante ricordare
come ciascuno, a qualsiasi fede appartenga, possa opporsi
alla violenza terrorista e quella della guerra irachena.
Eppure quelli che tragicamente sono morti o sono stati
feriti a Londra saranno considerati “più”
vittime – quelle che ho definito nel mio libro
“vite precarie”, vite vulnerabili alla distruzione
improvvisa – di quegli iracheni che muoiono in
Iraq come conseguenza dell’aggressione Usa contro
quel paese. Ora dobbiamo vedere cosa succederà,
ma temo che tutto ciò rafforzerà la mano
di Blair e, insieme, quella di Bush.
Di fronte ad una minaccia così forte
alla nostra integrità, come è possibile
ripensare lucidamente il nostro rapporto con paesi e
modi di vivere nei quali la deriva terrorista è
forte? Quale equilibrio trovare tra desiderio di sicurezza
e dialogo?
L’opposizione tra le fazioni terroriste dell’Islam
può essere correttamente distinta dall’Islam
come una pratica, una religione e un multiforme stile
di vita di milioni di persone. Al contrario, ciò
è impossibile, e diventa contraddittorio e paradossale,
se arriviamo a credere che la guerra in Iraq sia uno
scontro tra civiltà, o se la leggiamo come un’opposizione
tra civiltà e barbarie. La barbarie dell’occidente,
che include le sue torture, le sue detenzioni infinite,
i suoi modi di uccidere e dissimulare, viene sistematicamente
messa da parte quando riduciamo l’Islam al terrorismo
e trattiamo il terrorismo come una barbarie in cui noi
non c’entriamo niente. Credo che una certa prudenza
verso questioni così complesse debba essere invocata
per riuscire a pensare politicamente nel modo giusto.
L’accoglienza e il riconoscimento reciproco
diventano più difficili in un’epoca di
rischio globale?
Sì, credo che al momento attuale il lavoro del
riconoscimento sia più complicato, specialmente
tra coloro che sentono che la loro sicurezza o persino
la loro sopravvivenza è a rischio. Ciò
che ci minaccia è più facilmente distrutto
se rifiutiamo di riconoscerlo. Dall’altra parte,
è importante ricordare che il riconoscimento
del modo di vivere altrui non significa che l’altro
deve arrivare ad apparire identico a me stesso. C’è
una comune fragilità ontologica, una vulnerabilità
alla distruzione o alla decimazione che plasma le basi
della nostra politica. Dovrebbe servire come un avvertimento
contro la violenza e il desiderio di espungere ciò
che sembra minacciarci. Quella spinta verso la distruzione
è precisamente ciò che distrugge la possibilità
di un comune riconoscimento della vulnerabilità,
che richiede che noi proteggiamo la vita il più
possibile.
Conflitti globali, nuovi fondamentalismi, un
ritorno sulla scena pubblica della religione: sembra
che la storia dell’umanità sia ben lontana
da uno sviluppo progressivo della ragione. Che lettura
dà di questi fenomeni? È d’accordo
con la tesi di Habermas sull’esistenza di potenzialità
emancipative dell’Illuminismo ancora non pienamente
valorizzate?
Temo di essere in disaccordo con la presunzione che
la religione sia una forma di irrazionalità.
Può essere una delle tante forme che la razionalità
assume. Non credo che Habermas sia nel giusto nel ricorrere
ad una versione dell’Illuminismo nella quale solo
un tipo di ragione ha il monopolio della normatività.
Forse la possibilità di vivere insieme dipende
dalla capacità di effettuare una traduzione tra
diversi schemi di razionalità. E ciò significa
accettare che i nostri termini subiscano una trasformazione
alla luce del linguaggio dell’altro. In ogni caso,
sono sicura che la tradizione “critica”
che l’Illuminismo fornisce sia importante per
i nostri tempi. Ma per me, ciò significa che
noi prendiamo in considerazione i limiti di ciò
che possiamo sapere – su noi stessi e sugli altri
– e costruiamo una pratica di riconoscimento e
coabitazione sulla base dell’accettazione di quei
limiti.
Relativismo, postmodernismo, tolleranza sono
categorie concettuali che molti criticano, non ritenendole
strumenti efficaci per governare un mondo sempre più
caotico. Qual è il suo parere?
Sono certamente d’accordo sul fatto che la tolleranza
sia una dottrina debole e non fornisca ciò di
cui abbiamo bisogno per assumerci le sfide della situazione
globale. Non sono sicura cosa lei intenda per relativismo
e post-modernismo, ma mi pare che queste parole siano
divenuti luoghi di paura. Il ricorso all’universalismo
è lodevole, senza dubbio, ma il problema è:
quale universalismo viene utilizzato e da chi? Mi sembra
comunque che l’universalismo possa essere raggiunto
unicamente attraverso un processo di traduzione culturale,
e ciò implica che non si prenda il proprio framework
epistemico come una verità che debba valere universalmente.
È d’accordo con la tesi di Michael
Walzer secondo cui la sinistra in America è condannata
a perdere, perché priva della capacità
di fornire un resoconto ideologico, una storia coerente,
dei suoi valori e obiettivi?
Mi spiace dirlo, ma mi sembra che Walzer sia diventato
un neocon, così la sua critica non è
più classificabile come “interna”.
Walzer è anche colui che sostiene che non dovremmo
sforzarci troppo capire il motivo per il quale i terroristi
hanno bombardato il World Trade Center, perché
pensare alle ragioni equivale per lui al fornire una
scusa a tali azioni. In generale, mi chiedo se il pervasivo
anti-intellettualismo all’interno degli Usa abbia
eclissato la possibilità di un pensiero critico,
di un giornalismo critico e di prese di posizioni pubbliche
che attivamente condannino lo sforzo bellico. Credo
che ciò richieda coraggio, e la mia sensazione
è che Walzer e altri liberali della prima ora
abbiano deciso che il coraggio non è più
una virtù politica per questi tempi.
Nei suoi volumi, lei porta avanti significative
riflessioni sull’identità, sostenendo che
le nostre ragioni e i nostri desideri sono profondamente
plasmati dalla società. In che modo allora possiamo
prendere una distanza da queste strutture che ci governano?
Dal mio punto di vista, siamo tutti profondamente condizionati
dalle istituzioni e dalle strutture sociali, ma non
del tutto determinati o controllati. Ciò significa
che la libertà che abbiamo, l’intenzionalità
che ci è propria, nasce precisamente dal fallimento
di un condizionamento sociale assoluto che metta in
atto un controllo totale. Credo fermamente in un senso
di agency collettiva e individuale; ma credo
anche che siamo costretti, nella nostra libertà,
a lottare attraverso e contro i vincoli che condizionano
le nostre vite. Ciò significa che non ho scelto
questo mondo nel quale vivo, che forma l’orizzonte
nel quale io debbo lottare, deliberare, agire. Il soggetto
che delibera e agisce si configura così come
un movimento estemporaneo, in una scena di costrizione
e libertà.
Nel suo ultimo libro, La vita psichica
del potere (Meltemi, 2005), lei mette in luce il
fatto che il potere, oltre ad essere una struttura esterna
che ci opprime, costituisce la nostra stessa identità.
Può spiegare meglio questo aspetto?
Nella mia teoria, noi siamo «agiti» da un
potere ma che allo stesso tempo siamo resi capaci di
agire dalla virtù del potere. È questo
paradosso che forma la base della nostra identità
e della nostra azione. Non dovremmo pensare ad un potere
che ci controlla interamente. E certamente abbiamo bisogno
di liberarci dall’idea di una libertà interna
che viene soppressa unicamente da forme di potere esterne.
Quelle forme esterne diventano parte della nostra vita
psichica e formano la scena delle lotte che determinano
il nostro agire politico cosciente.
Le questioni della sessualità e del
corpo sono al centro delle sue riflessioni. Come giudica
il dibattito pubblico su questi temi? Penso, ad esempio,
alle recenti polemiche sui matrimoni gay.
Si tratta di una domanda vasta, e non è facile
rispondere in questa sede. Ciò che posso dire
è che mi dispiace, da un lato, che il nuovo papa,
l’ex cardinale Ratzinger, cerchi di riabilitare
un ordine naturale della differenza sessuale e della
riproduzione che si oppone sia al matrimonio gay che
ad ogni altra alternativa al matrimonio e alla famiglia
eterosessuale, nel quale il sesso viene ridotto ad un
(sacro) sforza riproduttivo. Dall’altra parte,
il movimento per il matrimonio gay sembra riabilitare
una forma di nuovo contrattualismo che ci riporta indietro
al diciassettesimo secolo, anche se con un percorso
differente. Se trattiamo la sessualità come se
fosse solo una scelta individuale, inconsciamente sottoscriviamo
la concezione liberale dell’individualità
e della libertà che sottostima l’impatto
delle norme sociali sulla formazione della sessualità.
E se invece ci consideriamo soggetti ad uno schema naturale
di differenza sessuale, non vanifichiamo forse tutte
le possibilità di trasformazione e innovazione
sociale? Mi chiedo se possiamo trovare un altro modo
di pensare che ci orienti verso nuove forme sociali
e sessuali di relazione e non riabiliti le ontologie
del liberalismo classico; e così fare qualcosa
di diverso dal riproporre dibattiti sull’alternativa
tra volizione e determinismo.
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