“Non perdiamo il coraggio
della volontà. Manteniamo viva la speranza
per cercare nuove soluzioni alle crisi che abbiamo
di fronte.”
Edgar Morin parla a una platea che lo ascolta incantata.
È appena sceso da una automobile, è
stato chiuso nel traffico dell’autostrada per
circa nove ore durante le quali ha rilasciato interviste
telefoniche a giornalisti che lo cercavano da tutta
Italia. Arrivato a Fermo, nelle Marche, si proietta
sul palco del teatro dell’Aquila per ricevere
il Premio Europeo della Cultura conferitogli in apertura
del festival “Europe 05”. E dall’alto
dei suoi 84 anni il professor Morin lancia inviti
a non abbandonarsi alla rassegnazione: “Il no
dei francesi alla Costituzione europea testimonia
la paura di non riuscire a realizzare un’Europa
unita dai valori umani e dalla politica, non solo
dai mercati economici. Ma dalle situazioni di crisi
dobbiamo trovare lo stimolo per costruire il futuro”.
Un entusiasmo magnetico si sprigiona dalla figura
esile di Morin, una passione accalorata emana dalle
sue parole e ci fanno capire che siamo di fronte a
uno dei maggiori intellettuali della nostra epoca,
a colui che ha elaborato il pensiero della complessità,
allo studioso che si sforza sempre di guardare il
mondo attraverso un “metodo”, cioè
attraverso un atteggiamento che, seguendo l’etimologia
della parola, disegni un cammino, un incessante procedere
verso mete inattese e sempre da scoprire, una ricerca
che si alimenta delle parole di Antonio Machado fatte
proprie dal sociologo francese: “Camminante
non c’è alcuna via, ogni via si fa camminando”.
Non smette di camminare, Morin, non smette di andare
incontro alla complessità del mondo. E non
si tira indietro nemmeno quando ci avviciniamo per
chiedergli perché i francesi non vogliono questa
Costituzione.
“Non si può dire che esista una sola
ragione per il no dei francesi alla Costituzione europea.
Possiamo dire che esso è il frutto di un rifiuto
e di una speranza illusa, il risultato congiunto di
protesta e malcontento”.
Vuole dire che è stato un voto diretto
contro la politica francese e i suoi protagonisti?
Molte persone hanno vissuto il referendum come l’opportunità
per manifestare il proprio malcontento verso il governo,
verso Chirac, verso la situazione economica del paese.
Questo senso di insoddisfazione si è poi aggravato
a causa della paura che ha accompagnato l’ingresso
nell’Ue dei nuovi paesi membri: paura della
concorrenza degli stranieri (come ad esempio i polacchi)
nel mercato del lavoro, paura della delocalizzazione
della produzione e paura della disoccupazione che
al momento è in Francia è un argomento
molto sentito.
A tutto ciò si accompagna il fatto che i francesi
avvertono che i maggiori partiti non dimostrano alcuna
volontà nel trovare soluzioni a questi problemi,
a queste paure. Già alle presidenziali del
2002, questo malcontento aveva portato a un grande
risultato per Le Pen, poi al secondo turno il partito
socialista si è schierato per Chirac impedendo
che l’Eliseo cadesse nelle mani della destra.
Ma quel malcontento non si è sopito, è
rimasto vivo e si esprime oggi con il referendum contro
la Costituzione europea.
Quindi i grandi partiti non hanno saputo
rispondere alle domande degli elettori e hanno perso
credibilità.
Il partito socialista si è indebolito in seguito
alla sua divisione interna sul testo della costituzione;
il partito di maggioranza, invece, si è indebolito
a causa della crisi economica e della realtà
politica che non genera fiducia negli elettori. La
concomitanza di questi fattori ha fatto sì
che il referendum si trasformasse in una espressione
di malcontento verso la politica francese.
Ma c’è dell’altro. Il fatto che
Fabius si sia schierato così apertamente per
il no ha fatto sì che molti socialisti lo seguissero
non solo per protestare contro il governo, ma perché
hanno visto accendersi la speranza che a sinistra
è possibile costruire un’altra Europa,
che è possibile un europeismo diverso.
Quindi secondo lei Fabius è il portatore
di una visione nuova dell’Europa, diversa da
quella dominante?
Io credo che si sia trattato di un’illusione
perché in realtà chi si è opposto
al testo della costituzione non ha proposto alcun
progetto alternativo: nessun disegno, nessuna idea
di un’altra Europa, nessuna prospettiva per
una nuova economia, per una nuova società.
Anche io credo che sia possibile realizzare un’Europa
migliore di questa, ma nessuno di coloro che hanno
promosso il no ha un disegno delineato dell’Europa
che vorrebbe.
Mentre invece chi promuove l’approvazione
della costituzione avanza un’idea precisa dell’Unione?
Il fronte del sì, da parte sua, ha dimostrato
una certa impotenza nel portare avanti e promuovere
i motivi di una scelta positiva verso la Costituzione.
Agli occhi degli elettori il sì non aveva più
il senso di una missione europea da compiere, di una
vocazione, di una aspirazione. Mi spiego meglio.
Quando è iniziato il cammino dell’Unione
europea, dopo la seconda guerra mondiale, i politici
che ne furono protagonisti sapevano molto bene che
l’Europa unita serviva a una doppia necessità.
Da una parte serviva a dimenticare le guerre fratricide
che avevano segnato il Novecento europeo e scongiurarne
il pericolo che si ripetessero, dall’altra serviva
a resistere ai pericoli e alle minacce del blocco
sovietico. In questa situazione è nato il progetto
dell’Unione europea, adesso però, ora
che non ci sono più la paura e il pericolo
della guerra tra i membri dell’Ue, i governi
hanno un po’ perduto questa spinta a costruire
un’unione politica e si sono abbandonati alle
leggi dell’economia che fanno dell’Europa
una specie di supermercato. E così in Francia,
i sostenitori del sì non hanno potuto inventare
e proporre una politica concreta per l’Europa;
ad esempio non hanno saputo proporre l’idea
di un’Europa dedita alla solidarietà,
che è invece un valore necessario in un mondo
che ci si mostra in guerra, ferito da conflitti etnici,
religiosi e così via.
La politica è stata incapace di legare l’idea
dell’Europa a valori importanti, anche se effettivamente
l’Ue ha tutte le possibilità per giocare
un ruolo da protagonista nei processi di pacificazione,
nel proporre il progetto di una civiltà che
è dichiaratamente contraria all’egemonia,
che è responsabile e rispettosa verso l’ambiente,
che è protagonista di politiche che guardino
alla qualità della nostra vita e non solo alla
quantità dei consumi. Chi vuole l’Europa
non riesce a convincere le persone che l’Europa
è la volontà di costruire e promuovere
una civiltà più matura; al contrario,
non si parla che di economia ed è emblematico
che la parola più ricorrente nei discorsi pubblici
sia la crescita, la crescita, la crescita… Forse
vale la pena di fermare la nostra attenzione su un
mondo un po’ meno in crescita, ma che viva meglio.
In un suo vecchio libro intitolato Pensare
l’Europa, ha scritto che l’Europa
va immaginata come una comunità di destini,
cioè un insieme di nazioni che condividono
una storia e una cultura e attraverso questa condivisione
cercano di costruire il futuro. Recentemente ha firmato
con Alain Tourain un appello a favore della piena
adesione della Turchia nell’Ue; ha poi scritto
che la Russia è di fatto un paese europeo.
Dove arriva questa comunità di destini?
In quel libro scrissi che l’Europa dovrebbe
identificarsi come una comunità di destini;
con questo volevo sottolineare che la storia comune
dei paesi europei è fatta di guerre e di scontri
fra nazioni vicine, per superare il passato sono necessari
la coscienza e il sentimento di un destino comune,
da costruire insieme ispirandosi al desiderio di rinnovare
la nostra antica civiltà.
Ora è chiaro che, da un punto di vista storico
geografico e culturale, la Russia è parte dell’Europa,
ma è altrettanto chiaro che esistono delle
difficoltà tecniche e politiche per il suo
ingresso nell’Unione.
La Turchia invece fa parte della storia europea perché
gli ottomani ne sono protagonisti a partire dall’inizio
del XV secolo, quando sono arrivati ai Balcani, poi
hanno conquistato Costantinopoli e Vienna. Ma la storia
europea degli ottomani non è stata solo una
storia di conquiste, ma è stata anche storia
di alleanze con la Francia, l’Inghilterra e
altre potenze. Inoltre le amministrazioni ottomane
in Europa hanno dato esempio di grande tolleranza
religiosa verso ebrei e cristiani, tolleranza che
spesso i cristiani non hanno dimostrato. Tutto questo
ci dimostra che la Turchia fa parte della storia politica
europea. Ma ci sono altri requisiti importanti: è
un paese laico, in cui il potere politico e il potere
religioso sono separati, e poi ha avviato da tempo
e con successo una serie di importanti riforme democratiche.
Certo è un cammino ancora da compiere ma la
prospettiva dell’Unione è un forte stimolo
per le riforme democratiche turche. È vero,
non è ancora risolta la questione curda, ma
è anche vero che in Gran Bretagna esiste una
questione irlandese e in Spagna esiste una questione
basca.
Io credo che sia giusto e importante che la Turchia
entri nell’Ue, perché ha i requisiti
per farlo, perché ha partecipato alla storia
europea, perché l’Europa ha influenzato
tutte le riforme democratiche della Turchia, e perché
esiste un’Europa mussulmana e noi dobbiamo promuovere
la realizzazione di un’Europa della convivialità,
della condivisione delle culture e delle fedi che
si incontrano alla tavola dello stato laico.
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