279 - 31.05.05


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La paura è più forte
di un’illusa speranza
Edgar Morin con
Mauro Buonocore

“Non perdiamo il coraggio della volontà. Manteniamo viva la speranza per cercare nuove soluzioni alle crisi che abbiamo di fronte.”
Edgar Morin parla a una platea che lo ascolta incantata.
È appena sceso da una automobile, è stato chiuso nel traffico dell’autostrada per circa nove ore durante le quali ha rilasciato interviste telefoniche a giornalisti che lo cercavano da tutta Italia. Arrivato a Fermo, nelle Marche, si proietta sul palco del teatro dell’Aquila per ricevere il Premio Europeo della Cultura conferitogli in apertura del festival “Europe 05”. E dall’alto dei suoi 84 anni il professor Morin lancia inviti a non abbandonarsi alla rassegnazione: “Il no dei francesi alla Costituzione europea testimonia la paura di non riuscire a realizzare un’Europa unita dai valori umani e dalla politica, non solo dai mercati economici. Ma dalle situazioni di crisi dobbiamo trovare lo stimolo per costruire il futuro”.
Un entusiasmo magnetico si sprigiona dalla figura esile di Morin, una passione accalorata emana dalle sue parole e ci fanno capire che siamo di fronte a uno dei maggiori intellettuali della nostra epoca, a colui che ha elaborato il pensiero della complessità, allo studioso che si sforza sempre di guardare il mondo attraverso un “metodo”, cioè attraverso un atteggiamento che, seguendo l’etimologia della parola, disegni un cammino, un incessante procedere verso mete inattese e sempre da scoprire, una ricerca che si alimenta delle parole di Antonio Machado fatte proprie dal sociologo francese: “Camminante non c’è alcuna via, ogni via si fa camminando”. Non smette di camminare, Morin, non smette di andare incontro alla complessità del mondo. E non si tira indietro nemmeno quando ci avviciniamo per chiedergli perché i francesi non vogliono questa Costituzione.

“Non si può dire che esista una sola ragione per il no dei francesi alla Costituzione europea. Possiamo dire che esso è il frutto di un rifiuto e di una speranza illusa, il risultato congiunto di protesta e malcontento”.

Vuole dire che è stato un voto diretto contro la politica francese e i suoi protagonisti?

Molte persone hanno vissuto il referendum come l’opportunità per manifestare il proprio malcontento verso il governo, verso Chirac, verso la situazione economica del paese. Questo senso di insoddisfazione si è poi aggravato a causa della paura che ha accompagnato l’ingresso nell’Ue dei nuovi paesi membri: paura della concorrenza degli stranieri (come ad esempio i polacchi) nel mercato del lavoro, paura della delocalizzazione della produzione e paura della disoccupazione che al momento è in Francia è un argomento molto sentito.
A tutto ciò si accompagna il fatto che i francesi avvertono che i maggiori partiti non dimostrano alcuna volontà nel trovare soluzioni a questi problemi, a queste paure. Già alle presidenziali del 2002, questo malcontento aveva portato a un grande risultato per Le Pen, poi al secondo turno il partito socialista si è schierato per Chirac impedendo che l’Eliseo cadesse nelle mani della destra.
Ma quel malcontento non si è sopito, è rimasto vivo e si esprime oggi con il referendum contro la Costituzione europea.

Quindi i grandi partiti non hanno saputo rispondere alle domande degli elettori e hanno perso credibilità.

Il partito socialista si è indebolito in seguito alla sua divisione interna sul testo della costituzione; il partito di maggioranza, invece, si è indebolito a causa della crisi economica e della realtà politica che non genera fiducia negli elettori. La concomitanza di questi fattori ha fatto sì che il referendum si trasformasse in una espressione di malcontento verso la politica francese.
Ma c’è dell’altro. Il fatto che Fabius si sia schierato così apertamente per il no ha fatto sì che molti socialisti lo seguissero non solo per protestare contro il governo, ma perché hanno visto accendersi la speranza che a sinistra è possibile costruire un’altra Europa, che è possibile un europeismo diverso.

Quindi secondo lei Fabius è il portatore di una visione nuova dell’Europa, diversa da quella dominante?

Io credo che si sia trattato di un’illusione perché in realtà chi si è opposto al testo della costituzione non ha proposto alcun progetto alternativo: nessun disegno, nessuna idea di un’altra Europa, nessuna prospettiva per una nuova economia, per una nuova società. Anche io credo che sia possibile realizzare un’Europa migliore di questa, ma nessuno di coloro che hanno promosso il no ha un disegno delineato dell’Europa che vorrebbe.

Mentre invece chi promuove l’approvazione della costituzione avanza un’idea precisa dell’Unione?

Il fronte del sì, da parte sua, ha dimostrato una certa impotenza nel portare avanti e promuovere i motivi di una scelta positiva verso la Costituzione. Agli occhi degli elettori il sì non aveva più il senso di una missione europea da compiere, di una vocazione, di una aspirazione. Mi spiego meglio.
Quando è iniziato il cammino dell’Unione europea, dopo la seconda guerra mondiale, i politici che ne furono protagonisti sapevano molto bene che l’Europa unita serviva a una doppia necessità. Da una parte serviva a dimenticare le guerre fratricide che avevano segnato il Novecento europeo e scongiurarne il pericolo che si ripetessero, dall’altra serviva a resistere ai pericoli e alle minacce del blocco sovietico. In questa situazione è nato il progetto dell’Unione europea, adesso però, ora che non ci sono più la paura e il pericolo della guerra tra i membri dell’Ue, i governi hanno un po’ perduto questa spinta a costruire un’unione politica e si sono abbandonati alle leggi dell’economia che fanno dell’Europa una specie di supermercato. E così in Francia, i sostenitori del sì non hanno potuto inventare e proporre una politica concreta per l’Europa; ad esempio non hanno saputo proporre l’idea di un’Europa dedita alla solidarietà, che è invece un valore necessario in un mondo che ci si mostra in guerra, ferito da conflitti etnici, religiosi e così via.

La politica è stata incapace di legare l’idea dell’Europa a valori importanti, anche se effettivamente l’Ue ha tutte le possibilità per giocare un ruolo da protagonista nei processi di pacificazione, nel proporre il progetto di una civiltà che è dichiaratamente contraria all’egemonia, che è responsabile e rispettosa verso l’ambiente, che è protagonista di politiche che guardino alla qualità della nostra vita e non solo alla quantità dei consumi. Chi vuole l’Europa non riesce a convincere le persone che l’Europa è la volontà di costruire e promuovere una civiltà più matura; al contrario, non si parla che di economia ed è emblematico che la parola più ricorrente nei discorsi pubblici sia la crescita, la crescita, la crescita… Forse vale la pena di fermare la nostra attenzione su un mondo un po’ meno in crescita, ma che viva meglio.

In un suo vecchio libro intitolato Pensare l’Europa, ha scritto che l’Europa va immaginata come una comunità di destini, cioè un insieme di nazioni che condividono una storia e una cultura e attraverso questa condivisione cercano di costruire il futuro. Recentemente ha firmato con Alain Tourain un appello a favore della piena adesione della Turchia nell’Ue; ha poi scritto che la Russia è di fatto un paese europeo. Dove arriva questa comunità di destini?

In quel libro scrissi che l’Europa dovrebbe identificarsi come una comunità di destini; con questo volevo sottolineare che la storia comune dei paesi europei è fatta di guerre e di scontri fra nazioni vicine, per superare il passato sono necessari la coscienza e il sentimento di un destino comune, da costruire insieme ispirandosi al desiderio di rinnovare la nostra antica civiltà.
Ora è chiaro che, da un punto di vista storico geografico e culturale, la Russia è parte dell’Europa, ma è altrettanto chiaro che esistono delle difficoltà tecniche e politiche per il suo ingresso nell’Unione.

La Turchia invece fa parte della storia europea perché gli ottomani ne sono protagonisti a partire dall’inizio del XV secolo, quando sono arrivati ai Balcani, poi hanno conquistato Costantinopoli e Vienna. Ma la storia europea degli ottomani non è stata solo una storia di conquiste, ma è stata anche storia di alleanze con la Francia, l’Inghilterra e altre potenze. Inoltre le amministrazioni ottomane in Europa hanno dato esempio di grande tolleranza religiosa verso ebrei e cristiani, tolleranza che spesso i cristiani non hanno dimostrato. Tutto questo ci dimostra che la Turchia fa parte della storia politica europea. Ma ci sono altri requisiti importanti: è un paese laico, in cui il potere politico e il potere religioso sono separati, e poi ha avviato da tempo e con successo una serie di importanti riforme democratiche. Certo è un cammino ancora da compiere ma la prospettiva dell’Unione è un forte stimolo per le riforme democratiche turche. È vero, non è ancora risolta la questione curda, ma è anche vero che in Gran Bretagna esiste una questione irlandese e in Spagna esiste una questione basca.
Io credo che sia giusto e importante che la Turchia entri nell’Ue, perché ha i requisiti per farlo, perché ha partecipato alla storia europea, perché l’Europa ha influenzato tutte le riforme democratiche della Turchia, e perché esiste un’Europa mussulmana e noi dobbiamo promuovere la realizzazione di un’Europa della convivialità, della condivisione delle culture e delle fedi che si incontrano alla tavola dello stato laico.

 

 

 

 

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