279 - 14.06.05


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Cosa cambia con 4 sì
Chiara Lalli e
Fabio Bacchini

Siamo giustamente liberi di scegliere se e quando avere un figlio; siamo liberi di scegliere con chi. Questo significa che lo Stato non può intervenire a vietare o a limitare la procreazione senza macchiarsi di illegittimità. Siamo poi, giustamente, meno liberi di allevare quello stesso figlio come più ci piace, e lo Stato interviene se gli facciamo del male o lo trascuriamo (esiste una differenza importante tra procreare e allevare, è bene ricordarlo). In questo caso l’intervento dello Stato è opportuno, perché protegge il figlio da eventuali danni.
Mentre la procreazione naturale, com’è giusto, non viene limitata da alcuna legge dello Stato, nel caso in cui sia necessario ricorrere alla procreazione medicalmente assistita (PMA) oggi in Italia ci si imbatte nei numerosi divieti contenuti nella legge 40. I quattro quesiti referendari chiedono di abrogare alcuni di questi divieti, in vigore dal febbraio del 2004.

Le tecniche di procreazione assistita dovrebbero essere guardate né più né meno come ogni altro rimedio medico e artificiale che ci aiuta a far fronte a disabilità, malfunzionamenti e difficoltà naturali. Ovvero, come un paio di occhiali; come una iniezione di insulina; come una sedia a rotelle o un apparecchio acustico.
Siamo liberi di ascoltare la musica che più ci piace se non rechiamo danno a nessuno con un volume troppo alto. Se il nostro udito fosse danneggiato avremmo bisogno di una tecnica: un apparecchio acustico. Ripristinata la possibilità di sentire, saremmo liberi come prima di ascoltare la musica che più ci piace, sempre non esagerando con il volume? Se ci fosse una legge 40 sulle tecniche di acustica assistita no, non lo saremmo, perché lo Stato verrebbe a dirci che dobbiamo ascoltare soltanto l’opera e i cantautori italiani, e non il jazz o la musica rap. Alla difficoltà rappresentata da un difetto acustico, si sommerebbe l’assurdità di controlli e limitazioni imposti dallo Stato.

La situazione è proprio questa: chi non è sterile gode di una assoluta libertà di procreare; chi è sterile (o per altre ragioni dovrebbe ricorrere alla procreazione assistita) è privato di questa libertà. Le techiche ripristinano una capacità originaria perduta, e non dovrebbero intaccare la libertà, ovvero quello spazio privato in cui dobbiamo essere liberi di scegliere senza che lo Stato venga a imporre le sue idee di ciò che è bene, e a sanzionare comportamenti.

I quesito:
abrogazione del limite di fecondare solo 3 ovociti, dell’obbligo di impianto simultaneo, del divieto di crioconservazione degli embrioni


Il primo motivo per abrogare questi divieti discende dalla natura stessa della medicina. Se la medicina potesse essere una pratica regolata da prescrizioni universali, tipo “Quando un soggetto ha la polmonite, la terapia giusta è tot milligrammi del tale principio attivo per tot giorni con la tale frequenza”, allora non avremmo più bisogno di medici, se non forse per le diagnosi. Basterebbe un computer per decidere i trattamenti migliori. Invece, i medici sono necessari: siamo tutti diversi per età, costituzione fisica, storia personale, profilo psicologico, metabolismo, e così via. Una parte importante del lavoro dei medici consiste nel calibrare sulla nostra specifica natura individuale le linee guida terapeutiche generali presenti sui manuali. Sarebbe insensato stabilire per legge che deve esistere un unico modo di procedere anche nel caso di un intervento molto più semplice di quelli richiesti dalla procreazione assistita. Si pensi alla bruciatura di una verruca: anche in questo caso le modalità dipendono dalla grandezza della verruca, dalla sua estensione, dalla pelle della persona e così via. Una legge che specifichi, nei particolari, la procedura esatta attraverso la quale un medico deve curare il prorio paziente, è una legge che offende i medici (assimilandoli a marionette da dirigere) e che danneggia i malati (impedendo loro di ricevere la cura migliore possibile).

Sottoporsi a un ciclo di procreazione assistita non è cosa di tutti i giorni, e l’intero piano terapeutico deve essere commisurato alle caratteristiche della donna che lo affronta, alla sua morfologia, al suo stato di salute, all’età. Il successo dell’impianto dipende da innumerevoli fattori. Limitatamente all’età delle donne, sotto ai 30 anni impiantare 3 embrioni contemporaneamente comporta un alto rischio di gravidanze plurime (1 su 100, di contro a 1 su 400 per le gravidanze naturali). E le gravidanze plurime sono rischiose per la mamma e per i nascituri. Viceversa, in donne dai 35 anni in su, limitare il numero di ovociti da fecondare a 3 riduce le percentuali di successo per ciclo, e costringe le donne a ricominciare il ciclo di procreazione assistita dall’inizio: stimolazione ormonale, prelievo chirurgico di ovociti, impianto. Quindi tre non è il numero perfetto: è troppo alto per le donne giovani, e troppo basso per le donne meno giovani. La legge, qui, taglia con l’accetta. È una legge redatta da politici interessati a preservare equilibri politici, non certo da medici. Ma perché, d’altra parte, i medici dovrebbero desiderare che ci sia una legge (anche migliore di questa) dove basta il loro buon senso e la loro professionalità?

La legge 40 vieta anche la crioconservazione degli embrioni, ed è per questo che una donna che non riesce a rimanere incinta dopo l’impianto di tre embrioni non può semplicemente provare con altri tre già pronti, ma deve ricominciare con le stimolazioni ormonali (che danno effetti collaterali non piacevoli) e prelievo di ovociti (che sono piccoli interventi chirurgici). Siamo di fronte a una legge che, quindi, impone ai medici di vessare le loro pazienti con la ripetizione di trattamenti pesanti che sarebbe perfettamente possibile subire una volta sola. Può essere questa una buona legge?

Votare significa anche eliminare il divieto di ricorrere alla diagnosi genetica di preimpianto (DGP). A che serve la DGP? Serve a scoprire se il concepito è affetto da gravi malattie genetiche (Beta Talassemia, Fibrosi Cistica, Corea di Huntington, etc), permettendo così alle persone portatrici o afflitte da queste malattie di mettere al mondo un bimbo sano. La DGP è una diagnosi che consente di individuare la presenza di malattie gravissime ben prima che siano visibili con le tecniche diagnostiche prenatali tradizionali (villocentesi e amniocentesi) e in uno stadio in cui l’embrione è ancora al di fuori del corpo della donna, offrendole quindi la possibilità, in caso di diagnosi infausta, di evitare un aborto terapeutico.

La possibilità di ricorrere alla diagnosi di preimpianto è ingiustamente vietata dalla legge 40, che in questo modo nega la possibilità di compiere una libera e seria scelta procreativa anche per le persone non sterili ma affette da malattie genetiche o virali (i sieropositivi, ad esempio, potrebbero mettere al mondo un figlio sicuramente non affetto dal virus HIV se potessero avvalersi della DPG).

Votare riafferma la possibilità di scegliere di non impiantare un embrione nel caso di diagnosi infausta e di evitare la nascita di un individuo gravemente malato. Non si tratta affatto, come molti dicono, di “eugenetica”: l’eugenetica hitleriana, ma anche americana e svedese, ha discriminato e sterilizzato tanti individui giudicati “inferiori” per il bene della razza, e questa è una cosa disgustosa. La possibilità di non far iniziare ad esistere un figlio malato, laddove va incontro a un desiderio naturale nei genitori, consente ai genitori di ampliare la propria libertà (e non la riduce); e non viola i diritti del nascituro, perché si limita a non far diventare reale una pura possibilità di individuo, che non esiste ancora. In più, lo fa per evitare a questa possibile persona un male: se questa persona iniziasse ad esistere, sarebbe condannata a una vita malata e dolorosa. I genitori, in questo caso, potrebbero preferire far iniziare ad esistere un altro, differente possibile bambino, che ha la possibilità di nascere sano e che, ovviamente, non esisterebbe mai se iniziasse ad esistere il possibile bambino malato. Quando siamo allo stadio di ovociti, spermatozoi, zigoti, morule o blastocisti, cioè in ogni caso allo stadio di qualche cellula, non possiamo parlare di persone reali, ma solo di persone potenziali. E la DPG “seleziona” tanto quanto “seleziona” ogni nostro mancato concepimento (se non ci fossimo sposati con il padre/la madre dei nostri figli, e ci fossimo invece sposati con un’altra persona, i nostri attuali figli non sarebbero mai esistiti. Questo sarebbe stato forse violare il loro “diritto alla vita”?). Nessuno giudicherà mai “inferiore” una persona malata, una volta che esiste. Ma evitare che inizino ad esistere persone malate, e preferire che inizino invece ad esistere persone sane, non significa certo offendere le persone malate che sono reali. Non iniziare ad esistere è un destino cui vanno incontro, per ragioni del tutto naturali, quasi 8 embrioni su 10. Infatti, su 10 ovociti fecondati, solo due o tre riescono a nascere. Giustamente non ci mobilitiamo contro questa “dissipazione” naturale: non ci rimette nessuno, perché appunto l’interruzione (naturale o artificiale che sia) dello sviluppo di un embrione è tanto poco moralmente importante quanto un mancato concepimento (eppure ogni ovocita potrebbe diventare una persona!).

II quesito:
Abrogazione dei diritti al concepito


Abrogare l’articolo 1 della legge 40, che conferisce diritti al concepito, significa riaffermare che esiste una profonda differenza tra noi che siamo persone e il concepito, che è lo stadio più precoce dello sviluppo embrionale e non può essere titolare di diritti in questa fase. Il “concepito” (termine coniato appositamente per sviare la riflessione) è, a ben vedere, un gruppo di cellule non differenziate, che si limitano a sdoppiarsi e ad accumularsi l’una accanto all’altra. Parliamo, più precisamente, di zigote (una cellula), di morula (10-16 cellule) e di blastocisti (50-60 cellule). Nessuna cellula si è ancora specializzata. Non esistono differenziazioni: non ci sono cellule nervose, né cellule ossee, né cellule ematiche. Tutto è ancora solo possibile: come per l’ovocita non fecondato, come per lo spermatozoo che non ha ancora raggiunto l’ovocita, come prima del concepimento. Certo, una morula ha la possibilità di diventare, un giorno, una persona reale. Ma non lo è. E poi: anche un ovocita non fecondato ha la possibilità, un giorno, di diventare una persona reale. Ma anch’esso non lo è. E, infatti, noi non diciamo che gli ovociti non fecondati sono persone.

È utile analizzare alcuni degli argomenti usati più di frequente per sostenere l’equivalenza tra un concepito e le persone. Secondo molti, dal momento che il concepito è vita, allora è anche una persona. È evidente che nessuno nega il fatto che il concepito sia vita; ma il punto non è questo. Moltissime cose sono vita ma non sono persona: i vermi, le rane ma anche i gatti. Che cosa deve avere un organismo vivo per essere una persona? Deve possedere alcuni requisiti minimi: una minima complessità cognitiva, la capacità seppure rudimentale di percepire dolore e piacere, la capacità di percepirsi come soggetto di esperienze mentali; in una parola, ci vuole l’autocoscienza. Usare il termine “persona” per definire il concepito in quella iniziale fase di sviluppo in cui ci sono poche cellule è sbagliato, e rappresenta un assurdo sia filosofico che giuridico. È bene ricordare che lo statuto giuridico di persona si acquisisce al momento della nascita. Attribuire lo status di persona al concepito costituisce inoltre un pericolo per i diritti di un’altra persona (questa sì, certamente persona): la donna.

Un altro argomento a favore dell’equiparazione consiste nell’affermare che, dal momento che il concepito è vita umana, dunque è persona. Non è sufficiente però l’attribuzione del carattere “umano” ad una entità viva per ottenere lo statuto di persona. Molte cose sono “vita umana” ma non sono persona: il fegato, gli spermatozoi, la placenta e ciascuna nostra cellula. Non è l’appartenenza ad una specie a determinare la caratterizzazione di persona: se esistesse una specie diversa da quella umana capace di possedere stati mentali e dotata di autocoscienza, non potremmo negare agli appartenenti ad una tale specie lo statuto di persone.

Ancora, si dice che il concepito è vita umana con un codice genetico unico e irripetibile e pertanto gode dei diritti che hanno le persone. Eppure l’unicità genetica non è così significativa quanto pretende questo argomento, e dovremmo rifiutare di attribuirle particolare importanza se rigettiamo – come certamente dovremmo – la dottrina del determinismo genetico (ovvero quella concezione secondo la quale la persona può essere ridotta al suo DNA). La natura di una persona è determinata dal suo patrimonio genetico, ma in realtà da molti altri fattori: ci sono le esperienze, l’ambiente, la temperatura, la chimica ormonale della madre durante la gestazione, i giochi, l’educazione, il clima culturale del luogo e dell’epoca. La costituzione di un nuovo patrimonio genetico non equivale all’avvio dell’esistenza di una nuova persona, perché da uno stesso patrimonio genetico possono scaturire miliardi di persone diverse. Se esistessero due individui con lo stesso DNA, non sarebbero affatto due persone uguali. Inoltre, a partire dal concepimento e entro 14 giorni può avvenire una divisione gemellare, e quella presunta “unicità” genetica si frammenterebbe per dare l’avvio all’esistenza (futura) di più persone.

Un altro argomento a sostegno dell’equiparazione tra concepito e persona è il cosiddetto problema della soglia: se non c’è una cesura, un momento preciso in cui da pre-persona si diventa persona, allora deve essere vero che si è persona fin dall’inizio del processo di sviluppo. Ma questo ragionamento è sbagliato. Sarebbe come dire: se non c’è una cesura, un momento preciso in cui da fanciulli si diventa adulti, allora deve essere vero che si è adulti fin dall’inizio del processo di sviluppo. Tutti i processi biologici sono continui, senza tappe segnate con precisione come confini tra uno Stato e l’altro. Non ci sono avvenimenti significativi dal punto di vista biologico: è un fluire incessante sul quale interveniamo con distinzioni che non potranno mai essere nette e precise. Ma questa non è una valida ragione per negare, ad esempio, che esista una differenza tra fanciullezza e età adulta, sebbene anche qui si presenti il problema della soglia. È così anche per l’emergenza della persona, che fino a un certo punto non c’è ancora, per emergere gradatamente insieme a quei requisiti che abbiamo indicato.
Il fatto che quei requisiti saranno presenti in futuro non ci autorizza a trattare l’organismo che li acquisirà come se li avesse già acquisiti: quell’organismo potenzialmente ha quei requisiti, ma non possiamo usare proprietà future come base per l’attribuzione di diritti attuali: non ho diritto ad avere la limousine perché sono presidente della Repubblica potenziale; non ho diritto di voto quando ho solo 12 anni in base alla considerazione che tra 6 anni sarò maggiorenne.

III quesito:
abrogazione dei limiti della ricerca embrionale


Abrogare il divieto di sperimentazione sulle cellule staminali embrionali significa permettere la ricerca scientifica come speranza terapeutica per molte malattie quali il Parkinson, il diabete, la sclerosi e molte altre malattie degenerative per le quali non c'è al momento nessuna cura.

Che cosa sono le cellule staminali?
Sono cellule totipotenti, che non si sono ancora specializzate. Nel nostro corpo esistono miliardi e miliardi di cellule, ciascuna specializzata: cellule ossee, cellule ematiche, cellule epidermiche. Ogni tipo di cellula è in grado di compiere alcune precise e limitate funzioni. Al livello embrionale sono invece presenti cellule non ancora differenziate, che nel corso dello sviluppo prenderanno strade diverse e specifiche. La speranza terapeutica consiste nel capire i meccanismi che dirigono questa evoluzione della cellula dall’assenza di specializzazione alla differenziazione: la speranza è di essere un giorno in grado di attivare e dirigere artificialmente questi meccanismi, per poter costruire tessuti e organi che, senza alcun problema di rigetto, possano sostituire tessuti e organi di una persona adulta danneggiati da una malattia.

Alcuni sostengono che il divieto imposto dalla legge 40 sia giusto, perché non ci sono ancora risultati e perché si potrebbe condurre la stessa ricerca sulle cellule staminali adulte. In primo luogo, il fatto che non ci siano ancora risultati non è una buona ragione per non portare avanti la ricerca, che è cominciata da pochi anni e richiede pertanto ancora tempo per offrire i vantaggi che si spera di ottenere (oppure per smentire le speranze); in secondo luogo, a detta della quasi totalità della comunità scientifica la ricerca sulle staminali embrionali non può essere rimpiazzata dalla ricerca sulle staminali adulte: sono due linee di ricerca diverse e la scelta preferibile è quella di portarle avanti entrambe.

Esistono attualmente in Italia molti embrioni (i cosiddetti sovrannumerari) che sono crioconservati e che non saranno richiesti per un impianto. Se verrà eliminato il divieto di creare embrioni sovrannumerari e il divieto di crioconservarli, ve ne saranno altri in futuro. Questi embrioni non sono “orfani”; non più di quanto siano “orfani” gli ovociti che vanno perduti senza essere fecondati, gli spermatozoi che vanno perduti senza fecondare, e gli embrioni che vanno naturalmente perduti in natura senza mai nascere (come abbiamo detto, sono circa sette/otto su dieci). Che motivo c’è per non utilizzarli per la ricerca, allo scopo di tentare di trovare cure che risparmierebbero sofferenze a miliardi di persone presenti e future? Perché frustrare la speranza delle migliaia di malati?

IV quesito:
abrogazione del divieto di ricorrere alla fecondazione eterologa


Che cos’è la fecondazione eterologa? È il ricorso al gamete maschile o femminile estraneo alla coppia. Ogni bambino (nato da procreazione assistita o da procreazione naturale) nasce dall’unione di un ovocita (gamete femminile) e di uno spermatozoo (gamete maschile). Ci sono alcuni casi di infertilità che possono essere risolti utilizzando senz’altro i gameti della coppia. Ma ci sono altri casi di infertilità in cui questo non è possibile. Per esempio, se l’uomo ha avuto un tumore e ha subito una chemioterapia e una radioterapia pesante, può darsi che la sua produzione di spermatozoi diventi nulla o di qualità insufficiente. In una situazione di questo tipo, l’unica speranza per la coppia che desidera avere un figlio è permetterle di fare ricorso a una cellula-spermatozoo proveniente dall’esterno della coppia – diciamo da un donatore anonimo. Che motivo c’è per rifiutare questo permesso?

Secondo molti la ragione per proibire la fecondazione eterologa consiste nel fatto che l’esistenza del figlio dell’eterologa sarebbe una esistenza disgraziata. Si può rispondere a questo argomento che esistono moltissimi di figli dell’eterologa, e non esistono evidenze sulla loro presunta infelicità; anzi il contrario. Spesso questi sono figli così desiderati da ricevere cure e attenzioni migliori rispetto a tanti figli “naturali” ma non desiderati e non amati.

Si dice, poi, che non si può avere un figlio “a tutti i costi”. Crediamo che questi siano fatti personali. Forse chi non gradisce l’eterologa non vi farebbe mai ricorso: ma un conto è dire “Io non lo farei mai”, un altro conto è dire “Voglio impedirlo a tutti”. È inutile precisare che non sta né in cielo né in terra l’ipotesi che chi desidera più fortemente un figlio lo alleverà peggio. Diremmo piuttosto il contrario. Se si parla di possibile “amore malato” da parte di chi fa ricorso alla fecondazione eterologa, rispondiamo che esso è tanto probabile quanto è probabile tra le coppie che procreano naturalmente. Eppure, noi non abbiamo leggi dello Stato che prendono provvedimenti contro le coppie naturali, né contro le coppie più sospettabili di “amore malato”. È forse vietato procreare a chi va dallo psichiatra, a chi ha avuto esaurimenti nervosi, a chi è depresso, a chi ha tentato più volte il suicidio? Perché prendersela con chi ha un problema di sterilità?

Alcuni di coloro che condannano la fecondazione eterologa e che appoggiano il divieto per legge di farvi ricorso, lo fanno in nome della sua somiglianza con l’adulterio. Innanzi tutto è giusto e doveroso ricordare che l’adulterio non è vietato per legge né sanzionato. Il giudizio morale non deve trasformarsi in coercizione legale. In secondo luogo il motivo per cui condanniamo (moralmente, si badi) l’adulterio è che lì è presente un inganno, il tradimento di un patto liberamente fatto tra due persone – c’è poi il dolore arrecato a colui che subisce l’adulterio, e così via. Nel caso della fecondazione eterologa non c’è inganno, bensì c’è una decisione comune, un accordo tra i futuri genitori che insieme scelgono di utilizzare una tecnica e un gamete donato da qualcun altro per rimediare all’impossibilità di avere un figlio altrimenti. Senza inganni né tradimenti, essi semplicemente stabiliscono di percorrere una strada un po’ diversa da quella tradizionale, allo scopo, legittimo e anche bello, di avere un figlio.

Il divieto di ricorrere alla fecondazione eterologa appare ancora più assurdo se si pensa che quel figlio non sarebbe mai esistito altrimenti, e che la sua unica alternativa è la non esistenza. Davvero l’esistenza come figlio dell’eterologa sarebbe tanto penosa da preferirle la non esistenza? Questi bambini sono accolti affettuosamente e amati, e poco importa che non vi sia una coincidenza genetica tra un genitore e il figlio. La genitorialità non può essere ridotta a legame biologico, ma è fatta di affetto, di cura, di relazione. Il genitore è colui che cresce un figlio, non chi gli è legato dal DNA. Molti di noi sono stati allevati da papà, mamme, nonni e nonne che in realtà non erano loro parenti genetici. Qualcun altro aveva fornito il materiale genetico; ma è morto, o ha fatto altre scelte. Noi, però, siamo stati bambini e bambine felici con quei genitori e quei nonni che ci hanno allevato con amore. Vogliamo loro bene. Sappiamo che non è importante che abbiano davvero fornito loro l’ovocita o lo spermatozoo (questi sono particolari biologici secondari). Quel che conta è quanto ci hanno voluto e ci vogliono bene.

 

Gli autori:
Chiara Lalli, studiosa di filosofia morale, Università di Chieti.
Fabio Bacchini, studioso di filosofia della scienza, Università di Sassari.

 

 

 

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