“Il
vivente viene in aiuto del vivente”. Questa
frase ci offre un punto di partenza per affrontare
le problematiche messe in campo dal referendum che
con quattro quesiti chiama gli italiani a decidere
di fecondazione assistita e del destino della ricerca
scientifica sulle cellule staminali embrionali. A
offrirci questo spunto è Vittoria Franco, senatrice
Ds, studiosa di filosofia, autrice di un libro dal
titolo chiaro e inequivocabile: Bioetica e procreazione
assistita. Le politiche della vita tra libertà
e responsabilità (Donzelli editore).
“Il vivente viene in aiuto del vivente –
dice Vittoria Franco – cioè un embrione,
prodotto per un progetto parentale che non si è
realizzato, va in aiuto di un altro vivente, offrendo
nuove possibilità di cura a persone malate”.
Molti oppositori del sì al referendum
argomentano la loro obiezione sostenendo che all’embrione
spettano gli stessi identici diritti di una persona.
Cosa risponde a chi sostiene questa posizione?
Le posizioni nel dibattito sul referendum dipendono
dagli interessi che si vogliono difendere. Noi sostenitori
del sì vogliamo difendere gli interessi di
chi cerca un figlio con le tecniche di procreazione
assistita o vorrebbe averlo sano, senza rinunciare
al rispetto del diritto alla salute della donna, del
diritto della coppia a costituire una famiglia come
prevede la costituzione europea, e vogliamo difendere
il diritto alla speranza di essere curati che spetta
a coloro che sono affetti da malattie degenerative,
come ad esempio il morbo di Alzheimer o la distrofia
muscolare, e altre malattie che potrebbero essere
curate grazie alle possibilità offerte dalle
ricerche sulle cellule staminali embrionali.
Quindi noi rifiutiamo che il dibattito si esaurisca
nella discussione se all’embrione spettano o
no gli stessi diritti di una persona. È una
domanda di grandissimo rilievo morale che però
non può essere il centro di tutta la discussione,
perché dovunque si siano fatte leggi su questa
materia la priorità è sempre stata la
ricerca di una strada per garantire condizioni di
sicurezza e certezze alle coppie che cercano un figlio
con le tecniche di procreazione assistita.
Per questo, ad esempio, è importante parlare
del fatto che uno degli aspetti che contestiamo della
legge 40 è il divieto di accesso alle coppie
portatrici di malattie ereditarie, della diagnosi
pre-impianto e della selezione degli embrioni, del
loro congelamento, ecc.
Le sue parole portano verso un altro tema
molto caldo del dibattito referendario: la libertà
di ricerca. Divieto di analisi pre-impianto, divieto
di utilizzare embrioni congelati a scopo di ricerca.
In che modo la legge 40 limita la ricerca scientifica?
Da quando la legge è entrata in vigore si sta
reintroducendo nel nostro paese la diffusione di malattie
come la talassemia. In Sicilia, ad esempio, grazie
alla diagnosi pre-impianto, la presenza di talassemia
si stava riducendo di molto, secondo alcuni addirittura
del 93%. Un altro esempio. Conosco un medico, la cui
figlia è affetta da fibrosi cistica, che sta
facendo campagna per il sì guidato dalla forza
che gli impone di non rassegnarsi e dalla speranza
che nei prossimi dieci anni si riesca a trovare un
farmaco capace di curare la malattia. Lui sa che questo
risultato è possibile e si batte affinché
non gli venga negata la guarigione della figlia.
La libertà di ricerca è anche un modo
per dare una speranza di vita a chi è affetto
da malattie e io giudico semplicemente assurdo vietare
la ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali
utilizzando gli embrioni che sono già, attualmente,
congelati. Se vuole la mia posizione personale, sono
anch’io contraria alla produzione di embrioni
umani all’esclusivo scopo di ricerca; però,
nel momento in cui stiamo parlando, ci sono circa
diecimila embrioni congelati che forse non hanno più
un progetto parentale, che non sono destinati a diventare
persona. E allora mi chiedo: perché dovrebbe
essere più morale lasciarli morire anziché
utilizzarli per la ricerca? Stabiliamo delle regole,
dopodiché la ricerca deve essere possibile.
In Francia l’ex ministro della sanità
Jean François Mattei si era fatto promotore
di una legge che vietava la ricerca sulle staminali
embrionali. Dopo qualche tempo lui stesso, ammettendo
di aver commesso un errore e di aver compreso che
gli studi sulle cellule staminali embrionali danno
risultati diversi da quelli effettuati sulle staminali
adulte, si è fatto promotore di una nuova legge
che invece ristabilisse il diritto di ricerca scientifica
e di speranza di guarigione per i malati.
Lei ha parlato di un vivente che viene in
aiuto a un vivente, ha detto che le ricerche sull’embrione
aiutano altre persone. Il discorso torna su una domanda
che va comunque chiarita: all’embrione spettano
gli stessi diritti di una persona?
Certamente l’embrione è l’inizio
di una vita umana possibile e in quanto tale andrà
tutelato. Ma la legge 40 mette in campo un equivoco
perché non parla affatto di “vita umana
possibile”, ma di “concepito”
che ha gli stessi diritti degli altri soggetti coinvolti
equiparandolo così, dal punto di vista giuridico,
a persone già nate e in grado di esprimere
la volontà di procreare. Tra l’altro,
una sentenza della corte costituzionale del 1975 che
dice che in caso di drammatica scelta tra la madre
e l’embrione si privilegia la salute di chi
è già persona rispetto a chi "persona
ancora non è".
Ciò che chiamiamo embrione è in realtà
un’entità in divenire, in continuo mutamento
e sviluppo. Non possiamo considerarlo una sorta di
bambino in miniatura. Nella cultura anglosassone si
usa il termine pre-embrione fino al quattordicesimo
giorno, momento in cui, ci dicono gli scienziati,
si forma la prima stria che è all'origine del
sistema nervoso e quindi del cervello.
La questione che lei pone non è risolubile
sul piano scientifico, dove il termine persona non
compare perché appartiene al lessico etico,
giuridico, filosofico. Gli scienziati ci dicono come
si evolve la vita. Da questo punto di vista, appare
chiaro che il concepito è l’inizio di
una vita possibile, cioè di una vita
che può anche non svilupparsi, e infatti nel
ciclo naturale circa l’80% degli embrioni va
perso, essendo la specie umana a bassissima capacità
riproduttiva.
In secondo luogo, parlo di vita umana possibile
perché l’embrione non è un'entità
autonoma, esso si può sviluppare solo se viene
accolto da una donna nel suo utero, solo se una donna
esprime la volontà di accoglierlo, di metterlo
in relazione con se stessa. Ho molto apprezzato che
un filosofo cattolico come Giovanni Reale abbia detto
che non possiamo considerare il corpo femminile come
un semplice contenitore dell’embrione. È
necessario che si stabilisca una relazione e che si
esprima una volontà positiva della madre. Risiede
in questo riconoscimento una delle grandi conquiste
della cultura femminile, che coincide con la libertà
riproduttiva. Essa viene fatta sua da un filosofo
importante come Giovanni Reale; il che ci dice che
è entrata nel senso comune, è parte
integrante della nostra cultura. Come si fa a voler
arrestare questa cultura?
E invece la legge fa proprio questo ritornando a considerare
la donna un semplice contenitore.
E allora una legge come dovrebbe parlare
dell’embrione?
Credo che sia giusto tutelare l’embrione in
quanto vita umana possibile; non possiamo però
pensare a una tutela assoluta, come quella imposta
dalla legge 40, ma deve trattarsi di una tutela relativa,
bilanciata a seconda delle fasi di sviluppo e conciliata
con altri interessi, primi fra tutti il diritto alla
salute della donna, il diritto di speranza di cura
per gli ammalati, il diritto a formare una famiglia.
Parlo di tutela bilanciata perché questa legge
porta in sé un paradosso che i sostenitori
del movimento "Scienza e vita" non dicono:
si tutela al massimo grado quello che la legge definisce
il concepito (cioè un’entità di
due cellule) e in misura minore il feto, dal momento
che si incentiva l’aborto. Mi spiego con degli
esempi. Essendo vietato alle coppie con malattie ereditarie
di ricorrere alle tecniche di fecondazione assistita,
aumentano sia i casi di aborto naturale che alcune
di queste malattie inducono, sia gli aborti terapeutici.
Essendo proibita la diagnosi pre-impianto, se al terzo
o quarto mese di gravidanza, quando si può
fare l’amniocentesi, risulta che il feto è
malato, si può infatti ricorrere all’aborto
terapeutico. Come vede, per tutelare un’entità
di due cellule, impedendo la diagnosi pre-impianto
si costringe la donna all'aborto con tutti i danni
psicologici, morali e fisici che ne derivano.
Si vede perciò chiaramente come dall’equiparazione
fra diritti del concepito e diritti degli altri soggetti
coinvolti discenda in realtà una gerarchia
che colloca al primo posto i primi e solo in subordine
i diritti delle donne.
Ha già accennato a un altro aspetto
molto importante dei quesiti referendari, la crioconservazione.
La legge attuale vieta che si possano congelare embrioni
per poi poterli impiantare nell’utero della
donna in un secondo momento.
Sulle conseguenze disumane di questo divieto il prof.
Veronesi ha portato un esempio illuminante che è
utile riportare. Prima che ntrasse in vigore la legge
40, una donna che fosse colpita da un cancro in età
fertile, prima di sottoporsi alla chemioterapia che
può indurre sterilità, poteva ricorrere
alla fecondazione assistita, congelare un certo numero
di embrioni e recuperarli una volta uscita dal tunnel
della malattia. Ora questo non è più
possibile e trovo che sia un’atroce crudeltà,
così come crudele è l’obbligo
di trasferire nell’utero della donna tutti gli
ovociti fecondati, che possono essere al massimo tre,
con numerosi rischi come gravidanze trigemine e quadrigemine,
parti prematuri, malformazioni del nascituro e pericoli
per la donna. Non è un caso che protocolli
di alcuni paesi europei prescrivano di non trasferire
più di uno o al massimo due embrioni e di congelare
gli altri per utilizzarli per altri tentativi. Nel
caso della legge italiana, se nessuno degli embrioni
trasferiti dà esito positivo, allora bisogna
ricominciare tutto da capo: stimolazione ormonale,
prelievo degli ovociti (che è un vero e proprio
intervento chirurgico), nuova fecondazione e nuovo
trasferimento, creando così nuove speranze,
nuove delusioni. Stiamo parlando di grandissimi stress,
stiamo parlando di una condizione moderna della sofferenza
di cui la legge attuale non tiene assolutamente conto.
Lei ha parlato di bilanciamento delle tutele
in modo da salvaguardare i diritti delle persone.
Qui entra in gioco la politica cui spetta questo compito
salvaguardando la libertà individuale di ciascuno
di compiere una scelta su materie così delicate.
Un grande equivoco è stato messo in campo da
chi sostiene la legge 40 con lo slogan "non si
vota sulla vita". Non è così. Il
referendum non riguarda una concezione astratta e
assoluta della vita, ma la possibilità di far
nascere nuove vite e di dare speranze di cura.
Vorrei precisare che noi non cerchiamo lo scontro
fra culture, vogliamo però difendere la laicità
dello Stato. E compito di uno Stato laico consiste
proprio nel creare le condizioni in cui possano convivere
posizioni diverse. La legge 40, invece, assume una
posizione etica e la impone a tutti, anche a coloro
che non la condividono.
Io posso dire che, personalmente, non ricorrerei mai
alla fecondazione assistita, ma ciò non deve
voler dire che posso vietare questa scelta a chi si
trova, in un momento della propria vita, nella condizione
di sceglierla perché è l'unico modo
per procreare. Sarebbe fra l'altro un "ordine
impossibile", giacché si può andare
a fare in un qualsiasi altro paese europeo ciò
che da noi è vietato, come dimostra il fatto
che il turismo procreativo nell’ultimo anno
si è triplicato.
La legge di uno Stato laico deve essere capace di
consentire scelte diverse e, soprattutto, deve tenere
distinte la sfera delle decisioni private dalla sfera
delle decisioni pubbliche. Le questioni di bioetica
si pongono oggi proprio al limite tra queste due sfere
e qui sta la difficoltà di legiferare, di dettare
norme che consentano e preservino la libertà
di scelta del privato. È questa le delicatezza
della bioetica e la difficoltà che incontra
il diritto: quando quest’ultimo interviene su
questioni di bioetica deve tener conto di questa linea
molto sottile che corre tra la necessità di
indicare regole nitide e l’esigenza di salvaguardare
la libertà di scelta dei singoli. E, come ho
già detto, la libertà riproduttiva è
una delle grandi conquiste dell’epoca contemporanea,
conquista che oggi è messa molto a rischio.
Lei è tra i promotori di una proposta
di legge per abbassare il quorum ai referendum. Crede
che in un referendum, votare e astenersi siano scelte
che hanno un valore diverso?
Sì, e specialmente per materie come questa.
Quando sento dire che stiamo chiamando i cittadini
a scegliere su argomenti troppo complicati che spettano
al Parlamento, rispondo che proprio perché
sono in ballo tante implicazioni etiche bisogna andare
a votare. Scegliere su una materia così importante
è secondo me un dovere civico, per questo ci
stiamo adoperando perché la gente sia, prima
di ogni cosa, informata. L’invito all’astensione
significa anche sottrarre i cittadini al dovere morale
di informarsi, di partecipare. Più la materia
ha implicazione etiche più, credo, deve richiamare
cittadini al voto. È un esercizio di responsabilità
oltre che di diritto civile.
Abbassare il quorum significherebbe anche
scoraggiare le campagne che incitano all’astensione.
Trovo che invitare all’astensione sia una posizione
di arroganza e una forma di controllo del voto. Certamente
è legittimo non andare alle urne, ma è
diverso se tale comportamento è frutto di una
scelta individuale o se invece è il risultato
di un richiamo da parte di un'autorità forte
come la Chiesa. In questo caso non vi è dubbio
che si tratti di una violazione della privatezza del
voto, perché è difficile sottrarsi a
un richiamo di persone cui si dà autorità,
come il parroco della parrocchia o il cardinale Ruini.
La scelta diventa di fatto non libera.
Quanto alla riforma del referendum, la proposta di
cui sono promotrice prevede di alzare da cinquecentomila
a un milione il numero di firme da raccogliere, il
che richiederebbe un impegno condiviso da molti e
garantirebbe che il referendum corrisponda a una esigenza
diffusa; in secondo luogo si dovrebbe abbassare il
quorum, ma sempre garantendo che il voto sia espresso
da un numero congruo di cittadini. Ci sono altre proposte
che si possono discutere, ma onestamente il 50% più
uno richiesto dall’attuale quorum mi sembra
una soglia troppo alta se pensiamo che alle ultime
elezioni regionali ha votato circa il 71% degli aventi
diritto e che tradizionalmente al referendum, anche
nei casi di migliore riuscita, la percentuale di affluenza
ha raggiunto una percentuale inferiore a quella delle
elezioni.
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