279 - 14.06.05


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Si vota sulla vita
Vittoria Franco con
Mauro Buonocore

“Il vivente viene in aiuto del vivente”. Questa frase ci offre un punto di partenza per affrontare le problematiche messe in campo dal referendum che con quattro quesiti chiama gli italiani a decidere di fecondazione assistita e del destino della ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali. A offrirci questo spunto è Vittoria Franco, senatrice Ds, studiosa di filosofia, autrice di un libro dal titolo chiaro e inequivocabile: Bioetica e procreazione assistita. Le politiche della vita tra libertà e responsabilità (Donzelli editore).

“Il vivente viene in aiuto del vivente – dice Vittoria Franco – cioè un embrione, prodotto per un progetto parentale che non si è realizzato, va in aiuto di un altro vivente, offrendo nuove possibilità di cura a persone malate”.

Molti oppositori del sì al referendum argomentano la loro obiezione sostenendo che all’embrione spettano gli stessi identici diritti di una persona. Cosa risponde a chi sostiene questa posizione?

Le posizioni nel dibattito sul referendum dipendono dagli interessi che si vogliono difendere. Noi sostenitori del sì vogliamo difendere gli interessi di chi cerca un figlio con le tecniche di procreazione assistita o vorrebbe averlo sano, senza rinunciare al rispetto del diritto alla salute della donna, del diritto della coppia a costituire una famiglia come prevede la costituzione europea, e vogliamo difendere il diritto alla speranza di essere curati che spetta a coloro che sono affetti da malattie degenerative, come ad esempio il morbo di Alzheimer o la distrofia muscolare, e altre malattie che potrebbero essere curate grazie alle possibilità offerte dalle ricerche sulle cellule staminali embrionali.
Quindi noi rifiutiamo che il dibattito si esaurisca nella discussione se all’embrione spettano o no gli stessi diritti di una persona. È una domanda di grandissimo rilievo morale che però non può essere il centro di tutta la discussione, perché dovunque si siano fatte leggi su questa materia la priorità è sempre stata la ricerca di una strada per garantire condizioni di sicurezza e certezze alle coppie che cercano un figlio con le tecniche di procreazione assistita.
Per questo, ad esempio, è importante parlare del fatto che uno degli aspetti che contestiamo della legge 40 è il divieto di accesso alle coppie portatrici di malattie ereditarie, della diagnosi pre-impianto e della selezione degli embrioni, del loro congelamento, ecc.

Le sue parole portano verso un altro tema molto caldo del dibattito referendario: la libertà di ricerca. Divieto di analisi pre-impianto, divieto di utilizzare embrioni congelati a scopo di ricerca. In che modo la legge 40 limita la ricerca scientifica?

Da quando la legge è entrata in vigore si sta reintroducendo nel nostro paese la diffusione di malattie come la talassemia. In Sicilia, ad esempio, grazie alla diagnosi pre-impianto, la presenza di talassemia si stava riducendo di molto, secondo alcuni addirittura del 93%. Un altro esempio. Conosco un medico, la cui figlia è affetta da fibrosi cistica, che sta facendo campagna per il sì guidato dalla forza che gli impone di non rassegnarsi e dalla speranza che nei prossimi dieci anni si riesca a trovare un farmaco capace di curare la malattia. Lui sa che questo risultato è possibile e si batte affinché non gli venga negata la guarigione della figlia.
La libertà di ricerca è anche un modo per dare una speranza di vita a chi è affetto da malattie e io giudico semplicemente assurdo vietare la ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali utilizzando gli embrioni che sono già, attualmente, congelati. Se vuole la mia posizione personale, sono anch’io contraria alla produzione di embrioni umani all’esclusivo scopo di ricerca; però, nel momento in cui stiamo parlando, ci sono circa diecimila embrioni congelati che forse non hanno più un progetto parentale, che non sono destinati a diventare persona. E allora mi chiedo: perché dovrebbe essere più morale lasciarli morire anziché utilizzarli per la ricerca? Stabiliamo delle regole, dopodiché la ricerca deve essere possibile.
In Francia l’ex ministro della sanità Jean François Mattei si era fatto promotore di una legge che vietava la ricerca sulle staminali embrionali. Dopo qualche tempo lui stesso, ammettendo di aver commesso un errore e di aver compreso che gli studi sulle cellule staminali embrionali danno risultati diversi da quelli effettuati sulle staminali adulte, si è fatto promotore di una nuova legge che invece ristabilisse il diritto di ricerca scientifica e di speranza di guarigione per i malati.

Lei ha parlato di un vivente che viene in aiuto a un vivente, ha detto che le ricerche sull’embrione aiutano altre persone. Il discorso torna su una domanda che va comunque chiarita: all’embrione spettano gli stessi diritti di una persona?

Certamente l’embrione è l’inizio di una vita umana possibile e in quanto tale andrà tutelato. Ma la legge 40 mette in campo un equivoco perché non parla affatto di “vita umana possibile”, ma di “concepito” che ha gli stessi diritti degli altri soggetti coinvolti equiparandolo così, dal punto di vista giuridico, a persone già nate e in grado di esprimere la volontà di procreare. Tra l’altro, una sentenza della corte costituzionale del 1975 che dice che in caso di drammatica scelta tra la madre e l’embrione si privilegia la salute di chi è già persona rispetto a chi "persona ancora non è".

Ciò che chiamiamo embrione è in realtà un’entità in divenire, in continuo mutamento e sviluppo. Non possiamo considerarlo una sorta di bambino in miniatura. Nella cultura anglosassone si usa il termine pre-embrione fino al quattordicesimo giorno, momento in cui, ci dicono gli scienziati, si forma la prima stria che è all'origine del sistema nervoso e quindi del cervello.
La questione che lei pone non è risolubile sul piano scientifico, dove il termine persona non compare perché appartiene al lessico etico, giuridico, filosofico. Gli scienziati ci dicono come si evolve la vita. Da questo punto di vista, appare chiaro che il concepito è l’inizio di una vita possibile, cioè di una vita che può anche non svilupparsi, e infatti nel ciclo naturale circa l’80% degli embrioni va perso, essendo la specie umana a bassissima capacità riproduttiva.
In secondo luogo, parlo di vita umana possibile perché l’embrione non è un'entità autonoma, esso si può sviluppare solo se viene accolto da una donna nel suo utero, solo se una donna esprime la volontà di accoglierlo, di metterlo in relazione con se stessa. Ho molto apprezzato che un filosofo cattolico come Giovanni Reale abbia detto che non possiamo considerare il corpo femminile come un semplice contenitore dell’embrione. È necessario che si stabilisca una relazione e che si esprima una volontà positiva della madre. Risiede in questo riconoscimento una delle grandi conquiste della cultura femminile, che coincide con la libertà riproduttiva. Essa viene fatta sua da un filosofo importante come Giovanni Reale; il che ci dice che è entrata nel senso comune, è parte integrante della nostra cultura. Come si fa a voler arrestare questa cultura?
E invece la legge fa proprio questo ritornando a considerare la donna un semplice contenitore.

E allora una legge come dovrebbe parlare dell’embrione?

Credo che sia giusto tutelare l’embrione in quanto vita umana possibile; non possiamo però pensare a una tutela assoluta, come quella imposta dalla legge 40, ma deve trattarsi di una tutela relativa, bilanciata a seconda delle fasi di sviluppo e conciliata con altri interessi, primi fra tutti il diritto alla salute della donna, il diritto di speranza di cura per gli ammalati, il diritto a formare una famiglia.

Parlo di tutela bilanciata perché questa legge porta in sé un paradosso che i sostenitori del movimento "Scienza e vita" non dicono: si tutela al massimo grado quello che la legge definisce il concepito (cioè un’entità di due cellule) e in misura minore il feto, dal momento che si incentiva l’aborto. Mi spiego con degli esempi. Essendo vietato alle coppie con malattie ereditarie di ricorrere alle tecniche di fecondazione assistita, aumentano sia i casi di aborto naturale che alcune di queste malattie inducono, sia gli aborti terapeutici. Essendo proibita la diagnosi pre-impianto, se al terzo o quarto mese di gravidanza, quando si può fare l’amniocentesi, risulta che il feto è malato, si può infatti ricorrere all’aborto terapeutico. Come vede, per tutelare un’entità di due cellule, impedendo la diagnosi pre-impianto si costringe la donna all'aborto con tutti i danni psicologici, morali e fisici che ne derivano.

Si vede perciò chiaramente come dall’equiparazione fra diritti del concepito e diritti degli altri soggetti coinvolti discenda in realtà una gerarchia che colloca al primo posto i primi e solo in subordine i diritti delle donne.

Ha già accennato a un altro aspetto molto importante dei quesiti referendari, la crioconservazione. La legge attuale vieta che si possano congelare embrioni per poi poterli impiantare nell’utero della donna in un secondo momento.

Sulle conseguenze disumane di questo divieto il prof. Veronesi ha portato un esempio illuminante che è utile riportare. Prima che ntrasse in vigore la legge 40, una donna che fosse colpita da un cancro in età fertile, prima di sottoporsi alla chemioterapia che può indurre sterilità, poteva ricorrere alla fecondazione assistita, congelare un certo numero di embrioni e recuperarli una volta uscita dal tunnel della malattia. Ora questo non è più possibile e trovo che sia un’atroce crudeltà, così come crudele è l’obbligo di trasferire nell’utero della donna tutti gli ovociti fecondati, che possono essere al massimo tre, con numerosi rischi come gravidanze trigemine e quadrigemine, parti prematuri, malformazioni del nascituro e pericoli per la donna. Non è un caso che protocolli di alcuni paesi europei prescrivano di non trasferire più di uno o al massimo due embrioni e di congelare gli altri per utilizzarli per altri tentativi. Nel caso della legge italiana, se nessuno degli embrioni trasferiti dà esito positivo, allora bisogna ricominciare tutto da capo: stimolazione ormonale, prelievo degli ovociti (che è un vero e proprio intervento chirurgico), nuova fecondazione e nuovo trasferimento, creando così nuove speranze, nuove delusioni. Stiamo parlando di grandissimi stress, stiamo parlando di una condizione moderna della sofferenza di cui la legge attuale non tiene assolutamente conto.

Lei ha parlato di bilanciamento delle tutele in modo da salvaguardare i diritti delle persone. Qui entra in gioco la politica cui spetta questo compito salvaguardando la libertà individuale di ciascuno di compiere una scelta su materie così delicate.

Un grande equivoco è stato messo in campo da chi sostiene la legge 40 con lo slogan "non si vota sulla vita". Non è così. Il referendum non riguarda una concezione astratta e assoluta della vita, ma la possibilità di far nascere nuove vite e di dare speranze di cura.
Vorrei precisare che noi non cerchiamo lo scontro fra culture, vogliamo però difendere la laicità dello Stato. E compito di uno Stato laico consiste proprio nel creare le condizioni in cui possano convivere posizioni diverse. La legge 40, invece, assume una posizione etica e la impone a tutti, anche a coloro che non la condividono.
Io posso dire che, personalmente, non ricorrerei mai alla fecondazione assistita, ma ciò non deve voler dire che posso vietare questa scelta a chi si trova, in un momento della propria vita, nella condizione di sceglierla perché è l'unico modo per procreare. Sarebbe fra l'altro un "ordine impossibile", giacché si può andare a fare in un qualsiasi altro paese europeo ciò che da noi è vietato, come dimostra il fatto che il turismo procreativo nell’ultimo anno si è triplicato.
La legge di uno Stato laico deve essere capace di consentire scelte diverse e, soprattutto, deve tenere distinte la sfera delle decisioni private dalla sfera delle decisioni pubbliche. Le questioni di bioetica si pongono oggi proprio al limite tra queste due sfere e qui sta la difficoltà di legiferare, di dettare norme che consentano e preservino la libertà di scelta del privato. È questa le delicatezza della bioetica e la difficoltà che incontra il diritto: quando quest’ultimo interviene su questioni di bioetica deve tener conto di questa linea molto sottile che corre tra la necessità di indicare regole nitide e l’esigenza di salvaguardare la libertà di scelta dei singoli. E, come ho già detto, la libertà riproduttiva è una delle grandi conquiste dell’epoca contemporanea, conquista che oggi è messa molto a rischio.

Lei è tra i promotori di una proposta di legge per abbassare il quorum ai referendum. Crede che in un referendum, votare e astenersi siano scelte che hanno un valore diverso?

Sì, e specialmente per materie come questa. Quando sento dire che stiamo chiamando i cittadini a scegliere su argomenti troppo complicati che spettano al Parlamento, rispondo che proprio perché sono in ballo tante implicazioni etiche bisogna andare a votare. Scegliere su una materia così importante è secondo me un dovere civico, per questo ci stiamo adoperando perché la gente sia, prima di ogni cosa, informata. L’invito all’astensione significa anche sottrarre i cittadini al dovere morale di informarsi, di partecipare. Più la materia ha implicazione etiche più, credo, deve richiamare cittadini al voto. È un esercizio di responsabilità oltre che di diritto civile.

Abbassare il quorum significherebbe anche scoraggiare le campagne che incitano all’astensione.

Trovo che invitare all’astensione sia una posizione di arroganza e una forma di controllo del voto. Certamente è legittimo non andare alle urne, ma è diverso se tale comportamento è frutto di una scelta individuale o se invece è il risultato di un richiamo da parte di un'autorità forte come la Chiesa. In questo caso non vi è dubbio che si tratti di una violazione della privatezza del voto, perché è difficile sottrarsi a un richiamo di persone cui si dà autorità, come il parroco della parrocchia o il cardinale Ruini. La scelta diventa di fatto non libera.

Quanto alla riforma del referendum, la proposta di cui sono promotrice prevede di alzare da cinquecentomila a un milione il numero di firme da raccogliere, il che richiederebbe un impegno condiviso da molti e garantirebbe che il referendum corrisponda a una esigenza diffusa; in secondo luogo si dovrebbe abbassare il quorum, ma sempre garantendo che il voto sia espresso da un numero congruo di cittadini. Ci sono altre proposte che si possono discutere, ma onestamente il 50% più uno richiesto dall’attuale quorum mi sembra una soglia troppo alta se pensiamo che alle ultime elezioni regionali ha votato circa il 71% degli aventi diritto e che tradizionalmente al referendum, anche nei casi di migliore riuscita, la percentuale di affluenza ha raggiunto una percentuale inferiore a quella delle elezioni.

 

 

 

 

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