Alberto Alesina, Edward L. Gleaser
Un mondo di differenze.
Combattere la povertà
negli Stati Uniti e in Europa
Editori Laterza, 2005, pag. 265, euro 22
Perché lo Stato sociale è molto più
generoso in Europa che negli Stati Uniti? Perché
l’America gli destina il 30% del Pil contro
il 45% del vecchio continente (con punte oltre il
50 nei paesi scandinavi, mentre il dato della Gran
Bratagna è esattamente a metà, al 37%)?
Perché in Europa la politica fiscale è
molto più ridistribuiva e la regolamentazione
del mercato del lavoro protegge di più i lavoratori?
Nel tentativo di rispondere a queste domande, i due
economisti di Harvard Alberto Alesina e Edward L.
Gleaser hanno raccolto una serie notevole di dati
e hanno messo a confronto l’economia europea
e quella statunitense. Un mondo di differenze.
Combattere la povertà negli Stati Uniti e in
Europa è un dono per chi si occupa di
relazioni transatlantiche, perché offre dati
concreti dove molto spesso si fa fumo, e perché
con la forza dei numeri riesce a confutare alcuni
attempati luoghi comuni.
I due autori ammettono che, per provare a rispondere
a quelle domande iniziali, per deformazione professionale
sono partiti dall’economia, ma le ragioni offerte
da questa disciplina sono risultate evidentemente
insufficienti per spiegare un tale divario. Se l’Europa
tiene tanto al suo Welfare, e gli americani invece
non lo hanno mai amato più di tanto, le ragioni
devono essere trovate attraverso altre discipline:
la storia, la politica, la sociologia e persino la
psicologia. L’assetto istituzionale, per cominciare,
secondo gli autori “è in grado di spiegare
almeno metà delle differenze nella spesa sociale”,
per la semplice ragione che quello americano è
stato pensato e dominato dalla parte conservatrice
della nazione: è insomma più di destra
di quello europeo. La stessa Costituzione americana
è stata scritta, nel ‘700, da “uomini
facoltosi decisi a impedire allo Stato di espropriare
i loro beni”, mentre nel vecchio continente
le carte sono tutte recenti e sono state elaborate
con l’apporto decisivo dei politici di sinistra.
Il sistema elettorale maggioritario ha favorito la
“corsa verso il centro” delle forze politiche
americane, mentre il proporzionale, in gran parte
dei paesi europei, ha permesso ai partiti socialisti
(solitamente minoritari) di nascere e svilupparsi,
con ovvie conseguenze sulla diffusione dello Stato
sociale. Negli States il Senato è stato fino
agli anni ’20 del ‘900 un “club
per ricchi”, e la Corte Suprema ha quasi sempre
ostacolato riforme progressiste (come il New Deal
di F.D.Roosevelt). Questo assetto conservatore non
è mai stato toccato da rivoluzioni, come è
accaduto ai paesi europei. Qui la storia s’intreccia
con la geografia: per Alesina e Gleaser i vasti spazi
americani hanno reso irraggiungibile la capitale Washington
a qualunque gruppo rivoluzionario e hanno dato terra
a chi voleva seguire il “mito della frontiera”,
mentre la posizione geografica ha fatto sì
che gli Usa non dovessero combattere mai una guerra
sul proprio territorio, cosa che ha evitato loro sommosse
popolari, invasioni e cambi di Costituzioni.
L’eterogeneità etnica spiega quasi da
sola l’altra metà del divario tra le
due potenze sulla ridistribuzione del reddito, specie
se viene coniugata insieme alle differenze geografiche.
In Usa le vaste distanze e le basse densità
allontanano anche fisicamente gli individui, allentando
i vincoli di solidarietà, a loro volta messi
fortemente in crisi dalle differenze etniche: in America,
dove l’eterogeneità etnica è maggiore
che in Europa, i membri delle comunità benestanti
(bianche) sono contrarie alla ridistribuzione statale
del reddito perché sanno che avvantaggerebbe
i neri, che sono più poveri e che generalmente
i bianchi non sentono appartenere alla propria comunità.
La frammentazione razziale è così importante
da aver peraltro impedito lo svilupparsi di un forte
movimento sindacale, mentre anche in Europa, spiegano
gli autori, xenofobia e razzismo negli ultimi anni
vanno a braccetto con la contestazione del vecchio
Stato sociale, e l’immigrazione musulmana potrebbe
per questo contribuire a un indebolimento del Welfare.
Basta pensare alle campagne di Haider, di Le Pen,
del Vlaams Block e della Lega Nord, spiegano Alesina
e Gleaser, i quali però prevedono che “man
mano che l’eterogeneità razziale in Europa
si farà più accentuata, anche la destra
più ‘rispettabile’ andrà
in questa direzione”.
Altri fattori importanti sono legati alla nascita
dell’America, che avvenne senza divisioni di
classe e con l’apporto di dinamici immigrati,
più inclini a lavorare che a contestare. E
decisiva infine risulta l’ideologia. Se l’etica
calvinista e protestante spinge gli americani a vedere
il successo (e il rischio) economico come un segno
di “bontà”, in Europa i partiti
cattolici sono sempre andati d’accordo con quelli
socialisti nel difendere la solidarietà pubblica
e il mondo dei lavoratori, come dimostra la legge
di co-determinazione con cui Konrad Adenauer riservava
ai sindacati dei posti nel cda delle aziende (anche
la destra democratica laica, da Bismarck a De Gaulle,
ha sempre difeso lo Stato sociale, e perfino quella
fascista, tanto da far dire agli autori che “Hitler
era un redistributore molto più di Roosevelt”).
I concittadini di Reagan e Kennedy sono inoltre convinti
di vivere nella terra delle opportunità, dove
il tasso di mobilità è altissimo e i
poveri, pertanto, non possono essere che pigri e quindi
indegni di un aiuto pubblico; i figli di Adenauer
e De Gasperi ritengono invece che la nascita sia ancora
una discriminante e che i poveri non sono pigri, ma
solo sfortunati: dunque meritevoli della solidarietà
dello Stato. Secondo il World Values Survey, il 71%
degli americani crede che i poveri potrebbero uscire
dalla miseria se lavorassero sodo, mentre in Europa
lo pensa solo il 40%. Lo stesso Gorge Washington,
nel 1783, diceva che se i cittadini americani “non
saranno completamente liberi e felici, la colpa sarà
interamente loro”.
Il libro di Alesina e Gleaser ha il merito di analizzare
senza ideologia un campo ostico e di grande attualità.
In fin dei conti sembra riservare maggiore simpatia
al sistema europeo, o perlomeno offre qualche argomento
in più agli europeisti, nella ormai nota querelle
“sistema europeo vs sistema americano”.
Ad esempio quando dimostra che il tasso di mobilità
percepito dai cittadini americani è molto più
alto di quello reale. Il divario tra Europa e Usa,
quanto a mobilità verso l’alto, nei fatti
è davvero minimo, e se per le classi medie
è leggermente migliore di là dall’Atlantico,
è in Europa che un povero ha più possibilità
di uscire dalla sua condizione di indigenza.
Il libro, nel finale, giunge ad una conclusione logica
e molto interessante, una di quelle perle che colpiscono
per la loro semplice saggezza, e che non possono non
stordire e costringere alla riflessione anche chi
con essa non convenga: “La sinistra europea
è riuscita, molto meglio di quella americana,
a portare avanti e diffondere le proprie idee. Per
questo è inevitabile che su molte cose, tra
cui la guerra, l’eguaglianza e le istituzioni
internazionali, Vecchio e Nuovo Continente la pensino
in maniera diversa”. L’Europa, secondo
i due economisti americani, è geneticamente
di sinistra. Urge comunicarlo alla gauche
francese.
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