279 - 14.06.05


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Povertà transatlantica
Daniele Castellani Perelli

Alberto Alesina, Edward L. Gleaser
Un mondo di differenze.
Combattere la povertà
negli Stati Uniti e in Europa

Editori Laterza, 2005, pag. 265, euro 22

Perché lo Stato sociale è molto più generoso in Europa che negli Stati Uniti? Perché l’America gli destina il 30% del Pil contro il 45% del vecchio continente (con punte oltre il 50 nei paesi scandinavi, mentre il dato della Gran Bratagna è esattamente a metà, al 37%)? Perché in Europa la politica fiscale è molto più ridistribuiva e la regolamentazione del mercato del lavoro protegge di più i lavoratori? Nel tentativo di rispondere a queste domande, i due economisti di Harvard Alberto Alesina e Edward L. Gleaser hanno raccolto una serie notevole di dati e hanno messo a confronto l’economia europea e quella statunitense. Un mondo di differenze. Combattere la povertà negli Stati Uniti e in Europa è un dono per chi si occupa di relazioni transatlantiche, perché offre dati concreti dove molto spesso si fa fumo, e perché con la forza dei numeri riesce a confutare alcuni attempati luoghi comuni.

I due autori ammettono che, per provare a rispondere a quelle domande iniziali, per deformazione professionale sono partiti dall’economia, ma le ragioni offerte da questa disciplina sono risultate evidentemente insufficienti per spiegare un tale divario. Se l’Europa tiene tanto al suo Welfare, e gli americani invece non lo hanno mai amato più di tanto, le ragioni devono essere trovate attraverso altre discipline: la storia, la politica, la sociologia e persino la psicologia. L’assetto istituzionale, per cominciare, secondo gli autori “è in grado di spiegare almeno metà delle differenze nella spesa sociale”, per la semplice ragione che quello americano è stato pensato e dominato dalla parte conservatrice della nazione: è insomma più di destra di quello europeo. La stessa Costituzione americana è stata scritta, nel ‘700, da “uomini facoltosi decisi a impedire allo Stato di espropriare i loro beni”, mentre nel vecchio continente le carte sono tutte recenti e sono state elaborate con l’apporto decisivo dei politici di sinistra.

Il sistema elettorale maggioritario ha favorito la “corsa verso il centro” delle forze politiche americane, mentre il proporzionale, in gran parte dei paesi europei, ha permesso ai partiti socialisti (solitamente minoritari) di nascere e svilupparsi, con ovvie conseguenze sulla diffusione dello Stato sociale. Negli States il Senato è stato fino agli anni ’20 del ‘900 un “club per ricchi”, e la Corte Suprema ha quasi sempre ostacolato riforme progressiste (come il New Deal di F.D.Roosevelt). Questo assetto conservatore non è mai stato toccato da rivoluzioni, come è accaduto ai paesi europei. Qui la storia s’intreccia con la geografia: per Alesina e Gleaser i vasti spazi americani hanno reso irraggiungibile la capitale Washington a qualunque gruppo rivoluzionario e hanno dato terra a chi voleva seguire il “mito della frontiera”, mentre la posizione geografica ha fatto sì che gli Usa non dovessero combattere mai una guerra sul proprio territorio, cosa che ha evitato loro sommosse popolari, invasioni e cambi di Costituzioni.

L’eterogeneità etnica spiega quasi da sola l’altra metà del divario tra le due potenze sulla ridistribuzione del reddito, specie se viene coniugata insieme alle differenze geografiche. In Usa le vaste distanze e le basse densità allontanano anche fisicamente gli individui, allentando i vincoli di solidarietà, a loro volta messi fortemente in crisi dalle differenze etniche: in America, dove l’eterogeneità etnica è maggiore che in Europa, i membri delle comunità benestanti (bianche) sono contrarie alla ridistribuzione statale del reddito perché sanno che avvantaggerebbe i neri, che sono più poveri e che generalmente i bianchi non sentono appartenere alla propria comunità. La frammentazione razziale è così importante da aver peraltro impedito lo svilupparsi di un forte movimento sindacale, mentre anche in Europa, spiegano gli autori, xenofobia e razzismo negli ultimi anni vanno a braccetto con la contestazione del vecchio Stato sociale, e l’immigrazione musulmana potrebbe per questo contribuire a un indebolimento del Welfare. Basta pensare alle campagne di Haider, di Le Pen, del Vlaams Block e della Lega Nord, spiegano Alesina e Gleaser, i quali però prevedono che “man mano che l’eterogeneità razziale in Europa si farà più accentuata, anche la destra più ‘rispettabile’ andrà in questa direzione”.

Altri fattori importanti sono legati alla nascita dell’America, che avvenne senza divisioni di classe e con l’apporto di dinamici immigrati, più inclini a lavorare che a contestare. E decisiva infine risulta l’ideologia. Se l’etica calvinista e protestante spinge gli americani a vedere il successo (e il rischio) economico come un segno di “bontà”, in Europa i partiti cattolici sono sempre andati d’accordo con quelli socialisti nel difendere la solidarietà pubblica e il mondo dei lavoratori, come dimostra la legge di co-determinazione con cui Konrad Adenauer riservava ai sindacati dei posti nel cda delle aziende (anche la destra democratica laica, da Bismarck a De Gaulle, ha sempre difeso lo Stato sociale, e perfino quella fascista, tanto da far dire agli autori che “Hitler era un redistributore molto più di Roosevelt”). I concittadini di Reagan e Kennedy sono inoltre convinti di vivere nella terra delle opportunità, dove il tasso di mobilità è altissimo e i poveri, pertanto, non possono essere che pigri e quindi indegni di un aiuto pubblico; i figli di Adenauer e De Gasperi ritengono invece che la nascita sia ancora una discriminante e che i poveri non sono pigri, ma solo sfortunati: dunque meritevoli della solidarietà dello Stato. Secondo il World Values Survey, il 71% degli americani crede che i poveri potrebbero uscire dalla miseria se lavorassero sodo, mentre in Europa lo pensa solo il 40%. Lo stesso Gorge Washington, nel 1783, diceva che se i cittadini americani “non saranno completamente liberi e felici, la colpa sarà interamente loro”.

Il libro di Alesina e Gleaser ha il merito di analizzare senza ideologia un campo ostico e di grande attualità. In fin dei conti sembra riservare maggiore simpatia al sistema europeo, o perlomeno offre qualche argomento in più agli europeisti, nella ormai nota querelle “sistema europeo vs sistema americano”. Ad esempio quando dimostra che il tasso di mobilità percepito dai cittadini americani è molto più alto di quello reale. Il divario tra Europa e Usa, quanto a mobilità verso l’alto, nei fatti è davvero minimo, e se per le classi medie è leggermente migliore di là dall’Atlantico, è in Europa che un povero ha più possibilità di uscire dalla sua condizione di indigenza.

Il libro, nel finale, giunge ad una conclusione logica e molto interessante, una di quelle perle che colpiscono per la loro semplice saggezza, e che non possono non stordire e costringere alla riflessione anche chi con essa non convenga: “La sinistra europea è riuscita, molto meglio di quella americana, a portare avanti e diffondere le proprie idee. Per questo è inevitabile che su molte cose, tra cui la guerra, l’eguaglianza e le istituzioni internazionali, Vecchio e Nuovo Continente la pensino in maniera diversa”. L’Europa, secondo i due economisti americani, è geneticamente di sinistra. Urge comunicarlo alla gauche francese.

 

 

 

 

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