279 - 14.06.05


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Un dibattito, poche idee,
tante ossessioni
Elisabetta Ambrosi

Il tasso di ideologizzazione del dibattito pubblico in Italia, mediamente più alto che altrove, ha raggiunto nel caso del referendum sull’abrogazione della legge 40 un livello di acutezza quasi patologica. Il dialogo tra i fautori del sì e coloro che invitano gli elettori ad astenersi dal voto è divenuto uno scambio sterile e infruttuoso, perché mancano le premesse per un confronto. E mancano non, come quasi sempre avviene nel caso di una difficoltà di dialogo, a causa di una indisponibilità di entrambe le parti: stavolta la responsabilità della mancata comunicazione grava soprattutto su chi difende la legge 40 attraverso una difesa ideologica della vita dell’embrione.

Il pensiero ideologico è caratterizzato da alcuni elementi ricorrenti: il rifiuto di una qualsiasi forma di compromesso, sempre tacciato di imperfezione, di provvisorietà, quando invece esso riveste un ruolo centrale nello spazio politico; l’ossessione per un punto fermo, inamovibile, dal quale si dipana la riflessione, la quale dunque non serve come indagine che si muove liberamente verso un risultato che non conosce in anticipo, ma come argomentazione apologetica funzionale alla dimostrazione di quanto non può essere messo in discussione; ancora, il completo disinteresse verso l’esperienza concreta, la fenomenologia quotidiana, in breve la realtà della vita vissuta; infine, la logica del bene vs male, in soldoni del bianco e del nero, quando il mondo è sempre una straordinaria varietà di grigi, unita a quella del “tutto o niente”, per cui ad un piccolo guadagno nella direzione giusta è comunque meglio nulla.

Ebbene, tutti questi elementi ricorrono con frequenza impressionante nel caso dei fautori dell’astensione, i quali, piuttosto che presentare un insieme articolato di ragioni nel merito dei diversi punti della legge che la Corte Costituzionale ha giudicato riformabili, hanno indirizzato l’intero dibattito verso un’unica ossessiva domanda: l’embrione è un essere umano?
Così, il complesso spettro di questioni legate alla legge 40 – una indagine sulla crescente incidenza della sterilità, sulle sue gravi conseguenze a livello psichico e affettivo e sui possibili rimedi, una riflessione su che cosa significa essere genitori e sulla drammatica scarsità di risorse che lo Stato impegna per aiutare chi decide di avere un figlio, un approfondimento sul senso e i fini della ricerca scientifica – tutto ciò è stato risucchiato da un riduzionismo biologistico in cui l’unica questione degna di attenzione, in editoriali simili a raffinate discussioni teologiche medioevali, era quella relativa all’inizio “fisico” della vita.

Questa argomentazione sofisticata, che si ritiene l’unica in grado di difendere l’umanità dell’embrione, in verità arriva ad un risultato quasi capovolto: l’embrione infatti viene analizzato in sé, distaccato dal contesto di senso e affetto che lo ha immaginato e desiderato; e in primo luogo dalla relazione con la madre e il suo corpo, senza cui esso non è di fatto neanche pensabile. In questo modo l’embrione viene decontestualizzato, oggettivato, ridotto a un’entità astratta su cui discettare in maniera teorica.

Inoltre, se tutta l’argomentazione di chi difende la legge in vigore si riduce ad una astratta difesa dell’embrione in quanto essere umano, allora è chiaro che da questo principio assoluto può discendere solo una serie di divieti sottratti per principio alla discussione: rifiuto tout court alla ricerca sugli embrioni, anche se essa – curioso che i difensori della “vita” non lo ricordino mai – può condurre a cure che consentono di salvare vite umane; rigetto della possibilità che la donna possa avere ripensamenti nel lasso di tempo che intercorre tra fecondazione e impianto, e conseguente obbligo di impianto di un numero (inspiegabilmente) fisso di embrioni, obbligo che di fatto è impossibile praticare e che è dunque tanto più insensato teorizzare. Infine, divieto di inseminazione eterologa, che, anche se parzialmente scollegato dal binomio embrione-persona, viene letta attraverso la medesima logica del tutto o niente e conseguentemente rifiutata in base a vaghe motivazioni psicologiche prive di letteratura scientifica che le supporti.

Sulla difesa della vita dell’embrione a tutti i costi, difesa che chi porta avanti dovrebbe avere il coraggio di legare a una battaglia esplicita per l’abolizione della 194, in contrasto stridente con la legge 40, si è poi innestata una vera e propria guerra culturale, gestita e ascoltata da una ristretta élite intellettuale, e imperniata sulla critica al primato del desiderio e all’egoismo di chi vuole un figlio a tutti i costi. Si tratta di una guerra culturale che non adduce argomentazioni pacate, possibiliste, ragionevoli, ma tende piuttosto a creare un colpevole da stigmatizzare (un esempio su tutti: Rocco Buttiglione che accusa gli scienziati di potenziale criminalità). Che a questo colpevole, il prometeo moderno insaziabile di figli, non corrisponda nessuna persona reale sembra essere un dettaglio. Che coloro che si rivolgono ai centri di cura della sterilità siano persone in carne ed ossa psicologicamente provate, colpevoli solo di desiderare di generare vita ed amarla, sembra contare assai poco. Che chi spera che la ricerca sulle staminali mantenga le sue promesse sia spesso parente o amico di persone malate, o egli stesso tale, partecipe di gravi sofferenze che giustamente guardano ogni prospettiva di cura, seppure in potenza, come qualcosa da difendere e sostenere, anche questo appare marginale. Una serie di spettri viene agitata a confondere le acque e nascondere la realtà della vita quotidiana di uomini e donne normali di un paese sempre più indietro nel riconoscimento dei diritti delle persone: degli immigrati, delle donne, dei giovani, dei padri e delle madri, degli anziani.

Quali sono allora gli scenari futuri? Se vinceranno gli astensionisti, l’Italia, già drammaticamente indietro nel sostegno a chi decide di mettere al mondo dei figli, si troverà con una legge odiosa e ingiusta, che ferisce la dignità delle donne e degli uomini. Una legge contestata da molti e generatrice di disparità tra poveri e ricchi. Se, come purtroppo difficilmente avverrà – dal momento che alcune tra le più alte cariche dello stato hanno invitato i cittadini a non esercitare un loro diritto-dovere di votare – i sì vinceranno la loro nobile battaglia, il parlamento dovrà affrontare la responsabilità di fornire una legge migliore. Sarà all’altezza del compito? Consentitemi di dubitarne. Una via d’uscita potrebbe essere la così detta bozza Amato, tentativo intelligente di mediazione tra laici e cattolici. Ma perché questa bozza, o una similare, possa farsi spazio tra i fautori della logica del “tutto o niente”, che attraversano trasversalmente gli schieramenti, questi dovranno cessare di rifugiarsi dietro il comodo rifugio della (unicamente loro) libertà di coscienza, accettare il compromesso e la discussione, smettere di rivendicare lo spazio politico come luogo di manifestazione di un verità con la V maiuscola, poiché esso non è che il fragile spazio in cui le diversità, i conflitti, faticosamente cercano una composizione.

 

 

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