Il tasso di ideologizzazione del dibattito pubblico
in Italia, mediamente più alto che altrove,
ha raggiunto nel caso del referendum sull’abrogazione
della legge 40 un livello di acutezza quasi patologica.
Il dialogo tra i fautori del sì e coloro che
invitano gli elettori ad astenersi dal voto è
divenuto uno scambio sterile e infruttuoso, perché
mancano le premesse per un confronto. E mancano non,
come quasi sempre avviene nel caso di una difficoltà
di dialogo, a causa di una indisponibilità
di entrambe le parti: stavolta la responsabilità
della mancata comunicazione grava soprattutto su chi
difende la legge 40 attraverso una difesa ideologica
della vita dell’embrione.
Il pensiero ideologico è caratterizzato da
alcuni elementi ricorrenti: il rifiuto di una qualsiasi
forma di compromesso, sempre tacciato di imperfezione,
di provvisorietà, quando invece esso riveste
un ruolo centrale nello spazio politico; l’ossessione
per un punto fermo, inamovibile, dal quale si dipana
la riflessione, la quale dunque non serve come indagine
che si muove liberamente verso un risultato che non
conosce in anticipo, ma come argomentazione apologetica
funzionale alla dimostrazione di quanto non può
essere messo in discussione; ancora, il completo disinteresse
verso l’esperienza concreta, la fenomenologia
quotidiana, in breve la realtà della vita vissuta;
infine, la logica del bene vs male, in soldoni del
bianco e del nero, quando il mondo è sempre
una straordinaria varietà di grigi, unita a
quella del “tutto o niente”, per cui ad
un piccolo guadagno nella direzione giusta è
comunque meglio nulla.
Ebbene, tutti questi elementi ricorrono con frequenza
impressionante nel caso dei fautori dell’astensione,
i quali, piuttosto che presentare un insieme articolato
di ragioni nel merito dei diversi punti della legge
che la Corte Costituzionale ha giudicato riformabili,
hanno indirizzato l’intero dibattito verso un’unica
ossessiva domanda: l’embrione è un
essere umano?
Così, il complesso spettro di questioni legate
alla legge 40 – una indagine sulla crescente
incidenza della sterilità, sulle sue gravi
conseguenze a livello psichico e affettivo e sui possibili
rimedi, una riflessione su che cosa significa essere
genitori e sulla drammatica scarsità di risorse
che lo Stato impegna per aiutare chi decide di avere
un figlio, un approfondimento sul senso e i fini della
ricerca scientifica – tutto ciò è
stato risucchiato da un riduzionismo biologistico
in cui l’unica questione degna di attenzione,
in editoriali simili a raffinate discussioni teologiche
medioevali, era quella relativa all’inizio “fisico”
della vita.
Questa argomentazione sofisticata, che si ritiene
l’unica in grado di difendere l’umanità
dell’embrione, in verità arriva ad un
risultato quasi capovolto: l’embrione infatti
viene analizzato in sé, distaccato dal contesto
di senso e affetto che lo ha immaginato e desiderato;
e in primo luogo dalla relazione con la madre e il
suo corpo, senza cui esso non è di fatto neanche
pensabile. In questo modo l’embrione viene decontestualizzato,
oggettivato, ridotto a un’entità astratta
su cui discettare in maniera teorica.
Inoltre, se tutta l’argomentazione di chi difende
la legge in vigore si riduce ad una astratta difesa
dell’embrione in quanto essere umano, allora
è chiaro che da questo principio assoluto può
discendere solo una serie di divieti sottratti per
principio alla discussione: rifiuto tout court
alla ricerca sugli embrioni, anche se essa –
curioso che i difensori della “vita” non
lo ricordino mai – può condurre a cure
che consentono di salvare vite umane; rigetto della
possibilità che la donna possa avere ripensamenti
nel lasso di tempo che intercorre tra fecondazione
e impianto, e conseguente obbligo di impianto di un
numero (inspiegabilmente) fisso di embrioni, obbligo
che di fatto è impossibile praticare e che
è dunque tanto più insensato teorizzare.
Infine, divieto di inseminazione eterologa, che, anche
se parzialmente scollegato dal binomio embrione-persona,
viene letta attraverso la medesima logica del tutto
o niente e conseguentemente rifiutata in base a vaghe
motivazioni psicologiche prive di letteratura scientifica
che le supporti.
Sulla difesa della vita dell’embrione a tutti
i costi, difesa che chi porta avanti dovrebbe avere
il coraggio di legare a una battaglia esplicita per
l’abolizione della 194, in contrasto stridente
con la legge 40, si è poi innestata una vera
e propria guerra culturale, gestita e ascoltata da
una ristretta élite intellettuale, e imperniata
sulla critica al primato del desiderio e all’egoismo
di chi vuole un figlio a tutti i costi. Si tratta
di una guerra culturale che non adduce argomentazioni
pacate, possibiliste, ragionevoli, ma tende piuttosto
a creare un colpevole da stigmatizzare (un esempio
su tutti: Rocco Buttiglione che accusa gli scienziati
di potenziale criminalità). Che a questo colpevole,
il prometeo moderno insaziabile di figli, non corrisponda
nessuna persona reale sembra essere un dettaglio.
Che coloro che si rivolgono ai centri di cura della
sterilità siano persone in carne ed ossa psicologicamente
provate, colpevoli solo di desiderare di generare
vita ed amarla, sembra contare assai poco. Che chi
spera che la ricerca sulle staminali mantenga le sue
promesse sia spesso parente o amico di persone malate,
o egli stesso tale, partecipe di gravi sofferenze
che giustamente guardano ogni prospettiva di cura,
seppure in potenza, come qualcosa da difendere e sostenere,
anche questo appare marginale. Una serie di spettri
viene agitata a confondere le acque e nascondere la
realtà della vita quotidiana di uomini e donne
normali di un paese sempre più indietro nel
riconoscimento dei diritti delle persone: degli immigrati,
delle donne, dei giovani, dei padri e delle madri,
degli anziani.
Quali sono allora gli scenari futuri? Se vinceranno
gli astensionisti, l’Italia, già drammaticamente
indietro nel sostegno a chi decide di mettere al mondo
dei figli, si troverà con una legge odiosa
e ingiusta, che ferisce la dignità delle donne
e degli uomini. Una legge contestata da molti e generatrice
di disparità tra poveri e ricchi. Se, come
purtroppo difficilmente avverrà – dal
momento che alcune tra le più alte cariche
dello stato hanno invitato i cittadini a non esercitare
un loro diritto-dovere di votare – i sì
vinceranno la loro nobile battaglia, il parlamento
dovrà affrontare la responsabilità di
fornire una legge migliore. Sarà all’altezza
del compito? Consentitemi di dubitarne. Una via d’uscita
potrebbe essere la così detta bozza Amato,
tentativo intelligente di mediazione tra laici e cattolici.
Ma perché questa bozza, o una similare, possa
farsi spazio tra i fautori della logica del “tutto
o niente”, che attraversano trasversalmente
gli schieramenti, questi dovranno cessare di rifugiarsi
dietro il comodo rifugio della (unicamente loro) libertà
di coscienza, accettare il compromesso e la discussione,
smettere di rivendicare lo spazio politico come luogo
di manifestazione di un verità con la V maiuscola,
poiché esso non è che il fragile spazio
in cui le diversità, i conflitti, faticosamente
cercano una composizione.
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