Il testo che segue è la prefazione al
libro di Giorgio Tonini La ricerca e la coscienza.
La procreazione assistita tra legge e referendum,
uscito in allegato al quotidiano Il
Riformista.
Quanto
più si addensa in opinioni sempre più
di frequente contrapposte e ribattute nel ping pong
dei confronti giornalistici e televisivi, tanto meno
il dibattito sulla fecondazione assistita è
in grado di aiutare chi vuole capirne di più.
Devo dire, con rammarico, che sono soprattutto i difensori
della legge n.40 a chiudersi a riccio, da un lato
in petizioni di principio tenacemente sottratte ad
ogni riscontro scientifico e fattuale, dall’altro
nella prospettazione di scenari apocalittici per il
caso che quella legge venisse soltanto scalfita e
comunque modificata. Così facendo, non aiutano
a capire i termini della questione e concorrono essi
stessi a rendere possibile ciò che paventano,
e che anch’io pavento. Possono cioè indurre
una reazione di irrigidimento nel fronte referendario
che, in caso di vittoria, finirebbe magari per dire:
e ora fermi tutti, in nome del popolo sovrano, che
ha deciso per l’abrogazione, e non per la modifica,
delle norme oggetto dei quesiti.
Questo, certo, potrebbe aprire la strada a conseguenze
non auspicabili. Ma conseguenze non auspicabili ha
anche la legge com’è, e le ha proprio
dal punto di vista della tutela dell’embrione
e della sua dignità umana, che tanto sta a
cuore ai difensori della legge e che io stesso condivido.
Per questo essi sbagliano due volte: sbagliano nel
sovrapporre quello che è ormai un dogma a ciò
che ci dice la scienza sul nostro iniziale processo
di vita e sulla formazione nel corso di esso dell’embrione;
e sbagliano nel difendere norme, che, volute per azzerare
l’esistenza di embrioni soprannumerari, si limitano
a ridurne la produzione, in modi che vanno a scapito
della salute della donna e senza tuttavia poter impedire
la rimanenza di alcuni di loro; con l’effetto
aggiuntivo (e grave) di voltare la testa dall’altra
parte davanti a quelli che rimangono, e accada loro
quello che accade.
Potrei non aggiungere altro e rimettere sin d’ora
il lettore alle pagine che seguono di Giorgio Tonini:
pagine pacate, documentate, ragionate, e scritte per
di più con le parole e gli argomenti semplici
che sono essenziali per aiutare gli altri a capire,
giacché di questo soprattutto c’è
bisogno. Tanto più che nel leggerle si capisce
non solo quali sono i termini della questione, ma
anche quanto questa sarebbe meglio affrontabile e
risolvibile non sparandosi da fronti contrapposti,
bensì chiedendo a ciascun fronte di prendere
atto delle buone ragioni dell’altro (perché
ci sono buone ragioni da entrambe le parti) e di lavorare
su equilibrate soluzioni comuni (perché si
può arrivare a equilibrate soluzioni comuni,
che, di fronte alle storture della legge n.40, sono
per chi si preoccupa dell’embrione, non compromessi
deteriori, ma miglioramenti importanti).
Non riesco però a rinunciare ad alcune notazioni,
che altro non sono se non anticipazioni di quanto
il lettore troverà nel libro. Comincio con
la documentazione scientifica che Giorgio Tonini fornisce
circa le fasi che portano alla formazione dell’embrione.
Non si può non notare che è la stessa
a cui in più casi ha fatto ricorso, indicandola
come base ormai indiscussa di riferimento, ma limitandosi
a citarla attraverso l’indicazione dell’autore,
del titolo dell’opera e del capitolo a cui si
asseriva di attingere, chi ha sostenuto che esso esiste,
e va quindi protetto, fin dall’iniziale fecondazione
dell’ovocita. Tonini va oltre, riporta in concreto
i passi del testo citato e ci fa scoprire che in esso
non si dice affatto che l’embrione esiste fin
dal momento della fecondazione dell’ovocita.
Si dice piuttosto che la fecondazione dell’ovocita
è un processo in più stadi e che solo
ad uno di tali stadi, ammesso che ci si arrivi, compare
l’embrione.
E’ una diversità nell’uso delle
fonti che non commento, la lascio alle valutazioni
di chi legge. Sottolineo soltanto che Tonini, e io
sono d’accordo con lui, non si imbarca qui nella
discussione che di solito si fa quando si discute
di interruzione della gravidanza; e quindi non si
esprime sul valore da dare alle fasi che seguono la
formazione dell’embrione, quella cioè
di annidamento nell’utero materno e quella,
più avanzata, di cerebralizzazione, con la
quale inizia la relazione con la madre. In altre parole,
né lui né io arriviamo a chiederci se
l’individualità dell’embrione possa
considerarsi tale prima dell’annidamento (che
è essenziale alla sua vita) o addirittura prima
dell’inizio della vita di relazione (che pure
è per i cattolici un connotato essenziale del
nostro essere persona). No, il punto qui non è
il destino dell’embrione, è l’esserci
o non esserci di quell’entità cellulare
individuale, munita dei cromosomi sia maschili che
femminili, in assenza della quale è assolutamente
impossibile parlare della sua stessa esistenza. Ebbene
quell’entità non c’è all’atto
della fecondazione dell’ovocita, né c’è
nelle ore successive, quelle che portano alla formazione
dell’ootide, in cui ancora i cromosomi paterni
e materni non si sono congiunti.
Ciò che io trovo inaccettabile è che
questo venga negato davanti all’evidenza scientifica
che è invece così. Davvero sembra che
si torni a prima di Galileo e a prescindere da ogni
altra valutazione io me ne sento offeso ed umiliato.
Così come trovo volgare e non meno offensivo
che si tratti da ciarlatano chi parla degli ootidi
e ne sottolinea le differenze dall’embrione.
Non è questa, tuttavia, l’unica posizione.
E c’è chi, senza negare ciò che
la scienza dice, si rifiuta di distinguere fra tutela
del processo di vita comunque iniziato e tutela del’individuo-embrione
che ne scaturirà più tardi, in nome
di un rigoroso tuziorismo etico. Ma il tuziorismo,
e cioè il principio di precauzione, non è
un principio assoluto e la sua applicazione è
giusta quando previene danni peggiori di quelli che
fa. E’ questo il caso?
Tonini ed io pensiamo che agire sul processo di vita
pre-embrione con l’effetto di limitare la produzione
artificiale di embrioni abbia senso; e che una fecondazione
assistita che inizia con l’espianto in una volta
sola di tanti ovociti quanti potranno servire a più
impianti, ma prosegua con lo sviluppo dei soli embrioni
destinati all’impianto immediato e con la crioconservazione
allo stadio di ootidi degli ovociti fecondati residui,
offra benefici che superano l’indubbio ma minore
costo morale dell’eventuale perdita più
tardi di quegli ootidi conservati. E di questo si
dovrebbe pacatamente discutere a fronte degli effetti
che possono uscire dalla legge n.40. Mi limito qui
a un unico punto di confronto: in base alla legge,
si espiantano dalla donna tre ovociti alla volta (sottoponendola
a traumi pericolosi, ove l’espianto dovesse
essere poi ripetuto più volte) e li si fa subito
sviluppare allo stato di embrioni. Nel caso che il
medico ritenga che due siano più che sufficienti,
che ne è del terzo embrione? Finisce in un
lavandino o viene anch’esso impiantato per essere
ucciso poco dopo attraverso un’iniezione letale?
E qui passo a una seconda notazione. Pur sapendo
che altri embrioni oltre a quelli felicemente impiantati
esistono e continueranno ad esistere, è moralmente
ammissibile che nulla si dica di loro e che si volti
quindi la faccia dall’altra parte, quasi che
il principio che nega la legittimità della
loro produzione artificiale possa anche negare la
loro esistenza? Anche questo è un ritorno a
prima di Galileo. Ed è in nome di questo che
si rifiuta la soluzione proposta da Tonini e da me,
secondo cui, con il consenso dei genitori, l’embrione
che sta per perire e che non sarà utilizzato
a fini riproduttivi, può almeno essere utilizzato
per migliorare, con la donazione delle sue cellule,
la vita di altri. E non mi si risponda, davanti a
questa soluzione, che l’embrione non è
un mucchio di cellule o una muffa. Lo so, lo sappiamo
e per questo lo trattiamo come il figlio pre-morto.
Come muffa lo tratta chi lo lascia morire per nulla.
Si rivela qui, nel modo più palese, che il
limite degli argomenti con cui viene difesa la legge
n.40 risiede nella loro derivazione da un principio
di fondamentale e intransigente contrarietà
alla fecondazione assistita e alle connesse tecnologie,
quasi che, regolando il tutto così come si
fa con quella legge, si potesse arrivare a un mondo
ideale, o fingere di essere in un mondo ideale, nel
quale almeno non ci sono e non ci saranno più
embrioni residui. Il risultato è che la finzione
non cambia la realtà e la realtà rimane,
per gli embrioni residui, quella che è: si
continua a produrne, anche se meno, e li si elimina
di nascosto o li si lascia a morire nei frigoriferi.
E allora sarebbe bene mettere in discussione questo
stesso principio di contrarietà alla fecondazione
assistita, coglierne il fondamento (perché,
ancora, l’intransigenza con cui viene affermato
non esclude affatto che un fondamento vi sia) e costruire
su quel fondamento i confini entro cui ammetterla
e regolarla.
Il fondamento sta, com’è noto, nella
inscindibilità fra la procreazione e l’amore
coniugale ed a tale proposito Giorgio Tonini scrive
delle pagine davvero illuminanti. Egli sottolinea
l’artificiosità di quel legame, quando
si pretende di coglierlo solo e soltanto nell’atto
sessuale (nel quale spesso è invece clamorosamente
negato), e il senso che esso dimostra invece di avere
se lo si cerca non in quell’atto, ma nella relazione
coniugale o di coppia. E’ qui che va cercato
l’amore, è qui che lo si trova ed è
qui che si esprime nel desiderio di un figlio. Se
di questo si prende atto, non ne scaturiscono contestualmente,
da un lato le ragioni che legittimano la fecondazione
assistita, dall’altro i limiti in cui queste
stesse ragioni possono indurre ad ammetterla (e cioè
per le sole coppie e solo in caso di comprovata sterilità)?
Lo so, lo so che metterla in questo modo può
significare, per la dottrina cattolica, rinunciare
al freno più consolidato nei confronti della
lussuria, un peccato capitale identificato con l’abbandono
ai godimenti carnali insiti nei rapporti sessuali
non finalizzati alla procreazione. Il fatto si è
che il freno ha totalmente cessato di operare, che
il confine della lussuria è sicuramente altrove
e che, mantenere il freno dov’è, frena
l’amore e non la lussuria.
Sono fra gli ultimi a ritenere che la realtà
vada accettata com’è. Ma da essa dobbiamo
partire se la vogliamo davvero cambiare e orientare
verso i valori in cui crediamo. Solo così riusciremo
nell’esercizio a cui quanto meno la politica
è chiamata quando la sua opera incontra coscienze,
e quindi valori, non collimanti: evitare che quei
valori diventino dogmi, renderne possibile l’incontro
e far scaturire da ciò il rinsaldamento di
un tessuto etico comune di cui abbiamo un assoluto
bisogno.
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