279 - 14.06.05


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Sarà ancora un secolo americano
Alberto Alesina con
Daniele Castellani Perelli

Come vede un economista di Harvard la crisi dell’Italia e la stagnazione dell’Europa? Senza sorpresa, e senza grandi speranze. Alberto Alesina, direttore del Dipartimento di Economia della celebre università del Massachussets, si è laureato con Mario Monti alla Bocconi, e dagli anni ’80 vive e lavora negli Stati Uniti. Collaboratore de La Stampa e del sito “lavoce.info”, Alesina denuncia la mancata svolta liberista del governo Berlusconi e suggerisce che l’unica strada per uscire dalla crisi sta nel “ridurre la spesa pubblica e il cuneo fiscale per le imprese”. Ma tutta l’Europa deve riformare il suo sistema sociale, altrimenti rischia tra dieci anni di avere “un reddito medio inferiore a quello di Cile e Corea del Sud”: “Qui in America non si sono nemmeno accorti della riforma del Patto di stabilità – ci dice il giovane economista da oltreoceano – L’Europa deve crescere, o il suo declino si estenderà anche al tavolo della politica estera”. Ma come sarà questo secolo, cinese o europeo? Alesina, che eppure nel suo libro non risparmia critiche al sistema statunitense, non ha dubbi: “Sarà un secolo americano”.

Professor Alesina, partiamo dal suo ultimo libro. In Un mondo di differenze. Combattere la povertà negli Stati Uniti e in Europa, lei e Edward Gleaser dimostrate, dati alla mano, che tra le due potenze c’è una grande differenza nell’approccio verso la ridistribuzione del reddito. Sintetizzando, per gli europei i poveri sono sfortunati, mentre per gli americani sono pigri. Lei, un italiano che vive e insegna negli Stati Uniti, avverte una differenza sostanziale tra i due mondi?

La differenza la vedo chiaramente, quei dati riflettono differenze reali. L’approccio europeo porta a un eccesso di paternalismo e a una mancanza di fiducia nell’economia di mercato, che invece si pone come obiettivo non solo quello di premiare i migliori, ma anche garantire un buon tenore di vita a chi si impegna. L’approccio americano, da parte sua, comporta però un aumento delle disuguaglianze.

Dati i tassi di povertà, si può dire che oggi l’Europa sia il luogo del mondo in cui si vive meglio. Tuttavia questo primato è messo fortemente in crisi oggi, soprattutto dal boom asiatico. Quali sono le principali sfide, oggi, della politica economia europea?

L’Europa può scegliere tra due strade. Può continuare nel sistema di protezione sociale tradizionale, continuare a lavorare sempre meno (come dimostra il fatto che le ore lavorate per abitante sono scese moltissimo nel Vecchio Continente) e crescer poco, diciamo un 1% all’anno in media. Per paesi già ricchi crescer poco oggi non è un dramma, ma l’Europa deve rendersi conto che questa strada implica che fra qualche anno o decennio il reddito medio sarà più alto in Corea del Sud, Cile e altri paesi emergenti. Questo implica anche un declino dell’Europa al tavolo della politica estera. La seconda strada è invece quella di adottare un sistema più vicino a quello americano: ridurre il peso del settore pubblico, liberalizzare di più e lavorare di più.

Veniamo all’Italia. L’Economist l’ha dipinta, in copertina, come il “vero malato d’Europa”. I recenti dati Ocse prevedono un quadro nero, imbarazzante (rapporto deficit/Pil al 4,4% nel 2005). Si aspettava che il nostro paese fosse in queste condizioni? E cosa si può fare per migliorare la situazione?

Sì, sinceramente mi aspettavo questa situazione. Quanto alle soluzioni credo che sul piano fiscale si deve ridurre la spesa pubblica e il cuneo fiscale per le imprese. Bisogna liberalizzare i mercati: nel campo bancario, ad esempio, la Banca d’Italia fa malissimo a proteggere le banche italiane dalla concorrenza internazionale. Va anche reso possibile un turn over nel mercato del lavoro, facendo sì che si possano spostare risorse e lavoro da imprese meno produttive a quelle più produttive. La caduta della produttività in Italia è drammatica.

All’estero, da Bruxelles ai quotidiani della City, il nostro premier non è molto apprezzato. Anche tra gli economisti americani regnava scetticismo verso Silvio Berlusconi, o negli anni passati si era aperto una specie di credito nei suoi confronti? E la coalizione di Romano Prodi è guardata oggi con maggiore speranza?

Le confesso che a ben pochi economisti americani interessa l’Italia. Credo che all’inizio del governo Berlusconi ci fosse qualche speranza di una svolta liberista che poi non si è verificata. Prodi lo conoscono solo come Commisario Europeo, ed è stato giudicato come non brillante.

A proposito di ricchezza, in Italia è aperto il dibattito sulle tasse e in particolare sulla tassa sulle successioni e sulla patrimoniale, che il governo Berlusconi ha eliminato anche per i redditi elevati. Michele Salvati, sul Corriere della Sera, ha scritto che il centrosinistra al governo non dovrebbe reintrodurre questa tassa, sebbene sia la “meno ingiusta” delle tasse. Lei cosa pensa?

Che Michele Salvati ha perfettamente ragione: la patrimoniale non va reintrodotta. Romano Prodi dovrebbe dire chiaramente di non volere patrimoniali in un suo eventuale prossimo governo, anzi dovrebbe eliminare dalla sua coalizione leader e forze politiche che si pronunciano a favore di questa tassa.

Infine, hanno ragione Mark Leonard e Jeremy Rifkin o Federico Rampini? Sarà il secolo europeo o il secolo cinese?

Americano, sarà un secolo americano.

 

 

 

 

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