Come vede un economista di Harvard la crisi dell’Italia
e la stagnazione dell’Europa? Senza sorpresa,
e senza grandi speranze. Alberto Alesina, direttore
del Dipartimento di Economia della celebre università
del Massachussets, si è laureato con Mario
Monti alla Bocconi, e dagli anni ’80 vive e
lavora negli Stati Uniti. Collaboratore de La
Stampa e del sito “lavoce.info”,
Alesina denuncia la mancata svolta liberista del governo
Berlusconi e suggerisce che l’unica strada per
uscire dalla crisi sta nel “ridurre la spesa
pubblica e il cuneo fiscale per le imprese”.
Ma tutta l’Europa deve riformare il suo sistema
sociale, altrimenti rischia tra dieci anni di avere
“un reddito medio inferiore a quello di Cile
e Corea del Sud”: “Qui in America non
si sono nemmeno accorti della riforma del Patto di
stabilità – ci dice il giovane economista
da oltreoceano – L’Europa deve crescere,
o il suo declino si estenderà anche al tavolo
della politica estera”. Ma come sarà
questo secolo, cinese o europeo? Alesina, che eppure
nel suo libro non risparmia critiche al sistema statunitense,
non ha dubbi: “Sarà un secolo americano”.
Professor Alesina, partiamo dal suo ultimo
libro. In Un mondo di differenze. Combattere
la povertà negli Stati Uniti e in Europa,
lei e Edward Gleaser dimostrate, dati alla mano, che
tra le due potenze c’è una grande differenza
nell’approccio verso la ridistribuzione del
reddito. Sintetizzando, per gli europei i poveri sono
sfortunati, mentre per gli americani sono pigri. Lei,
un italiano che vive e insegna negli Stati Uniti,
avverte una differenza sostanziale tra i due mondi?
La differenza la vedo chiaramente, quei dati riflettono
differenze reali. L’approccio europeo porta
a un eccesso di paternalismo e a una mancanza di fiducia
nell’economia di mercato, che invece si pone
come obiettivo non solo quello di premiare i migliori,
ma anche garantire un buon tenore di vita a chi si
impegna. L’approccio americano, da parte sua,
comporta però un aumento delle disuguaglianze.
Dati i tassi di povertà, si può
dire che oggi l’Europa sia il luogo del mondo
in cui si vive meglio. Tuttavia questo primato è
messo fortemente in crisi oggi, soprattutto dal boom
asiatico. Quali sono le principali sfide, oggi, della
politica economia europea?
L’Europa può scegliere tra due strade.
Può continuare nel sistema di protezione sociale
tradizionale, continuare a lavorare sempre meno (come
dimostra il fatto che le ore lavorate per abitante
sono scese moltissimo nel Vecchio Continente) e crescer
poco, diciamo un 1% all’anno in media. Per paesi
già ricchi crescer poco oggi non è un
dramma, ma l’Europa deve rendersi conto che
questa strada implica che fra qualche anno o decennio
il reddito medio sarà più alto in Corea
del Sud, Cile e altri paesi emergenti. Questo implica
anche un declino dell’Europa al tavolo della
politica estera. La seconda strada è invece
quella di adottare un sistema più vicino a
quello americano: ridurre il peso del settore pubblico,
liberalizzare di più e lavorare di più.
Veniamo all’Italia. L’Economist
l’ha dipinta, in copertina, come il “vero
malato d’Europa”. I recenti dati Ocse
prevedono un quadro nero, imbarazzante (rapporto deficit/Pil
al 4,4% nel 2005). Si aspettava che il nostro paese
fosse in queste condizioni? E cosa si può fare
per migliorare la situazione?
Sì, sinceramente mi aspettavo questa situazione.
Quanto alle soluzioni credo che sul piano fiscale
si deve ridurre la spesa pubblica e il cuneo fiscale
per le imprese. Bisogna liberalizzare i mercati: nel
campo bancario, ad esempio, la Banca d’Italia
fa malissimo a proteggere le banche italiane dalla
concorrenza internazionale. Va anche reso possibile
un turn over nel mercato del lavoro, facendo sì
che si possano spostare risorse e lavoro da imprese
meno produttive a quelle più produttive. La
caduta della produttività in Italia è
drammatica.
All’estero, da Bruxelles ai quotidiani
della City, il nostro premier non è molto apprezzato.
Anche tra gli economisti americani regnava scetticismo
verso Silvio Berlusconi, o negli anni passati si era
aperto una specie di credito nei suoi confronti? E
la coalizione di Romano Prodi è guardata oggi
con maggiore speranza?
Le confesso che a ben pochi economisti americani interessa
l’Italia. Credo che all’inizio del governo
Berlusconi ci fosse qualche speranza di una svolta
liberista che poi non si è verificata. Prodi
lo conoscono solo come Commisario Europeo, ed è
stato giudicato come non brillante.
A proposito di ricchezza, in Italia è
aperto il dibattito sulle tasse e in particolare sulla
tassa sulle successioni e sulla patrimoniale, che
il governo Berlusconi ha eliminato anche per i redditi
elevati. Michele Salvati, sul Corriere della Sera,
ha scritto che il centrosinistra al governo non dovrebbe
reintrodurre questa tassa, sebbene sia la “meno
ingiusta” delle tasse. Lei cosa pensa?
Che Michele Salvati ha perfettamente ragione: la patrimoniale
non va reintrodotta. Romano Prodi dovrebbe dire chiaramente
di non volere patrimoniali in un suo eventuale prossimo
governo, anzi dovrebbe eliminare dalla sua coalizione
leader e forze politiche che si pronunciano a favore
di questa tassa.
Infine, hanno ragione Mark Leonard e Jeremy
Rifkin o Federico Rampini? Sarà il secolo europeo
o il secolo cinese?
Americano, sarà un secolo americano.
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