Una terza via tra assolutismo e nichilismo, una sfida
filosofica di minoranza in questi tempi di forti contrasti.
Carlo Sini, ordinario di filosofia teoretica all’Università
di Milano, propone da sempre nei suoi scritti un atteggiamento
filosofico consapevole della parzialità del
nostro punto di vista, e tuttavia capace di non annullare
ogni elaborazione con l’assunto riduttivo secondo
il quale tutto è relativo e dunque niente è
vero. Si parla di relativismo in molti ambiti, dall’epistemologia
all’antropologia, dalla filosofia, all’etica
e alla linguistica. Giovanni Paolo II e poi Benedetto
XVI hanno identificato nel relativismo filosofico
il nemico principale non solo della Chiesa cattolica
ma anche della società occidentale nel suo
complesso.
Professor Sini, ci vuol chiarire questa nozione
di relativismo, per come viene attualmente dibattuta?
Circola da tempo nella cultura una nozione “debole”
di relativismo. La sua formulazione sintetica potrebbe
essere che ci sono solo verità relative. Nonostante
le apparenze, questo modo di ragionare - del tutto
inconsistente, come è stato giustamente notato
- non supera affatto la nozione “assoluta”
della verità. La condivide anzi profondamente.
In sostanza dice che la verità dovrebbe
essere assoluta, ma siccome purtroppo non la si è
mai vista e non la si vede da nessuna parte e in nessun
tempo, non c’è allora che ammettere verità
unicamente relative, ovvero contingenti, provvisorie
e, in sostanza, non vere. Questo tipo di relativista
condivide dunque la superstizione dell’assolutista,
che pensa la verità come una cosa o uno stato
di cose, ovvero come un significato o il contenuto
di un giudizio, il che è poi irresolubilmente
problematico, e di qui la caduta nel relativismo.
Il relativismo culturale “sancisce
la decadenza e la dissoluzione della ragione e dei
principi della legge morale naturale”, scriveva
Ratzinger quando era ancora cardinale. E Papa Giovanni
Paolo II, nell’enciclica Fides et ratio,
affermava che “la filosofia moderna, dimenticando
di orientare la sua indagine sull’essere, ha
concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana.
Invece di far leva sulla capacità che l’uomo
ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne
i limiti e i condizionamenti. Ne sono derivate varie
forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno
portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie
mobili di un generale scetticismo”. Che ne pensa,
da filosofo, di affermazioni come queste?
L’enciclica Fides et ratio attribuisce
gratuitamente e del tutto infondatamente a tutte le
umanità di tutti i tempi una sorta di animus
filosofico, sia pure inconsapevole ed embrionale.
Il suo compimento si troverebbe poi rappresentato
dall’unione di ragione e rivelazione promossa
dalla Scolastica medievale, dal tomismo e dalle sue
riprese moderne. Nella misura in cui questa può
davvero definirsi la dottrina della Chiesa, pur con
tutta la comprensione e il rispetto, non posso fare
a meno di esprimere la mia personale delusione nei
confronti della cosiddetta enciclica filosofica (peraltro
rivolta, se ho bene inteso, alle maestranze ecclesiastiche).
Come non credente non trovo nulla di genuinamente
filosofico in essa. Per altro verso, il grandioso
sforzo e le straordinarie conquiste della filosofia
tra ‘800 e ‘900 sono completamente ignorati
e fraintesi dalle ricorrenti critiche e accuse di
nichilismo. Il nichilismo è il prodotto del
dogmatismo e della volontà di potenza. La criticità
della ragione è il suo contrario. Ma per queste
cose, si sa, ci vuole pazienza. Ce ne volle tanta
in passato. Ce ne vorrà in futuro.
Nel suo libro La scrittura e il debito
(Jaca Book, 2002), lei critica tuttavia anche quegli
antropologi che, malgrado i molti meriti, non riescono
a liberarsi di un modello di umanità universalmente
condiviso. Perché ritiene impossibile un’immagine
unica di essere umano?
A mio avviso sono le concrete pratiche di vita e di
pensiero degli esseri umani a promuovere unità
condivise di comportamenti e di valori. Le universalità
promosse dalle pratiche concettuali della filosofia
e poi dalle pratiche scientifiche moderne hanno il
loro senso entro i loro rispettivi contesti. Essendo
figure relative (alle pratiche, appunto), non hanno
motivo di pretendersi come assolute. Nondimeno queste
pratiche, come sempre accade, influenzano altre pratiche
e ne vengono influenzate, dando vita a nuove figure
e verità conseguenti.
Può fare qualche esempio di questo
“pragmatismo” al quale fa riferimento
e nel quale i concetti nascono all’interno di
contesti definiti?
La pratica del dono promosse, presso certe società,
l’ampliarsi della unità e della collaborazione
umana; in forma diversa ciò è accaduto
con lo scambio fondato sul denaro ecc. Possiamo vedere
in cammino, in queste pratiche, l’universalizzazione
della nozione di essere umano. Essa è una finalità
etica, non un presupposto dogmatico o un principio
retorico astratto. Sono le conseguenze largamente
“politiche” delle nostre azioni a promuovere,
oppure no, un’umanità universale; sarà
la qualità di tali conseguenze a mostrare se
l’idea di un’umanità universale
è quel bene, quella giustizia per tutti e di
tutti che, nel formulare tale nozione, presumibilmente
ci auguriamo. Dal dogmatismo superstizioso dei pretesi
“principi” è anche qui alle conseguenze
che è opportuno guardare, se desideriamo che
le nostre parole frequentino in modo concreto ciò
che Enzo Paci chiamava “la vita della verità”.
Multiculturalità, interculturalità,
dialogo tra culture. Il relativismo culturale pone
il problema della diversità tra le culture,
senza riuscire a venirne a capo. Ma che cosa significa,
realmente, questa diversità? Quand’è
che una cultura può dirsi differente dalla
nostra?
Le culture non sono cose, ma nozioni e costrutti concettuali.
In particolare la nozione di cultura nasce al tempo
della sofistica greca ed è in vario modo dipendente
dall’introduzione della pratica alfabetica e
dalle grandiose conseguenze che ne sono derivate.
È un problema tutto occidentale, dunque, il
preteso “confronto di culture”. Applicare
la nostra superstizione antropologistica, sociologistica,
psicologistica ecc. ai modi di vita, di parole e di
scrittura di ogni altro essere umano presente ora
o in passato sul pianeta è ciò che pone
anzitutto una nostra differenza alla quale
siamo per primi soggetti. Liberare lo sguardo dai
condizionamenti della propria cultura è così
il nostro primo problema. Cominciare concretamente
a farlo mostra, io credo, l’insensatezza e l’ingenuità
paradossale di tante domande che suonano invece oggi
attuali, sollecitanti e sollecite del bene e del vero
universali.
Diritti umani. Altro capitolo per il quale
il relativismo è sotto accusa. C’è
un contrasto tra il relativismo culturale e l’universalismo
dei diritti umani? E’ vero che un relativista
culturale, per essere coerente con se stesso, non
può fare appello a principi universali nella
tutela dei diritti e delle libertà?
Io credo poco ai principi. Perché non si insiste
su situazioni concrete, invece che solo sui principi?
Perché non si dice, ad esempio, che poche famiglie
al mondo detengono il possesso del petrolio, e che
è questa situazione che causa i problemi per
risolvere i quali poi si invocano i principi? Non
che i principi non debbano esserci: anzi, di fronte
ad alcune situazioni, come quelle in cui c’è
un assolutismo politico, ribadire i principi è
un’azione politicamente efficace. Ma, nel mondo
del capitale finanziario, al di là dello stabilire
i principi e una volta che sono stati stabiliti, è
necessario e serve di più, come già
dicevo, il controllo delle conseguenze. I principi
sono troppo astratti e universalistici, e spesso distruttivi
delle identità culturali. In nome dei principi
sono state distrutte intere culture, ad esempio dal
fondo monetario internazionale. Io ho paura dei principi
stabiliti con criteri universalistici, ma in realtà
occidentali. Però so che a volte è tutto
quello che si riesce a fare, e certo è meglio
di niente. Ma il punto è: come si controllano
le conseguenze? Ci sono, è vero, strumenti
internazionali di controllo e di giurisdizione, ma
che fare se poi non vengono riconosciuti? Gli Stati
Uniti non li riconoscono e si sono sempre rifiutati
di diventare oggetto di giudizio, mentre invece hanno
sempre assoggettato al loro stesso giudizio i propri
nemici.
Da ultimo, l’Europa. Uno degli argomenti
usati contro il relativismo è quello che, con
il riconoscere l’incommensurabilità delle
culture, farebbe perdere la nozione di identità.
Un esempio di questa polemica è la querelle
sulle eredità cristiane nata attorno al Preambolo
della Costituzione europea. Giovanni Reale, noto storico
della filosofia di provenienza cattolica, come altri
ha sostenuto che il cristianesimo costituisce uno
dei fondamenti dell’uomo europeo, avendoci fornito
il concetto di uomo come persona, creato a immagine
e somiglianza di Dio, logos incarnato in
un corpo umano. Cosa ne pensa?
La ragione per la quale non condivido il silenzio
sul cristianesimo del Preambolo non è quella
di Reale. Quale sia la “vera” identità
del cittadino europeo concerne il futuro che saprà
darsi, interpretando anche il suo passato e “inverandolo”.
Ma togliere dalla sua memoria storica ufficiale ogni
riferimento all’esperienza, alla civiltà,
alla cultura, all’arte cristiane mi pare una
forzatura intellettualistica e aggressivamente dogmatica;
insomma, in tutti i sensi una sciocchezza.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it