Zigmunt Bauman,
Vite di scarto,
Laterza, pp. 174, euro 15
Ci sono personaggi – e pensatori – che
non hanno bisogno di molte presentazioni. È
il caso, per esempio, del polacco naturalizzato inglese
Zigmunt Bauman, professore emerito di Sociologia a
Leeds e Varsavia, uno dei più celebri e significativi
intellettuali viventi, la cui elaborazione teorica
(di grande suggestione, come la lingua in cui scrive)
orienta da anni il dibattito internazionale –
meglio, globale… - delle idee. Si tratta del
pensatore radicale, che con la maggiore forza e preparazione
teorica e con la più brillante vis polemica
ha analizzato i guasti della globalizzazione angloamericana,
e ne ha denunciato lo snaturamento operato ai danni
delle nostre esistenze. Coniando, assai di frequente,
categorie ed espressioni (da “amore liquido”
o “comunità guardaroba” alla nozione
di “irrilevanza dell’interazione”)
entrate nel lessico corrente dell’opinione pubblica
cosmopolita e dei tanti movimenti no e new
global e altermondialisti.
Ora, nel nuovo libro uscito da Laterza, Vite
di scarto, è la volta di uno dei principali
prodotti del mondo globale: gli scarti e i rifiuti.
Di ogni genere, materiali, ma anche e soprattutto
– ed è il fondamentale punto di osservazione
di uno studioso attento più di ogni altro alle
“conseguenze sulle persone” della globalizzazione
– umani.
«Un fantasma si aggira fra gli abitanti del
mondo liquido-moderno e fra tutte le loro fatiche
e creazioni: il fantasma dell’esubero. La modernità
liquida è una civiltà dell’eccesso,
dell’esubero, dello scarto e dello smaltimento
dei rifiuti» (p. 120). Infatti, la cultura liquido-moderna
rifiuta la memoria (e la fatica connessa al suo recupero
e alla sua custodia), optando per il disimpegno e
la molto più facile dimenticanza; come logico,
avendo bisogno di inanellare rapidamente novità
e discontinuità. Perché il fondamento
della modernità, ricorda Bauman citando Paul
Ricoeur, risiede nel desiderio di superarsi e oltrepassare
la propria identità, rimettendola continuamente
in discussione. Essere moderni significa stare perennemente
in movimento; e scartare, giustappunto, i progetti
non andati in porto e gli oggetti falliti, abortiti
o superati. Nel pianeta “saturato” dal
progresso economico, i rifiuti (il dark side della
produzione, per parafrasare i Pink Floyd) rappresentano
l’elemento distintivo della globalizzazione.
E poco importa se nel rapidissimo consumo di ogni
cosa, vengono gettati altri esseri umani: tutto ciò
che ostacola la corsa incessante della crescita economica
costituisce un ostacolo da rimuovere obbligatoriamente.
Così è per i popoli del Terzo mondo,
la riserva di manodopera a basso costo, oltre che
la discarica dei rifiuti, delle Fortezze America ed
Europa; e così è per i losers,
i perdenti “interni” al Primo mondo, poveri
o affetti dalle malattie depressive liquide-moderne,
come le chiama lo studioso, che dilagano sempre più.
Così è per i migranti, i sans papiers,
i richiedenti asilo, i rifugiati e i profughi di guerre,
catastrofi ecologiche e tragedie umanitarie. Così
è per le vittime degli innumerevoli traffici
di una criminalità organizzata che mai si è
arricchita tanto come nello “spazio dei flussi”
(per dirla alla Manuel Castells), al punto da condizionare
in maniera decisiva l’economia globale, una
quota considerevole della quale risulta, per l’appunto,
di matrice illecita ed illegale. Così è
per i lavoratori in esubero rispetto alla logica selvaggia
del mercato neoliberista, che delocalizza, espelle,
cancella attività produttive con una facilità
estrema, in omaggio al dogma della liberissima circolazione
dei capitali (e della loro accumulazione nelle mani
di un sempre minor numero di padroni). Così
è per i prigionieri e i reclusi, espulsi dal
ciclo produttivo e oggetto delle attenzioni dello
“Stato penale” che, secondo le riflessioni
di uno degli allievi prediletti di Bourdieu, Loïc
Wacquant, ha sostituito lo Stato sociale, e procede
sulla strada di una forzata privatizzazione degli
istituti di correzione e delle carceri – perché
la diffusa e generale condizione di insicurezza nella
quale viviamo, come nota Bauman, è diventata
l’ennesima, lauta fonte di business per le corporation
che dominano le nostre esistenze. E così è,
infine, per i sentimenti e i rapporti privati –
dominati dalla paura incontenibile che ciascuno di
noi ha della solitudine e del rischio di venire “rottamato”
da partners e amici – al punto da trasformare
in un travolgente successo commerciale lo speed
date, il gioco dell’appuntamento amoroso
a raffica che, nei 3 minuti del suo svolgimento, consente
di evitare qualunque ipotesi di sofferenza o di reale
messa in gioco di se stessi, come prescrive un’epoca
nella quale nessuno appare più disposto a patire
o a provare passioni forti e autentiche.
Il vecchio Grande fratello della normalizzazione
e dell’inclusione violenta di ogni individuo
all’interno del suo ordine si è unito,
in una inedita “santa alleanza”, con il
nuovo Grande fratello dei reality show e
dell’esclusione dal “paradiso artificiale”
dell’Occidente dei diversi. Antichi e rinnovati
strumenti al servizio del dominio di sempre, che oggi
assume le forme dello strapotere delle multinazionali.
C’è proprio di che stare allegri, dunque…
È un affresco devastante quello che esce dai
libri del “grande vecchio” Zigmunt Bauman.
Un quadro lucido e spietato, dal quale diventa sempre
più urgente – e sempre più difficile
– trovare una via d’uscita. Individuarla
non è il compito che si è prefissato
lo studioso, e quindi attendiamo con trepidazione
qualcuno che sappia darci una ricetta almeno in parte
vicina al livello della diagnosi baumaniana. AAA.
Via d’uscita, prima di diventare tutti quanti
“vite di scarto”, cercasi…
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