Una motocicletta, un ponte tra Strasburgo
e Kehl, un passaggio a due ruote sul Reno, laddove
il Reno sembra un braccio di mare tanto è grande,
un passaggio morbido dal francese “duro”
dell’Alsazia al tedesco, in moto, senza controlli,
e da lì muoversi ancora per qualche migliaio
di chilometri, fino alle pianure sul confine incerto
tra la Germania e la Polonia, e poi avanti, ancora
avanti, ancora pianura fino alla Russia bianca e all’Ucraina.
Fermarsi lì e guardare indietro dà il
senso di quello che è stata la costruzione
dell’Europa negli ultimi cinquant’anni.
Sembrano lontane le vicende drammatiche del primo
e del secondo conflitto mondiale che hanno visto quelle
frontiere presidiate da migliaia di soldati, difese
da fortificazioni interrate ritenute a torto inattaccabili.
Difendere quei confini e conquistarne altri è
stato il miraggio della prima parte del secolo scorso,
superarli senza bramosia di gloria è la conquista
di oggi.
Brutalità e grandezza del Novecento.
Ci sono singole biografie che potrebbero emblematicamente
rappresentare la biografia del secolo. Zygmunt Bauman
è un ebreo polacco fuggito dalla sua città
dopo l’invasione tedesca del ’39; tornato
nel suo paese dopo la guerra per insegnare all’università
di Varsavia, fu costretto nel ’68 - dopo la
recrudescenza dell’antisemitismo a seguito dello
scoppio della guerra dei Sei giorni tra arabi ed israeliani
- a trasferirsi a Tel Aviv; successivamente, fu chiamato
ad insegnare nell’università di Leeds
in Inghilterra, dove oggi vive.
In un recente libro (Intervista sull’identità,
Laterza) Bauman racconta che, in occasione della consegna
di un premio in suo onore, gli fu chiesto quale inno
nazionale volesse che fosse suonato. La domanda poteva
suonare imbarazzante, ma la risposta del sociologo
arrivò subito, e fu semplicemente di far eseguire
l’inno dell’Unione europea. Cos’altro
avrebbe potuto rispondere un ebreo del Novecento,
polacco di nascita, inglese d’adozione?
Ecco perché per parlare del futuro dell’Europa
bisogna guardare al passato, ai cent’anni trascorsi.
Emergerebbe che la cosa più importante da costruire
è quella che ancora non è stata edificata,
e cioè la politica. Ma perché la costruzione
dell’Europa politica sia un processo naturale,
c’è bisogno di ri-costruire/ri-scoprire
un’identità comune vilipesa dagli orrori
del ‘900, il nazionalismo fattosi guerra, la
pericolosa risoluzione dell’etica all’interno
della sfera della politica che ha partorito regimi
sanguinari, deportazioni, olocausto. Ri-scoprire un’identità
significa comporre un apparato simbolico che si nutre
di rappresentazioni, di immagini, di “figure”.
Così come immagine potrebbe essere la caduta
delle frontiere alla libera circolazione dei cittadini:
figura, appunto, di quello che è - ma soprattutto
di quello che dovrebbe essere - l’Europa.
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