277 - 16.05.05


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"Il mio inno europeo"
Andrea Borghesi

Una motocicletta, un ponte tra Strasburgo e Kehl, un passaggio a due ruote sul Reno, laddove il Reno sembra un braccio di mare tanto è grande, un passaggio morbido dal francese “duro” dell’Alsazia al tedesco, in moto, senza controlli, e da lì muoversi ancora per qualche migliaio di chilometri, fino alle pianure sul confine incerto tra la Germania e la Polonia, e poi avanti, ancora avanti, ancora pianura fino alla Russia bianca e all’Ucraina. Fermarsi lì e guardare indietro dà il senso di quello che è stata la costruzione dell’Europa negli ultimi cinquant’anni. Sembrano lontane le vicende drammatiche del primo e del secondo conflitto mondiale che hanno visto quelle frontiere presidiate da migliaia di soldati, difese da fortificazioni interrate ritenute a torto inattaccabili. Difendere quei confini e conquistarne altri è stato il miraggio della prima parte del secolo scorso, superarli senza bramosia di gloria è la conquista di oggi.
Brutalità e grandezza del Novecento.

Ci sono singole biografie che potrebbero emblematicamente rappresentare la biografia del secolo. Zygmunt Bauman è un ebreo polacco fuggito dalla sua città dopo l’invasione tedesca del ’39; tornato nel suo paese dopo la guerra per insegnare all’università di Varsavia, fu costretto nel ’68 - dopo la recrudescenza dell’antisemitismo a seguito dello scoppio della guerra dei Sei giorni tra arabi ed israeliani - a trasferirsi a Tel Aviv; successivamente, fu chiamato ad insegnare nell’università di Leeds in Inghilterra, dove oggi vive.

In un recente libro (Intervista sull’identità, Laterza) Bauman racconta che, in occasione della consegna di un premio in suo onore, gli fu chiesto quale inno nazionale volesse che fosse suonato. La domanda poteva suonare imbarazzante, ma la risposta del sociologo arrivò subito, e fu semplicemente di far eseguire l’inno dell’Unione europea. Cos’altro avrebbe potuto rispondere un ebreo del Novecento, polacco di nascita, inglese d’adozione?

Ecco perché per parlare del futuro dell’Europa bisogna guardare al passato, ai cent’anni trascorsi. Emergerebbe che la cosa più importante da costruire è quella che ancora non è stata edificata, e cioè la politica. Ma perché la costruzione dell’Europa politica sia un processo naturale, c’è bisogno di ri-costruire/ri-scoprire un’identità comune vilipesa dagli orrori del ‘900, il nazionalismo fattosi guerra, la pericolosa risoluzione dell’etica all’interno della sfera della politica che ha partorito regimi sanguinari, deportazioni, olocausto. Ri-scoprire un’identità significa comporre un apparato simbolico che si nutre di rappresentazioni, di immagini, di “figure”. Così come immagine potrebbe essere la caduta delle frontiere alla libera circolazione dei cittadini: figura, appunto, di quello che è - ma soprattutto di quello che dovrebbe essere - l’Europa.

 

 

 

 

 

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