277 - 16.05.05


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“Nessuna salvezza
senza stato sociale”
Zygmunt Bauman con
Elisabetta Ambrosi

Impossibile star dietro alle sue continue e incalzanti pubblicazioni: Zygmunt Bauman, sociologo di fama mondiale, continua a denunciare con passione tutte le storture delle società contemporanee e dei processi di globalizzazione senza regole (Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone; La società sotto assedio; Vite di scarto). Le sue riflessioni etiche sulla fragilità dei legami affettivi, sulle conseguenze drammatiche dei processi di cambiamento innescati dalla modernità (Modernità liquida), sulle contraddizioni in cui si dibatte l’identità postmoderna, liquida e volubile, incapace di assumere su di sé responsabilità e impegni duraturi (Voglia di comunità; Amore liquido; Intervista sull’identità), ne fanno uno dei pensatori in grado di fornire una chiave di lettura originale e acuta di ciò che avviene sulla scena mondiale.

Prof. Bauman, lei crede che con il loro ingresso in Europa, i paesi dell’Europa dell’est abbiano finalmente cessato le loro lunghe sofferenze e possano sperare in un futuro migliore?

Qualche mese fa, ho pubblicato un libricino dal titolo Europe – an Unfinished adventure; questo si apre con il richiamo a diversi miti che spiegano le origini dell’Europa e altri racconti che hanno accompagnato la sua storia e si conclude con la seguente riflessione: «C’è un filo rosso comune che attraversa tutte le storie: l’Europa è qualcosa che si scopre; l’Europa è una missione – qualcosa che va fatto, creato, costruito. E ci vuole molta inventiva, senso dello scopo e duro lavoro per compiere questa missione. Forse si tratta di un lavoro che non finisce mai, una prospettiva sempre sospesa, irrisolta.
I racconti differiscono tra loro, ma in tutti l’Europa era un luogo di avventura. Di avventura, come di interminabili viaggi, intrapresi per scoprirla, inventarla o evocarla; viaggi come quelli che riempono la vita di Odisseo (Ulisse), riluttante al rientro nella grigia sicurezza della sua nativa Itaca, allettato, trascinato da rischi sconosciuti più che dai confort della routine familiare e acclamato, forse per questo, come il precursore, il padre, il prototipo, dell’europeo. Gli europei erano gli avventurieri tra gli amanti di pace e quiete, i girovaghi infaticabili tra i timidi e i sedentari, i vagabondi tra coloro che preferivano piuttosto vivere la loro vita in un mondo che terminava al recinto del proprio villaggio».

Immagino che la risposta alla mia domanda sia contenuta in questa citazione. I paesi dell’est europeo (i paesi al margine del nucleo «duro» dell’Europa) non sono «entrati» in Europa; dopo il loro ingresso l’Europa è diversa da quella che precedeva il loro arrivo. Una nuova avventura è cominciata, per la vecchia Europa, per i nuovi venuti, per tutti e due insieme. Ogni futuro sviluppo dipenderà dal contributo e dalla saggezza di tutti gli europei.

Oltre a quello dell’integrazione, l’Europa deve fronteggiare un altro dilemma. La crescita è ferma, i costi del welfare aumentano. Nei suoi scritti lei ha spesso riflettuto sulle conseguenze tragiche dell’esasperazione della flessibilità e precarietà nelle società contemporanee. Sembra che l’individualismo sia causato più dall’erosione dello stato sociale che da cambiamenti ideologici. Come rispettare la dignità umana senza produrre stagnazione?

Mi trovo d’accordo con la sua diagnosi, con il suo senso di allarme e con il fatto che il dilemma che ne risulta non è facile da risolvere. Certamente, una soluzione è del tutto inconcepibile finché continuiamo a confinare il nostro pensiero nell’opposizione tra la promozione della dignità individuale e un’economia vigorosa. L’incertezza può risultare in qualche modo meno sconcertante e terrificante se ci chiediamo cosa ha fatto sì che i due valori si trovassero in opposizione. Dopo tutto, ci sono stati lunghi periodi nella storia recente in cui entrambi erano prosperosi, e in cui c’era un consenso quasi completo (da destra a sinistra) sul fatto che il loro progresso congiunto non fosse accidentale, che l’economia potesse essere florida solo se integrata e salvaguardata da uno stato sociale (che è una sorta di politica assicurativa sottoscritta collettivamente contro la cattiva sorte individuale); che l’economia capitalista poteva andare avanti con vigore solo se il capitale poteva permettersi di acquistare lavoro e il lavoro era nello stato giusto (in salute, nutrito, forte, istruito) per attrarre i compratori. Fornire ai poveri e ai disoccupati elementi per una vita degna era dunque visto non solo come una richiesta etica, ma anche come un investimento razionale e sicuro.

Questo modo di pensare era possibile solo quando tutti i fili erano uniti insieme all’interno del territorio dello stato-nazione, e quando lo stato costituiva il luogo precipuo del matrimonio tra il potere (la capacità di fare cose) e politica (l’abilità nel dirigerle). Lo stato sociale era sempre uno stato, appunto. Ora invece tutti i fili si intrecciano ben oltre il raggio d’azione delle politiche nazionali, e l’erosione crescente affigge gran parte della sovranità statale. Come risultato di una globalizzazione meramente negativa (la globalizzazione dei flussi di capitale e delle merci, della criminalità e del terrorismo, ma non della politica o del sistema giudiziario che potrebbe controllare, correggere, se necessario sopprimere i primi), viviamo attualmente in un divorzio tra potere e politica.

Può spiegarci meglio questo concetto?

Da un lato, abbiamo una politica senza potere, e dall’altra un potere emancipato dal controllo politico. Il potere fluttua nello spazio globale, mentre la politica rimane locale come prima. È in questo iato tra poteri globali e politica locale che si annida e prospera l’antagonismo tra vita degna e crescita economica. Libero di muoversi, il capitale non ha bisogno di investire nel lavoro locale – può comprarlo in paesi lontani dove è molto più economico dal momento che non c’è bisogno di fare alcun investimento sulla dignità della vita. La sopravvivenza e la salute dei lavoratori sono visti come problemi di altri – e se la salute è povera, le misure sanitarie e l’igiene terrificanti, la formazione inadeguata, peggio per loro – ma non dei potenziali datori di lavoro, che si spostano semplicemente dove i frutti sono freschi e maturi per essere consumati.

In poche parole: lo stato sociale non può essere più sicuro nel contesto di uno stato o anche di un gruppo di stati. Può essere solo ripristinato, reintegrato nel contesto di un globalizzazione positiva, che raggiunge e integra quella negativa. Non ci sarebbe mai stato welfare senza leggi statali vincolanti, senza un ordinamento giudiziario universale per tutti i cittadini, senza la subordinazione di tutti gli aspetti della vita condivisa al monitoraggio democratico, al controllo e alla regolamentazione. E non ci sarà un equivalente dello stato sociale senza leggi e regole vincolanti a livello globale, senza tribunali globali e istituzioni democratiche globali (anche se in una forma diversa da quella parlamentare/rappresentativa della democrazia fatta a misura di uno stato nazione, proprio come diversa è la nostra democrazia da quella diretta fatta a misura dell’antica polis o di una piccola comunità).

Lei ha parlato a lungo della doppia faccia della globalizzazione, che comporta possibilità di movimento per i ricchi e migrazioni forzate per i poveri. Crede che la povertà alla fine arriverà al centro dell’agenda politica?

Nel suo studio più ampio sull’attuale livello del processo di globalizzazione e sulle sue prospettive, David Held sostiene che la sicurezza oggi è sempre più un affare collettivo o multilaterale, e spiega come gli stati non hanno più il monopolio della forza, che invece, com’è noto, veniva loro attribuito un secolo fa da Weber. Oltre agli eserciti regolari degli stati nazionali, professionali o di leva, il mondo è pieno di eserciti privati, e compagnie di sicurezza private, alle quali sempre viene assegnata una funzione di sicurezza – un tempo considerata diritto e dovere inalienabile degli organi dello stato. Come risultato, la sicurezza nazionale «può attualmente essere realizzata efficacemente solo se gli stati nazione si mettono insieme e mettono in comune risorse, tecnologie, intelligence, potere e autorità». E voglio aggiungere a queste parole di Held che resta comunque da vedere se la protezione della sicurezza sarà garantita effettivamente.

Quanto detto finora si focalizza apparentemente sulla sicurezza nella sua accezione fisica, corporea (meglio espresso dal concetto di salvaguardia) nel quale quel termine è stato recentemente usato soprattutto nei dibattiti pubblici sulla «guerra al terrorismo». Ma ciò che Held dice della sicurezza fisica si applica all’intero fenomeno della sicurezza in tutti i suoi aspetti, tradotto nel termine tedesco di Sicherheit che, oltre alla sicurezza, abbraccia anche la certezza (o fiducia in sé) e la sicurezza sociale ed esistenziale.
Si può dedurre che molto dell’analisi di Held si applica alla capacità dei governi statali di agire effettivamente in ogni campo. Ciò che egli nota è che «anche quando la sovranità appare ancora intatta, gli stati non conservano il comando esclusivo di ciò che si manifesta all’interno dei confini territoriali. Il luogo del potere politico reale non è più semplicemente quello dei governi nazionali; il potere è condiviso, scambiato, contestato da diverse forze e centri di potere diversi, pubblici e privati, che attraversano i domini nazionali, regionali e nazionali». E conclude: «Le comunità politiche non possono essere considerate (se vogliono avere qualche validità) come semplici mondi riservati: sono invece irretititi in strutture complesse di forze sovrapposte, di relazioni e reti. Persino il più potente tra di loro – inclusi gli stati più potenti– sono influenzati e modificati dalle condizioni mutevoli e dai processi di trinceramento globale e regionale.

Quali sono le cause di questi processi e in che modo possono essere arginati?

Proseguo seguendo Held. Nel lungo inventario di fattori che erodono la sovranità, una volta completa, inalienabile e indivisbile dello stato nazione, Held (seguendo lo studio del 1999 di Kaul, Grunberg e Stern sullo stato attuale della cooperazione internazionale) individua in due divari i principali responsabili dell’endemica e apparentemente incurabile incertezza che regna nella scena globale, incertezza generata dal terreno vacillante sul quale i governi attuali devono muoversi e dalla nebulosità delle prospettive in cui devono inserire i loro progetti. Il primo è un «divario giurisdizionale» (tra il raggio d’azione locale delle leggi statali e della politica confinata allo stato e la portata globale delle conseguenze e delle ripercussioni dell’intraprendenza economica) che rende la responsabilità fluttuante e fa sì che i responsabili di misfatti siano difficilmente localizzabili e ancor più difficilmente perseguibili.

Il secondo è un divario «produttivo», impensabile senza il primo: in un ambiente caotico e per molti versi senza legge, simile al «Selvaggio West» dipinto nei film hollywoodiani, «molto attori, statali e non, cercheranno di agire liberamente, privi di una motivazione sufficiente a trovare soluzioni durevoli ai pressanti problemi internazionali».

E tornando allo stato sociale?

Ebbene, il sistema politico democratico moderno è nato e cresciuto gradualmente, attraverso svolte e cambiamenti, dal desiderio di sicurezza, combinando insieme la salvezza personale con la fiducia nel futuro. La libertà dai capricci del caso, causati da forze erratiche e senza briglia, ha costituito il motivo originario che ha messo gli uomini moderni sulla lunga strada verso democrazia piena, strada coronata con l’insediamento dello stato sociale. Il tipo di sicurezza che essi cercavano significava, in primo luogo, la regolamentazione normativa derivata dall’eliminazione o dal mitigamento dell’incertezza. Lo stato nazione, una delle invenzioni più feconde dell’età moderna, era prima di tutto un contratto che permetteva di raggiungere quello scopo attraverso la sovranità circoscritta al territorio (il diritto di far leggi e definire i loro limiti): nessun territorio senza un insieme di norme vincolanti, e un unico insieme di norme per ciascun territorio.

Lord Beveridge, l’autore del progetto del welfare state britannico, credeva che la sua visione di una assicurazione stipulata collettivamente da ciascuno fosse l’inevitabile conseguenza dell’idea liberale, così come la condizione indispensabile della democrazia liberale. La dichiarazione di guerra alla paura di Franklin Delano Roosvelt era basata sul medesimo assunto. La libertà di scelta è inscindibile di fallimento, più o meno prevedibile. Per questo, alcuni troveranno questi rischi insopportabili, scoprendo o sospettando che esso di fatto eccede la loro personale abilità nel fronteggiarlo. Per la maggioranza delle persone, la libertà di scelta rimarrà un fantasma sfuggente e un sogno ozioso, a meno che la paura della sconfitta non sia mitigata da un politica assicurativa intrapresa nel nome della comunità, una politica di cui possono aver fiducia e su cui possono fare affidamento in caso di sfortuna. Al dolore della mancanza di speranza si aggiunge infatti l’umiliazione della mancanza di fortuna; l’abilità, messa alla prova quotidianamente nel fronteggiare le sfide della vita, è dopo tutto quello stesso lavoro nel quale la fiducia di sé viene forgiata. Senza un’assicurazione collettiva, non c’è nessuno stimolo all’impegno politico – né alla partecipazione al gioco democratico delle elezioni. Nessuna salvezza può arrivare da uno stato che non è, o rifiuta di essere, uno stato sociale. Senza diritti sociali per tutti, un largo e probabilmente crescente numero di persone riterranno i loro diritti politici inutile e non degni di alcuna attenzione. Infatti, se i diritti politici sono necessari perché i diritti sociali abbiano luogo, i diritti sociali sono indispensabili per mantenere i diritti politici attivi. I due diritti hanno bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere. La loro sopravvivenza sta nel loro compimento comune.

Sono dolorosamente consapevole che lo scenario che ho disegnato dice poco circa la forma che alla fine prenderà la nostra vita condivisa sul nostro pianeta condiviso. Ma credo anche che qualsiasi realtà prendiamo in considerazione o per cui decidiamo di lottare dovrà necessariamente essere iscritta in questo scenario. Un compito scoraggiante: questo sarà un secolo tumultuoso e frenetico…

Nel suo Voglia di comunità, lei ha scritto che gli uomini e le donne dei nostri giorni sono in cerca di una più forte forma di unione, e al tempo stesso, sentono questa unione, l’idea di stare insieme in comunità, come una sorta di legame soffocante. Insomma, dobbiamo per forza scegliere tra un «liberalimo atomista» e un «comunitarismo illiberale»?

Il nostro mondo, e la nostra vita in esso, è attraversato da ambiguità che non possono che generare ambivalenza. Libertà e sicurezza rappresentano forse la contraddizione principale – abbiamo bisogno entrambe, ma al tempo stesso stentiamo a riconciliarle pur usufruendo di entrambe. Nessun composto perfetto, nessuna giusta proporzione tra le due è stata ancora trovata e sembra che siamo condannati a spostarci da un’estremità all’altra.
In ogni caso: no, quella tra «liberalismo atomistico» e «il liberalismo comunitarista» non è una scelta. Equivarrebbe a scegliere tra il diavolo e il mare profondo, o, piuttosto, tra l’inferno e gli inferi. È altamente inverosimile che possiamo trovare la felicità in uno dei due. Ma è al tempo stesso falso che esse siano le uniche alternative tra cui siamo destinati a scegliere. Il «comunitarismo illiberale» è un modello di conformità verticalmente amministrata, mentre il «liberalismo atomista» cancella completamente le dimensioni e rende insensata la distinzione tra verticalità e orizzontalità. Ma c’è un’altra possibilità: quella di uno stare insieme legato dal tessuto di responsabilità mutue, «laterali», fondate e manifestate nel continuo dialogo (assente o ridondante nel «liberalismo» atomista), e non in un consenso oppressivo e vincolante (il veleno del «comunitarismo illiberale») – un dialogo che non punti all’unanimità, ma alla comprensione e accettazione reciproca, non alla tolleranza, ma alla solidarietà, non all’identità, ma ai reciproci benefici della differenza. Solo in questa modalità di vita insieme gli individui liberi possono trovare sicurezza senza sacrificare la loro libertà.
Una visione utopica? Può essere, ma la vita senza utopia è come una nave senza bussola. Le due alternative che lei ha nominato sono le Scilla e Cariddi del nostri moderni tempi «liquidi» tra i quali ci tocca navigare nel nostro viaggio di scoperta, attenti a non scontrarci nelle due rocce e navigare con attenzione tra i due, opposti, pericoli.

 

 

 

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