Impossibile star dietro alle sue
continue e incalzanti pubblicazioni: Zygmunt Bauman,
sociologo di fama mondiale, continua a denunciare
con passione tutte le storture delle società
contemporanee e dei processi di globalizzazione senza
regole (Dentro la globalizzazione. Le conseguenze
sulle persone; La società sotto assedio;
Vite di scarto). Le sue riflessioni etiche
sulla fragilità dei legami affettivi, sulle
conseguenze drammatiche dei processi di cambiamento
innescati dalla modernità (Modernità
liquida), sulle contraddizioni in cui si dibatte
l’identità postmoderna, liquida e volubile,
incapace di assumere su di sé responsabilità
e impegni duraturi (Voglia di comunità;
Amore liquido; Intervista sull’identità),
ne fanno uno dei pensatori in grado di fornire una
chiave di lettura originale e acuta di ciò
che avviene sulla scena mondiale.
Prof. Bauman, lei crede che con il loro ingresso
in Europa, i paesi dell’Europa dell’est
abbiano finalmente cessato le loro lunghe sofferenze
e possano sperare in un futuro migliore?
Qualche mese fa, ho pubblicato un libricino dal titolo
Europe – an Unfinished adventure; questo
si apre con il richiamo a diversi miti che spiegano
le origini dell’Europa e altri racconti che
hanno accompagnato la sua storia e si conclude con
la seguente riflessione: «C’è un
filo rosso comune che attraversa tutte le storie:
l’Europa è qualcosa che si scopre; l’Europa
è una missione – qualcosa che va fatto,
creato, costruito. E ci vuole molta inventiva, senso
dello scopo e duro lavoro per compiere questa missione.
Forse si tratta di un lavoro che non finisce mai,
una prospettiva sempre sospesa, irrisolta.
I racconti differiscono tra loro, ma in tutti l’Europa
era un luogo di avventura. Di avventura, come di interminabili
viaggi, intrapresi per scoprirla, inventarla o evocarla;
viaggi come quelli che riempono la vita di Odisseo
(Ulisse), riluttante al rientro nella grigia sicurezza
della sua nativa Itaca, allettato, trascinato da rischi
sconosciuti più che dai confort della routine
familiare e acclamato, forse per questo, come il precursore,
il padre, il prototipo, dell’europeo. Gli europei
erano gli avventurieri tra gli amanti di pace e quiete,
i girovaghi infaticabili tra i timidi e i sedentari,
i vagabondi tra coloro che preferivano piuttosto vivere
la loro vita in un mondo che terminava al recinto
del proprio villaggio».
Immagino che la risposta alla mia domanda sia contenuta
in questa citazione. I paesi dell’est europeo
(i paesi al margine del nucleo «duro»
dell’Europa) non sono «entrati»
in Europa; dopo il loro ingresso l’Europa è
diversa da quella che precedeva il loro arrivo. Una
nuova avventura è cominciata, per la vecchia
Europa, per i nuovi venuti, per tutti e due insieme.
Ogni futuro sviluppo dipenderà dal contributo
e dalla saggezza di tutti gli europei.
Oltre a quello dell’integrazione, l’Europa
deve fronteggiare un altro dilemma. La crescita è
ferma, i costi del welfare aumentano. Nei
suoi scritti lei ha spesso riflettuto sulle conseguenze
tragiche dell’esasperazione della flessibilità
e precarietà nelle società contemporanee.
Sembra che l’individualismo sia causato più
dall’erosione dello stato sociale che da cambiamenti
ideologici. Come rispettare la dignità umana
senza produrre stagnazione?
Mi trovo d’accordo con la sua diagnosi, con
il suo senso di allarme e con il fatto che il dilemma
che ne risulta non è facile da risolvere. Certamente,
una soluzione è del tutto inconcepibile finché
continuiamo a confinare il nostro pensiero nell’opposizione
tra la promozione della dignità individuale
e un’economia vigorosa. L’incertezza può
risultare in qualche modo meno sconcertante e terrificante
se ci chiediamo cosa ha fatto sì che i due
valori si trovassero in opposizione. Dopo tutto, ci
sono stati lunghi periodi nella storia recente in
cui entrambi erano prosperosi, e in cui c’era
un consenso quasi completo (da destra a sinistra)
sul fatto che il loro progresso congiunto non fosse
accidentale, che l’economia potesse essere florida
solo se integrata e salvaguardata da uno stato
sociale (che è una sorta di politica assicurativa
sottoscritta collettivamente contro la cattiva sorte
individuale); che l’economia capitalista poteva
andare avanti con vigore solo se il capitale poteva
permettersi di acquistare lavoro e il lavoro era nello
stato giusto (in salute, nutrito, forte, istruito)
per attrarre i compratori. Fornire ai poveri e ai
disoccupati elementi per una vita degna era dunque
visto non solo come una richiesta etica, ma anche
come un investimento razionale e sicuro.
Questo modo di pensare era possibile solo quando
tutti i fili erano uniti insieme all’interno
del territorio dello stato-nazione, e quando lo stato
costituiva il luogo precipuo del matrimonio tra il
potere (la capacità di fare cose) e politica
(l’abilità nel dirigerle). Lo stato
sociale era sempre uno stato, appunto.
Ora invece tutti i fili si intrecciano ben oltre il
raggio d’azione delle politiche nazionali, e
l’erosione crescente affigge gran parte della
sovranità statale. Come risultato di una globalizzazione
meramente negativa (la globalizzazione dei flussi
di capitale e delle merci, della criminalità
e del terrorismo, ma non della politica o del sistema
giudiziario che potrebbe controllare, correggere,
se necessario sopprimere i primi), viviamo attualmente
in un divorzio tra potere e politica.
Può spiegarci meglio questo concetto?
Da un lato, abbiamo una politica senza potere, e
dall’altra un potere emancipato dal controllo
politico. Il potere fluttua nello spazio globale,
mentre la politica rimane locale come prima. È
in questo iato tra poteri globali e politica locale
che si annida e prospera l’antagonismo tra vita
degna e crescita economica. Libero di muoversi, il
capitale non ha bisogno di investire nel lavoro locale
– può comprarlo in paesi lontani dove
è molto più economico dal momento che
non c’è bisogno di fare alcun investimento
sulla dignità della vita. La sopravvivenza
e la salute dei lavoratori sono visti come problemi
di altri – e se la salute è povera, le
misure sanitarie e l’igiene terrificanti, la
formazione inadeguata, peggio per loro – ma
non dei potenziali datori di lavoro, che si spostano
semplicemente dove i frutti sono freschi e maturi
per essere consumati.
In poche parole: lo stato sociale non può
essere più sicuro nel contesto di uno stato
o anche di un gruppo di stati. Può essere solo
ripristinato, reintegrato nel contesto di un globalizzazione
positiva, che raggiunge e integra quella negativa.
Non ci sarebbe mai stato welfare senza leggi statali
vincolanti, senza un ordinamento giudiziario universale
per tutti i cittadini, senza la subordinazione di
tutti gli aspetti della vita condivisa al monitoraggio
democratico, al controllo e alla regolamentazione.
E non ci sarà un equivalente dello stato sociale
senza leggi e regole vincolanti a livello globale,
senza tribunali globali e istituzioni democratiche
globali (anche se in una forma diversa da quella parlamentare/rappresentativa
della democrazia fatta a misura di uno stato nazione,
proprio come diversa è la nostra democrazia
da quella diretta fatta a misura dell’antica
polis o di una piccola comunità).
Lei ha parlato a lungo della doppia faccia
della globalizzazione, che comporta possibilità
di movimento per i ricchi e migrazioni forzate per
i poveri. Crede che la povertà alla fine arriverà
al centro dell’agenda politica?
Nel suo studio più ampio sull’attuale
livello del processo di globalizzazione e sulle sue
prospettive, David Held sostiene che la sicurezza
oggi è sempre più un affare collettivo
o multilaterale, e spiega come gli stati non hanno
più il monopolio della forza, che invece, com’è
noto, veniva loro attribuito un secolo fa da Weber.
Oltre agli eserciti regolari degli stati nazionali,
professionali o di leva, il mondo è pieno di
eserciti privati, e compagnie di sicurezza private,
alle quali sempre viene assegnata una funzione di
sicurezza – un tempo considerata diritto e dovere
inalienabile degli organi dello stato. Come risultato,
la sicurezza nazionale «può attualmente
essere realizzata efficacemente solo se gli stati
nazione si mettono insieme e mettono in comune risorse,
tecnologie, intelligence, potere e autorità».
E voglio aggiungere a queste parole di Held che resta
comunque da vedere se la protezione della sicurezza
sarà garantita effettivamente.
Quanto detto finora si focalizza apparentemente sulla
sicurezza nella sua accezione fisica, corporea (meglio
espresso dal concetto di salvaguardia) nel quale quel
termine è stato recentemente usato soprattutto
nei dibattiti pubblici sulla «guerra al terrorismo».
Ma ciò che Held dice della sicurezza fisica
si applica all’intero fenomeno della sicurezza
in tutti i suoi aspetti, tradotto nel termine tedesco
di Sicherheit che, oltre alla sicurezza, abbraccia
anche la certezza (o fiducia in sé) e la sicurezza
sociale ed esistenziale.
Si può dedurre che molto dell’analisi
di Held si applica alla capacità dei governi
statali di agire effettivamente in ogni campo.
Ciò che egli nota è che «anche
quando la sovranità appare ancora intatta,
gli stati non conservano il comando esclusivo di ciò
che si manifesta all’interno dei confini territoriali.
Il luogo del potere politico reale non è più
semplicemente quello dei governi nazionali; il potere
è condiviso, scambiato, contestato da diverse
forze e centri di potere diversi, pubblici e privati,
che attraversano i domini nazionali, regionali e nazionali».
E conclude: «Le comunità politiche non
possono essere considerate (se vogliono avere qualche
validità) come semplici mondi riservati: sono
invece irretititi in strutture complesse di forze
sovrapposte, di relazioni e reti. Persino il più
potente tra di loro – inclusi gli stati più
potenti– sono influenzati e modificati dalle
condizioni mutevoli e dai processi di trinceramento
globale e regionale.
Quali sono le cause di questi processi e
in che modo possono essere arginati?
Proseguo seguendo Held. Nel lungo inventario di fattori
che erodono la sovranità, una volta completa,
inalienabile e indivisbile dello stato nazione, Held
(seguendo lo studio del 1999 di Kaul, Grunberg e Stern
sullo stato attuale della cooperazione internazionale)
individua in due divari i principali responsabili
dell’endemica e apparentemente incurabile incertezza
che regna nella scena globale, incertezza generata
dal terreno vacillante sul quale i governi attuali
devono muoversi e dalla nebulosità delle prospettive
in cui devono inserire i loro progetti. Il primo è
un «divario giurisdizionale» (tra il raggio
d’azione locale delle leggi statali
e della politica confinata allo stato e la portata
globale delle conseguenze e delle ripercussioni dell’intraprendenza
economica) che rende la responsabilità fluttuante
e fa sì che i responsabili di misfatti siano
difficilmente localizzabili e ancor più difficilmente
perseguibili.
Il secondo è un divario «produttivo»,
impensabile senza il primo: in un ambiente caotico
e per molti versi senza legge, simile al «Selvaggio
West» dipinto nei film hollywoodiani, «molto
attori, statali e non, cercheranno di agire liberamente,
privi di una motivazione sufficiente a trovare soluzioni
durevoli ai pressanti problemi internazionali».
E tornando allo stato sociale?
Ebbene, il sistema politico democratico moderno è
nato e cresciuto gradualmente, attraverso svolte e
cambiamenti, dal desiderio di sicurezza, combinando
insieme la salvezza personale con la fiducia nel futuro.
La libertà dai capricci del caso, causati da
forze erratiche e senza briglia, ha costituito il
motivo originario che ha messo gli uomini moderni
sulla lunga strada verso democrazia piena, strada
coronata con l’insediamento dello stato sociale.
Il tipo di sicurezza che essi cercavano significava,
in primo luogo, la regolamentazione normativa derivata
dall’eliminazione o dal mitigamento dell’incertezza.
Lo stato nazione, una delle invenzioni più
feconde dell’età moderna, era prima di
tutto un contratto che permetteva di raggiungere quello
scopo attraverso la sovranità circoscritta
al territorio (il diritto di far leggi e definire
i loro limiti): nessun territorio senza un insieme
di norme vincolanti, e un unico insieme di norme per
ciascun territorio.
Lord Beveridge, l’autore del progetto del
welfare state britannico, credeva che la sua
visione di una assicurazione stipulata collettivamente
da ciascuno fosse l’inevitabile conseguenza
dell’idea liberale, così come la condizione
indispensabile della democrazia liberale. La dichiarazione
di guerra alla paura di Franklin Delano Roosvelt era
basata sul medesimo assunto. La libertà di
scelta è inscindibile di fallimento, più
o meno prevedibile. Per questo, alcuni troveranno
questi rischi insopportabili, scoprendo o sospettando
che esso di fatto eccede la loro personale abilità
nel fronteggiarlo. Per la maggioranza delle persone,
la libertà di scelta rimarrà un fantasma
sfuggente e un sogno ozioso, a meno che la paura della
sconfitta non sia mitigata da un politica assicurativa
intrapresa nel nome della comunità, una politica
di cui possono aver fiducia e su cui possono fare
affidamento in caso di sfortuna. Al dolore della mancanza
di speranza si aggiunge infatti l’umiliazione
della mancanza di fortuna; l’abilità,
messa alla prova quotidianamente nel fronteggiare
le sfide della vita, è dopo tutto quello stesso
lavoro nel quale la fiducia di sé viene forgiata.
Senza un’assicurazione collettiva, non c’è
nessuno stimolo all’impegno politico –
né alla partecipazione al gioco democratico
delle elezioni. Nessuna salvezza può arrivare
da uno stato che non è, o rifiuta di essere,
uno stato sociale. Senza diritti sociali per tutti,
un largo e probabilmente crescente numero di persone
riterranno i loro diritti politici inutile e non degni
di alcuna attenzione. Infatti, se i diritti politici
sono necessari perché i diritti sociali abbiano
luogo, i diritti sociali sono indispensabili per mantenere
i diritti politici attivi. I due diritti hanno bisogno
l’uno dell’altro per sopravvivere. La
loro sopravvivenza sta nel loro compimento comune.
Sono dolorosamente consapevole che lo scenario che
ho disegnato dice poco circa la forma che alla fine
prenderà la nostra vita condivisa sul nostro
pianeta condiviso. Ma credo anche che qualsiasi realtà
prendiamo in considerazione o per cui decidiamo di
lottare dovrà necessariamente essere iscritta
in questo scenario. Un compito scoraggiante: questo
sarà un secolo tumultuoso e frenetico…
Nel suo Voglia di comunità,
lei ha scritto che gli uomini e le donne dei nostri
giorni sono in cerca di una più forte forma
di unione, e al tempo stesso, sentono questa unione,
l’idea di stare insieme in comunità,
come una sorta di legame soffocante. Insomma, dobbiamo
per forza scegliere tra un «liberalimo atomista»
e un «comunitarismo illiberale»?
Il nostro mondo, e la nostra vita in esso, è
attraversato da ambiguità che non possono che
generare ambivalenza. Libertà e sicurezza rappresentano
forse la contraddizione principale – abbiamo
bisogno entrambe, ma al tempo stesso stentiamo a riconciliarle
pur usufruendo di entrambe. Nessun composto perfetto,
nessuna giusta proporzione tra le due è stata
ancora trovata e sembra che siamo condannati a spostarci
da un’estremità all’altra.
In ogni caso: no, quella tra «liberalismo atomistico»
e «il liberalismo comunitarista» non
è una scelta. Equivarrebbe a scegliere tra
il diavolo e il mare profondo, o, piuttosto, tra l’inferno
e gli inferi. È altamente inverosimile che
possiamo trovare la felicità in uno dei due.
Ma è al tempo stesso falso che esse siano le
uniche alternative tra cui siamo destinati a scegliere.
Il «comunitarismo illiberale» è
un modello di conformità verticalmente amministrata,
mentre il «liberalismo atomista» cancella
completamente le dimensioni e rende insensata la distinzione
tra verticalità e orizzontalità. Ma
c’è un’altra possibilità:
quella di uno stare insieme legato dal tessuto di
responsabilità mutue, «laterali»,
fondate e manifestate nel continuo dialogo (assente
o ridondante nel «liberalismo» atomista),
e non in un consenso oppressivo e vincolante (il veleno
del «comunitarismo illiberale») –
un dialogo che non punti all’unanimità,
ma alla comprensione e accettazione reciproca, non
alla tolleranza, ma alla solidarietà, non all’identità,
ma ai reciproci benefici della differenza. Solo in
questa modalità di vita insieme gli individui
liberi possono trovare sicurezza senza sacrificare
la loro libertà.
Una visione utopica? Può essere, ma la vita
senza utopia è come una nave senza bussola.
Le due alternative che lei ha nominato sono le Scilla
e Cariddi del nostri moderni tempi «liquidi»
tra i quali ci tocca navigare nel nostro viaggio di
scoperta, attenti a non scontrarci nelle due rocce
e navigare con attenzione tra i due, opposti, pericoli.
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