Abdolkarim Soroush è tra le più
eminenti voci dell’Islam riformista, tanto che
il settimanale americano Time lo ha inserito nella
lista annuale dei cento personaggi più influenti
del mondo.
L’intervista che segue è tratta dal numero
88 di Reset, in edicola e in libreria.
Nel dibattito iraniano sul rinnovamento della
cultura politica dei paesi musulmani è possibile
individuare due posizioni. Molti ritengono che il
cambiamento sia legato ad un rinnovamento del pensiero
religioso, dell’interpretazione religiosa del
Corano e della tradizione; altri invece sono dell’idea
che all’origine di questo rinnovamento non ci
sia tanto la riforma del pensiero religioso, quanto
un allontanamento della religione dalla politica.
Qual è la sua opinione?
Bisogna distinguere tra due differenti ordini di pensiero.
Da un lato, la tesi circa la separazione fra religione
e politica; dall’altro, quella della separazione
tra religione e pratica di governo. Ritengo infatti
che si tratti di cose diverse, che non andrebbero
confuse. Religione e politica non possono essere separate,
dal momento che la religione contiene delle idee politiche
e la politica è legata a dimensioni religiose.
Questo non è vero solo per le società
e i paesi islamici, ma è vero anche in America,
in Francia, in Italia e ovunque: ovunque i politici
prendono idee dalla religione e a volte la religione
si intreccia alla politica. Pertanto, la politica
è qualcosa che non può prescindere dalla
religione come dovere e come pratica. C’è
poi la separazione tra governo e religione, che è
il punto in discussione. La mia risposta alla sua
domanda è allora che sì, governo e religione
dovrebbero essere mantenuti separati. Naturalmente,
nella pratica, al potere va di fatto chi appartiene
alla maggioranza, ma nella costituzione deve essere
specificato e sottolineato che il governo è
assolutamente imparziale e considera tutti i cittadini
allo stesso modo, senza operare distinzioni in base
alla loro ideologia o religione; e che la legge deve
tutelare tutti allo stesso modo, senza discriminazioni.
Il rinnovamento religioso che si sta verificando in
tutto il paese sta andando in questa direzione: sono
sempre di più le riforme religiose che si stanno
orientando verso una separazione fra religione e governo,
verso l’imparzialità del governo e in
direzione di un ordinamento democratico in cui ciascuno
è uguale agli altri, e in cui i cittadini non
vengono considerati in base alla loro appartenenza
ad uno specifico gruppo, ma come cittadini iraniani,
e quindi tutti con uguali diritti. Si tratta di una
nuova interpretazione della religione che è
abbastanza compatibile con gli insegnamenti islamici,
per cui di fatto non c’è un allontanamento
della corrente principale.
Il punto, dunque, è separare la religione
non dalla politica ma dal governo. Ma è davvero
possibile operare questa distinzione? La politica
in fondo è proprio la competizione di gruppi
diversi per ottenere il governo.
Per «politica» mi riferisco qui alle idee
politiche e non alla competizione o alla lotta politica.
E le idee non possono essere separate dalla religione.
Consideriamo, per esempio, i grandi filosofi politici
occidentali come Machiavelli, Rousseau, Locke, Hobbes
e tanti altri: se si analizzano a fondo le loro idee,
si vede che in un modo o nell’altro esse non
possono essere separate dalle loro rispettive religioni,
che ne hanno inconsciamente influenzato il pensiero
politico. Ci sono ad esempio i cristiani che sostengono
che l’idea dei diritti umani e dell’uguaglianza
è derivata dal cristianesimo; ora, al di là
del fatto che questo sia vero o meno, ciò dimostra
che la religione ha avuto un’influenza sul modo
di pensare politico. In Iran, e in tutti i paesi religiosi
– visto che dopo tutto Muhammad, oltre che un
profeta, un messaggero e un predicatore era anche
un politico, aveva delle idee politiche e queste sue
idee politiche si riflettono nei suoi insegnamenti,
nelle sue leggi – se qualcuno è musulmano
le sue idee religiose emergeranno nelle sue idee politiche.
La politica dunque, in quanto insieme di idee, è
un complesso di teorie in costante scambio con le
idee religiose, ma in pratica, come dicevo, quando
si crea un governo, davanti a una costituzione e alle
leggi, tutti i cittadini devono essere considerati
uguali.
Lei si riferisce spesso ad autori come Locke,
uno dei fondatori del pensiero politico liberale,
o anche Popper. Ora, uno dei tratti principali del
liberalismo è l’individuo libero come
unità fondamentale della società. Si
può chiamare questa idea «individualismo
metodologico», o in altri modi, ma certamente
esso rimane qualcosa di difficilmente assimilabile
nella cultura islamica, dove la comunità ha
un peso maggiore dell’individuo.
Ritengo che l’individualismo sia una delle principali
componenti del diritto della persona, diritto che
ha un precedente nel pensiero islamico. Consideriamo
la giustizia per esempio. In questo caso, l’individualismo
è essenziale, perché quando una persona
va davanti a un giudice che emette una sentenza che
la riguarda, essa non è giudicata come membro
di un gruppo tribale o della comunità musulmana,
ma come individuo che viene accusato, punito o assolto
per quello che ha fatto o meno. Questa è una
forma di individualismo molto radicata in noi, ed
è molto importante. Ancora: quando nel Corano
si parla della resurrezione, i morti risorgono e rinascono
come individui. Come si può ben vedere, dunque,
l’idea è già presente; naturalmente,
va ampliata, interpretata, rafforzata, applicata ed
è quello che si sta facendo. Ma in questo caso
non si sta andando contro il Corano o gli insegnamenti
dell’islam, perché l’individualismo
inteso come diritto individuale e come responsabilità
dell’individuo per quello che fa o che vuole,
è già presente. Non a caso Muhammad
era un profeta, scelto da Dio, in Arabia, dove il
tribalismo era prevalente e molto forte, mentre l’individualismo
era praticamente inesistente. Ciascuno esisteva come
membro della propria tribù, non come individuo
ma collettivamente: su questo substrato si sono innestati
i concetti di giudizio individuale e di resurrezione
individuale contenuti nell’insegnamento dell’islam.
Quando lei cita Locke, viene subito in mente
l’idea della limitazione del potere dello Stato
in difesa della libertà individuale. In un’ottica
religiosa, invece, non solo islamica ma anche, in
epoche precedenti, cristiana, il potere rappresenta
un ordine voluto da Dio, da Allah. L’idea della
«libertà da», libertà dal
potere politico, è piuttosto anomala per la
tradizione musulmana. Una citazione di Locke non è
sospetta perché di importazione occidentale?
Se lei ha in mente l’attuale situazione istituzionale
in Iran, dove le autorità governative hanno
dichiarato che la loro posizione è in qualche
modo di origine divina, che sono state direttamente
o indirettamente designate da Dio, allora la risposta
alla sua domanda è sì. Ma io ribadisco
che l’islam è una religione molto laica,
contrariamente a quello che normalmente la gente è
solita ritenere, più laica del cristianesimo.
Le faccio un esempio. Se un cristiano vuole sposare
una donna, la presenza della Chiesa è obbligatoria,
ci deve essere un prete, un pastore o chiunque sia,
che pronuncia la formula: «Vi dichiaro marito
e moglie». Senza tutto questo, il matrimonio
non sarà valido dal punto di vista religioso.
Nell’islam invece è diverso, la presenza
di un esponente del clero non è necessaria
né tanto meno obbligatoria, il matrimonio o
il divorzio sono validi da un punto di vista religioso
anche senza la presenza di un rappresentante religioso.
Lo stesso vale per il discorso del potere. Quello
che accade in Iran, è qualcosa di realmente
eccezionale. Ogni governo conosce tre fasi: la nomina,
la critica e la deposizione dei suoi membri: nessuna
di queste tre fasi ha a che vedere con la religione,
nel senso che nessuna di esse richiede un intervento
della religione. Le persone possono nominare i loro
governanti e possono criticarli, anzi, si tratta per
loro di un dovere religioso: tutti devono agire per
fare il bene e impedire il male, il che vuole dire
anche criticare ed eventualmente deporre un governante
che non persegue il bene. Come persona religiosa,
ho il dovere di criticare chi governa qualora non
stia andando nella giusta direzione, e il dovere di
deporlo quando si ritenga che sia incorreggibile.
Tutto questo è assolutamente compatibile con
la religione islamica. Non si deve guardare a quello
che sta accadendo in Iran, dove, sebbene in teoria
la costituzione preveda questi strumenti, in pratica
essi non sono attuati.
Secondo lei, il punto d’arrivo del
rinnovamento democratico della cultura e della politica
islamica – non penso solo all’Iran ma
anche a tutti gli altri paesi – potrebbe essere
sintetizzato nella formula di Cavour «libera
Chiesa in un libero Stato»?
Penso di sì, è una formula che mi piace
e che credo piacerebbe anche al clero musulmano in
Iran, anche a causa del fatto che il coinvolgimento
del clero iraniano nella vita politica e nel governo
ne ha diminuito il prestigio fra la gente comune:
ma anche in passato, quando il clero era molto potente,
anche politicamente, ha sempre mantenuto le distanze
dal governo; i religiosi erano molto influenti e c’era
un costante rapporto di scambio fra monarchia e clero,
eppure sia l’una che l’altro avevano un
proprio limite che non oltrepassavano mai. È
stato dopo la rivoluzione islamica che questo limite
è venuto a mancare. Penso quindi che sia meglio
tornare indietro, al punto in cui eravamo in passato:
il governo dev’essere il governo e il clero
deve essere il clero, ci deve essere una squadra democratica
che risponda delle proprie azioni e rispetti in egual
misura da un lato la cittadinanza e la libertà
delle persone, dall’altro i valori religiosi:
in una società religiosa non si può
avere successo politicamente senza rispettare i valori
religiosi delle persone.
Si potrebbe quindi affermare che il risultato
della repubblica islamica, ovvero l’estrema
islamizzazione della politica, abbia spinto la gente
a voltare le spalle alla religione?
No, non direi questo. Forse si potrebbe dire che la
gente ha voltato le spalle all’islam politicizzato,
a una religione che si confonde con la politica, che
si fa strumentalizzare dalla politica. Alla gente
questo non piace: vorrebbe avere una spiritualità
pura, una religiosità pura. La maggior parte
della popolazione, in Iran, ha problemi di ordine
economico e non teorico.
È d’accordo con l’idea
che il fondamentalismo sia qualcosa da combattere?
Una battaglia contro il fondamentalismo, anche da
parte della cultura islamica, potrebbe contribuire
a incrementare la pace e ridurre il rischio di episodi
di guerra e violenza?
Devo confessare che in realtà non comprendo
che cosa significhi il termine «fondamentalismo»,
perché il fondamentalismo si manifesta in tanti
modi e ha tanti significati diversi, quindi in genere
preferisco non usarlo. Tuttavia comprendo bene il
senso della domanda. Voglio ricordare però
che, accanto a un fondamentalismo religioso, esiste
anche un fondamentalismo non religioso. Esistono persone
che non sono religiose eppure si dimostrano fondamentaliste
nel criticare le persone religiose, come è
successo in Francia, per esempio.
Un «fondamentalismo repubblicano»?
Un fondamentalismo laico, o repubblicano, come lo
chiama lei. Perché il fondamentalismo non è
confinato alla religione, lo si trova ovunque. Quando
un governo ritiene che la propria idea di governo
sia la migliore per il bene della popolazione, e allora
la impone al popolo, o ritiene che il mezzo che porta
alla prosperità e alla felicità del
popolo sia meglio del popolo stesso, questo è
fondamentalismo. Non importa se si tratta di un’idea
personale, laica o religiosa. Questo fondamentalismo
naturalmente non può essere condiviso o accettato.
Se la maggioranza della gente vuole vivere in un certo
modo, la si deve più o meno assecondare, a
meno di convincerla dell’inopportunità
del suo modo di vivere. Il governo, i filosofi politici,
gli intellettuali possono tentare di far capire alle
persone che i loro valori possono cambiare. Il fondamentalismo
significa forza, e chi usa la forza per far rispettare
i propri valori o le proprie idee è un fondamentalista,
che sia un religioso o un laico.
Quale contributo, a suo parere, può
venire dalla cultura islamica per combattere e isolare
il terrorismo?
Come dicevo, noi intellettuali dovremmo invitare il
governo e i diversi gruppi a smettere di usare la
forza per mettere in pratica dei valori. È
questo il messaggio che chiunque, gli intellettuali,
i religiosi dovrebbero predicare, diffondere fra la
gente; rendere familiare questa idea contribuirebbe
ad isolare il fondamentalismo. Certamente non si può,
a mio avviso, isolare un fondamentalismo con un altro
fondamentalismo.
È possibile utilizzare il concetto
di «modernizzazione» per descrivere il
processo che dev’essere caldeggiato nei paesi
islamici?
Questo è stato fatto ed è quello che
sta accadendo da oltre un secolo: la modernizzazione
è già in corso da molto tempo. Di fatto,
quasi tutti i paesi del Terzo Mondo stanno importando
apparecchiature, tecnologia, scienza, istituzioni
e strumenti moderni. Ma la modernità è
tutt’altra cosa. La modernità è
nella mente, la modernizzazione è nella pratica:
in tutto il mondo tutti sanno usare il computer o
il telefono, quasi in ogni paese, anche quelli non
democratici. Credo che la posizione migliore nei confronti
della modernità sia una posizione critica:
non si può rinunciare alla propria tradizione
e ai propri valori né si può rimanere
passivi davanti, perché non se ne possono accettare
tutti i valori. La modernità ha i suoi critici
anche all’interno dell’Europa e dell’America;
a mio avviso si deve assumere una posizione critica
e cercare di coglierne i tesori, prima a livello teorico
e poi naturalmente nella pratica. Non si possono importare
valori e strumenti moderni senza elaborarli, senza
confrontarli con i propri valori tradizionali: a volte
le persone sono vittime di questa modernizzazione
che definirei cieca.
Non ritiene che l’Islam si configuri
sempre più spesso come una identità
culturale più che una fede?
L’islam è una fede, ma anche un’identità,
lo è da quattordici secoli. Quando un musulmano
emigra in un paese non islamico, il problema principale
che deve affrontare è come integrarsi nella
società che lo ospita. Deve ad esempio seguire
nuove leggi, cosa che a volte può essere facile.
Ma quando si tratta di questioni importanti –
nell’esercito americano, per esempio, ci sono
musulmani che non se la sentono di andare in Afghanistan
o in altri paesi a combattere contro dei musulmani,
cosa contraria all’islam – l’identità
del paese ospite e l’identità musulmana
entrano in conflitto, e questo conflitto può
creare enormi problemi. Attualmente, in America, alcuni
leader religiosi hanno emesso una fatwa, una sentenza,
con cui hanno dichiarato che i soldati musulmani potevano
andare con le truppe americane a combattere i cosiddetti
nemici, ma non ritengo che sia stata una soluzione
valida: dopo tutto è una cosa che riguarda
gli Stati nazionali. Quando si lascia un paese per
andare in un altro paese, non si è considerati
cittadini, non si hanno alcuni diritti che i cittadini
hanno, non si ha il diritto di votare, non si ha il
diritto di lavorare se non a particolari condizioni.
E proprio per questo la distanza tra una persona e
la società che la ospita rimane sempre, finché
non si è completamente integrati. Questo è
un problema per ogni minoranza, non solo per quella
islamica. Ho alcuni amici, pakistani o urdu, in Inghilterra,
dove sono stato per sei o sette anni, che sono ben
integrati nella società britannica anche se
sono musulmani e mantengono la loro identità
musulmana, che non è causa di conflitto di
identità con la loro condizione di cittadini
britannici. Dipende dalla politica del governo: in
Francia non è come in Inghilterra, penso che
ci sia ancora della strada da fare. Si tratta di una
cosa bilaterale: l’integrazione, l’accettazione
e il rispetto della reciproca identità sono
fondamentali.
Veniamo alle specifiche vicende politiche
iraniane. Inizialmente, Khatami è stato percepito
come un interprete della modernizzazione dell’Iran
sostenuta da tanta gente, e dai giovani. Ora, gran
parte delle persone sono deluse da Khatami. Esiste,
a suo parere, qualcuno sulla scena politica che alle
prossime elezioni possa rappresentare l’idea
di modernizzazione dopo la disillusione di Khatami?
Da dove può arrivare la rinascita della speranza
di modernizzazione in Iran?
Dal punto di vista della modernizzazione politica,
lei ha ragione: la gran parte della gente è
rimasta delusa da Khatami, e questo perché
Khatami non ha mantenuto le promesse che aveva fatto
e ha perso la sua popolarità perfino tra i
suoi sostenitori, che da lui si aspettavano un grandissimo
cambiamento. Inizialmente, aveva fatto grandi promesse,
eravamo tutti molto contenti che fosse salito al potere
e in fin dei conti anche lui voleva portare qualcosa
di nuovo. Purtroppo, è stato talmente assorbito
dalle istituzioni, e ha avuto tali difficoltà
da non riuscire a portare avanti il suo piano, che
forse non aveva ben chiaro in mente. Nondimeno, soprattutto
nel secondo turno, ha seguito il sentiero dei conservatori.
Ora, naturalmente sono tutti delusi, ma c’è
un forte dibattito in Iran, specialmente tra gli intellettuali,
su chi votare. Alcuni pensano che il movimento di
riforma sia arrivato a un punto morto e che non ci
siano speranze di portarlo ancora avanti, ma altri
non sono d’accordo e affermano che Khatami non
rappresentava la riforma, era semplicemente il candidato
eletto dai sostenitori della riforma, e forse si può
trovare qualcun altro da votare in grado di fare meglio
di Khatami. Così, ci sono due diversi schieramenti
in Iran tra i giovani, gli studenti e i sostenitori
della riforma. Anche se non sono certo in grado di
predire il futuro, quello che posso dire ora è
che l’aspirazione alla riforma e la speranza
in un cambiamento politico non sono affatto morte
in Iran. Molte persone stanno lavorando per tentare
di trovare qualcuno che possa rappresentarla. Un’altra
cosa che posso dire è che, fra i candidati
alla presidenza, non ce n’è uno che possa
ottenere un consenso, sono più o meno tutti
uguali, molto diversi da Khatami. Anche Khatami in
teoria era una buona scelta, ma in pratica non lo
è stato. Gli attuali candidati non lo sono,
né in teoria né in pratica, così
in un certo senso c’è un ritorno indietro.
Nel complesso non sono emersi politici migliori rispetto
a otto anni fa, quando Khatami è stato eletto:
era tutto molto diverso, tutti gioivano. Ricordo l’impegno
di mio figlio, allora sedicenne, per l’elezione
di Khatami, si dava da fare, andava per strada ad
attaccare manifesti. Tutti stavano facendo una piccola
rivoluzione in Iran. Sono rientrato in Iran poco prima
dell’elezione di Khatami, dopo un anno passato
all’estero, e ho ritrovato il paese e la società
praticamente irriconoscibili, si poteva percepire
ovunque il profumo di rivoluzione; ora lo spirito
e l’umore sono molto diversi. È stata
un’esperienza molto amara, ma esistono fra i
riformisti persone che non hanno perso la speranza
e si stanno preparando per una nuova battaglia.
(traduzione di Dora Bertucci)
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