275/speciale - 15.04.05


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Elogio della vita eterna
Elisabetta Ambrosi

Perché una folla immensa ha cercato disperatamente di salutare Karol Woiytla, mentre le chiese sembrano svuotarsi di credenti e praticanti? A questa domanda in tanti hanno cercato di rispondere in questi giorni. La mia risposta suona così: Giovanni Paolo II ha saputo trovare una via d’uscita a due potenti contraddizioni che lacerano il mondo cattolico. E lo ha fatto perché egli, a differenza dei tanti rappresentanti di un cattolicesimo borghese e irriconoscibile, tra cui tanti uomini di Chiesa, credeva realmente in Dio e in Cristo suo figlio, e quella credenza spazzava via quel sentore di morte, umidità e disperazione con cui chi non crede deve, volente o nolente, fare i conti. Se davvero i cattolici credessero in Cristo risorto, figlio di Dio e in grado di risuscitare i morti dai loro sepolcri, se davvero assumessero queste affermazioni come vere, la loro esistenza subirebbe una rivoluzione radicale, stravolta dall’irruzione di assoluto nella vita di tutti i giorni: quest’ultima apparirebbe loro come qualcosa di insignificante di fronte alla grandiosa visione metafisica dell’uomo e della storia che il cattolicesimo prospetta, di fronte alla possibilità una vita che non finisce.

Ricordo a questo proposito, con fastidio, una puntata di Porta a Porta andata in onda qualche tempo fa in cui si parlava della famosa setta dei raeliani, coloro che sperano di poter utilizzare la clonazione per garantire l’immortalità. Ricordo che Vespa ironizzava sul loro credo, presentando al contempo il cattolicesimo come baluardo della ragionevolezza: senza accorgersi – e come avrebbe potuto? – che la credenza nella clonazione come possibilità di sfuggire alla morte non è meno ragionevole della speranza cristiana di una resurrezione della carne. Entrambe condividono lo stesso punto di partenza: l’impossibilità umana di accettare la morte come evento naturale, e il tentativo, disperato e totale, di trovare un’escatologia, una via d’uscita all’orrendo varco.

La piazza è dunque piena, e piena anche di non credenti, perché Wojtyla ha saputo restituire loro non tanto la speranza, ma la semplice ipotesi di una vita dopo la morte, che ormai oggi sono in pochi a rivendicare. Se nessuno crede più in essa, questa opzione infatti improvvisamente scompare e con la morte del papa si spegne anche, potremmo dire con un’immagine, il più potente riflettore di vita eterna sulla terra.
Ma Wojtyla non ha solo rimesso sul tavolo la resurrezione. Di più, egli è riuscito ad evitare che una fede militante in Cristo degenerasse in violenza. Il lento e sofferto lavoro della cultura sulla religione ha portato infatti a ridurre il contenuto violento che ogni irruzione dell’assoluto nel relativo comporta, ma al tempo stesso ha indebolito i contenuti della fede stessa. Wojtyla ha lanciato una sfida al pensiero debole, proprio nella misura in cui ha mostrato che è possibile pensare l’assoluto senza che da ciò scaturisca anche violenza. Come debolista convinta, ne prendo atto.

C’è tuttavia una seconda contraddizione che il papa ha saputo fronteggiare. Infatti, oltre alla scissione tra certezza della resurrezione, con perenni rischi di violenza, e una sbiadita speranza senza anticorpi, c’è un’altra ambivalenza che lacera il cristianesimo, quella tra cattolicesimo e modernità. Wojtyla è riuscito a disinnescare l’alternativa tra una chiesa ortodossa ma ossessionata dai comportamenti leciti da un lato, ed una più tollerante verso la modernità ma in aperta contraddizione con l’intera dottrina cattolica, dall’altro. E ci è riuscito subordinando la morale all’eternità, mostrando cioè che non dai comportamenti bisogna partire, ma da Cristo risorto: in quest’ottica la visione morale non è che un tassello, sebbene indispensabile, di un affresco più ampio e, grazie a quest’ultimo, essa può sperare di non apparire insensata.
Rovesciando una tesi diffusa, vorrei sostenere che non è stata l’ossessione sulla morale a preparare la strada alla scristianizzazione, ma l’abbandono della sua visione escatologica. E perché quest’ultima è stata abbandonata? Ce lo racconta il giovane ricco, che nel noto episodio del Vangelo non ha il coraggio di lasciare i suoi beni, ma anche parenti, amici e con loro la meravigliosa concretezza della vita quotidiana, per seguire Gesù. Come ho detto all’inizio, infatti, la prospettiva eterna richiede l’abbandono della vita terrena, abbandono non solo fisico, ma soprattutto “psichico” nel senso che la prospettiva dell’assoluto la rende talmente relativa da poter essere abbandonata in ogni momento.

E, allora, se gli stessi rappresentanti della chiesa si fossero attaccati a quegli aspetti concreti per sfuggire al peso di quella rivoluzione esistenziale che deriva dall’irruzione dell’assoluto? Naturalmente, non nego certo la sofferenza che l’osservanza di norme morali rigide ha causato. Anzi, continuo a credere, con Hans Küng, unica voce fuori dal coro dei consensi in questi giorni, che la Chiesa farebbe bene a liberarsene: i credenti avrebbero un peso in meno e i non credenti sarebbero costretti ad andare al nocciolo della sfida della (in)finitezza, senza limitarsi a scegliere come più comodo bersaglio l’anacronismo morale della chiesa.

La chiesa si trova di fronte all’impasse: o accetta di scomparire lentamente, o ripropone con forza la sua visione metafisica. Ma per far questo ha bisogno non solo di papi, ma di credenti eccezionali, che siano consapevoli del prezzo amaro da pagare per l’invidiabile prospettiva dell’eternità: la relativizzazione di tutto ciò che ci circonda. Chissà se coloro che hanno affollato le piazze in questi giorni ne sono consapevoli.

 



 



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