Perché una folla immensa ha cercato disperatamente
di salutare Karol Woiytla, mentre le chiese sembrano
svuotarsi di credenti e praticanti? A questa domanda
in tanti hanno cercato di rispondere in questi giorni.
La mia risposta suona così: Giovanni Paolo
II ha saputo trovare una via d’uscita a due
potenti contraddizioni che lacerano il mondo cattolico.
E lo ha fatto perché egli, a differenza dei
tanti rappresentanti di un cattolicesimo borghese
e irriconoscibile, tra cui tanti uomini di Chiesa,
credeva realmente in Dio e in Cristo suo figlio, e
quella credenza spazzava via quel sentore di morte,
umidità e disperazione con cui chi non crede
deve, volente o nolente, fare i conti. Se davvero
i cattolici credessero in Cristo risorto, figlio di
Dio e in grado di risuscitare i morti dai loro sepolcri,
se davvero assumessero queste affermazioni come vere,
la loro esistenza subirebbe una rivoluzione radicale,
stravolta dall’irruzione di assoluto nella vita
di tutti i giorni: quest’ultima apparirebbe
loro come qualcosa di insignificante di fronte alla
grandiosa visione metafisica dell’uomo e della
storia che il cattolicesimo prospetta, di fronte alla
possibilità una vita che non finisce.
Ricordo a questo proposito, con fastidio, una puntata
di Porta a Porta andata in onda qualche tempo
fa in cui si parlava della famosa setta dei raeliani,
coloro che sperano di poter utilizzare la clonazione
per garantire l’immortalità. Ricordo
che Vespa ironizzava sul loro credo, presentando al
contempo il cattolicesimo come baluardo della ragionevolezza:
senza accorgersi – e come avrebbe potuto? –
che la credenza nella clonazione come possibilità
di sfuggire alla morte non è meno ragionevole
della speranza cristiana di una resurrezione della
carne. Entrambe condividono lo stesso punto di partenza:
l’impossibilità umana di accettare la
morte come evento naturale, e il tentativo, disperato
e totale, di trovare un’escatologia, una via
d’uscita all’orrendo varco.
La piazza è dunque piena, e piena anche di
non credenti, perché Wojtyla ha saputo restituire
loro non tanto la speranza, ma la semplice ipotesi
di una vita dopo la morte, che ormai oggi sono in
pochi a rivendicare. Se nessuno crede più in
essa, questa opzione infatti improvvisamente scompare
e con la morte del papa si spegne anche, potremmo
dire con un’immagine, il più potente
riflettore di vita eterna sulla terra.
Ma Wojtyla non ha solo rimesso sul tavolo la resurrezione.
Di più, egli è riuscito ad evitare che
una fede militante in Cristo degenerasse in violenza.
Il lento e sofferto lavoro della cultura sulla religione
ha portato infatti a ridurre il contenuto violento
che ogni irruzione dell’assoluto nel relativo
comporta, ma al tempo stesso ha indebolito i contenuti
della fede stessa. Wojtyla ha lanciato una sfida al
pensiero debole, proprio nella misura in cui ha mostrato
che è possibile pensare l’assoluto senza
che da ciò scaturisca anche violenza. Come
debolista convinta, ne prendo atto.
C’è tuttavia una seconda contraddizione
che il papa ha saputo fronteggiare. Infatti, oltre
alla scissione tra certezza della resurrezione, con
perenni rischi di violenza, e una sbiadita speranza
senza anticorpi, c’è un’altra ambivalenza
che lacera il cristianesimo, quella tra cattolicesimo
e modernità. Wojtyla è riuscito a disinnescare
l’alternativa tra una chiesa ortodossa ma ossessionata
dai comportamenti leciti da un lato, ed una più
tollerante verso la modernità ma in aperta
contraddizione con l’intera dottrina cattolica,
dall’altro. E ci è riuscito subordinando
la morale all’eternità, mostrando cioè
che non dai comportamenti bisogna partire, ma da Cristo
risorto: in quest’ottica la visione morale non
è che un tassello, sebbene indispensabile,
di un affresco più ampio e, grazie a quest’ultimo,
essa può sperare di non apparire insensata.
Rovesciando una tesi diffusa, vorrei sostenere che
non è stata l’ossessione sulla morale
a preparare la strada alla scristianizzazione, ma
l’abbandono della sua visione escatologica.
E perché quest’ultima è stata
abbandonata? Ce lo racconta il giovane ricco, che
nel noto episodio del Vangelo non ha il coraggio di
lasciare i suoi beni, ma anche parenti, amici e con
loro la meravigliosa concretezza della vita quotidiana,
per seguire Gesù. Come ho detto all’inizio,
infatti, la prospettiva eterna richiede l’abbandono
della vita terrena, abbandono non solo fisico, ma
soprattutto “psichico” nel senso che la
prospettiva dell’assoluto la rende talmente
relativa da poter essere abbandonata in ogni momento.
E, allora, se gli stessi rappresentanti della chiesa
si fossero attaccati a quegli aspetti concreti per
sfuggire al peso di quella rivoluzione esistenziale
che deriva dall’irruzione dell’assoluto?
Naturalmente, non nego certo la sofferenza che l’osservanza
di norme morali rigide ha causato. Anzi, continuo
a credere, con Hans Küng, unica voce fuori dal
coro dei consensi in questi giorni, che la Chiesa
farebbe bene a liberarsene: i credenti avrebbero un
peso in meno e i non credenti sarebbero costretti
ad andare al nocciolo della sfida della (in)finitezza,
senza limitarsi a scegliere come più comodo
bersaglio l’anacronismo morale della chiesa.
La chiesa si trova di fronte all’impasse: o
accetta di scomparire lentamente, o ripropone con
forza la sua visione metafisica. Ma per far questo
ha bisogno non solo di papi, ma di credenti eccezionali,
che siano consapevoli del prezzo amaro da pagare per
l’invidiabile prospettiva dell’eternità:
la relativizzazione di tutto ciò che ci circonda.
Chissà se coloro che hanno affollato le piazze
in questi giorni ne sono consapevoli.
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