Josè Luis Zapatero e il suo esecutivo sono
sul punto di portare a compimento l’ennesima,
annunciata riforma: quella del sistema radiotelevisivo.
E come tutte le “rivoluzioni” dello status
quo, anche questa è foriera di polemiche molto
aspre. Il premier iberico, dopo aver sparato i primi
“botti riformatori” di stampo ultra-laicistico
riguardanti l’aborto libero nelle prime 12 settimane,
il matrimonio tra gay e la più libertaria legge
sulla fecondazione assistita d’Europa, si appresta
a modificare gli equilibri di un sistema, quello radiotelevisivo
appunto, oligopolistico e stagnante. Non vi è
dubbio, comunque la si pensi, che l’attuale
panorama delle radio e delle tv sia poco conforme
alle più elementari osservanze del pluralismo
informativo. Oltre a ciò, e qui le analogie
con la televisione italiana si rafforzano, la qualità
dei programmi messi in onda risulta spesso di scarsissima
qualità tanto che gli spagnoli hanno coniato
un neologismo abbastanza illuminante: “telebasura”,
cioè telespazzatura.
Inoltre, il debito pubblico dell’emittenza di
stato ammonta ad oltre 7.500 milioni di euro.
Alla luce di questo quadro piuttosto deprimente,
appare quanto mai necessario e auspicabile un riassetto
del sistema. Il nocciolo della questione, che ha scatenato
vibranti polemiche e aspre contestazioni, riguarda
il merito e le modalità degli interventi da
effettuare. Un “comitato di saggi”, presieduto
dal filosofo Emilio Lledò, ha eleborato un
documento che miri a limitare il peso della politica
nella tv pubblica e nel contempo badi ad aumentare
l’offerta dei canali in analogico. D’altronde,
Zapatero era stato chiaro in campagna elettorale,
annunciando che sarebbe stato il primo premier spagnolo
a togliersi di mezzo dalla tv pubblica: in altri termini,
l’intento è quello di rendere indipendente
la Rtve (l’equivalente della nostra
Rai) dai giochi di maggioranza parlamentare.
Su questo punto, si apre la prima importante questione
che riguarda il servizio pubblico e le modalità
di come questo verrà modificato. La prima importante
novità riguarda la nomina del presidente che
non verrà più scelto dal governo, bensì
dal Consiglio di amministrazione. Quest’ultimo,
che avrà mandato per sei anni, risulterà
composto da due membri eletti dalla Camera dei deputati
e due dal Senato, con i due terzi dei voti e il gradimento
almeno della metà dei gruppi politici che siedono
in Parlamento; altri due membri saranno espressione
dei sindacati mentre gli ultimi due saranno selezionati
dal Consiglio audiovisuale (organismo preposto alla
regolazione dei flussi pubblicitari, alla qualità
dei palinsesti a i costi del servizio pubblico). Anche
per la carica di direttore generale occorrono i due
terzi dei voti, in questo caso però provenienti
dal Consiglio di amministrazione dopo un concorso
pubblico.
Per quanto concerne i finanziamenti di cui usufruirà
la Rtve, vi sarà un sistema misto
così ripartito: 50 per cento proveniente dalle
casse dello stato (il canone a differenza dell’Italia
non è dovuto) e 40 per cento dagli introiti
pubblicitari. Il restante 10 per cento dovrà
scaturire dalla vendita ai circuiti esteri dei programmi
e dei diritti dei materiali di archivio. In materia
di rapporto fra gli spot e il loro inserimento nelle
trasmissioni, la Rtve si allineerà
alle direttive dell’Ue.
L’ultimo punto cruciale sul riassetto della
radiotelevisione pubblica, passa per la creazione
di un ulteriore organismo, ex novo, denominato “Consiglio
d’informazione”. Questo sarà formato
da rappresentanze dei comitati di redazione dei canali
pubblici e da alcune associazioni della società
civile.
Quanto al capitolo di riforma sull’emittenza
privata, manco a dirlo, si sono innescate polemiche
feroci. Ha cominciato l’italiano Paolo Vasile,
amministratore delegato di Telecinco (Mediaset
detiene il 50, 1 per cento del pacchetto azionario),
il quale a parlato di “colpo di Stato”,
sostenendo che Zapatero intende favorire le reti “amiche”
(del colosso mediatico Prisa, tradizionalmente filo-socialista).
Secca e composta la replica del premier iberico: “Invito
questo cittadino italiano a moderare un po’
i termini”. Condivide le critiche di Vasile
anche Maurizio Carlotti, amministratore delegato di
Antenna 3, controllata da De Agostini e Planeta. Le
ragioni di questi attacchi dal “clan Italia”,
derivano dal fatto che l’emittente pay-tv Canal
Plus con la riforma passerebbe a trasmettere
in chiaro. Se da una parte si potrebbe pensare, come
allude Paolo Vasile, a una sorta di sdebitamento del
premier nei confronti del Gruppo Prisa (proprietario
di Canal Plus), dall’altra è
assolutamente condivisibile un ampliamento dell’offerta
televisiva in nome di un pluralismo informativo finora
latitante. Dietro le preoccupazioni sulla presunta
o meno correttezza di questa operazione giuridico-mediatica,
sembrano esserci, più che altro, ragioni puramente
economiche. Telecinco, che spadroneggia quasi indisturbata
nell’emittenza privata da molti anni, vedrebbe
messa in discussione la propria leadership in fatto
di spettatori e quindi di introiti commerciali. Occorre
rilevare, tuttavia, che in questa operazione promossa
dall’esecutivo spagnolo in favore di una “maggiore
libertà” e presenza di più voci
nel panorama mediatico-informativo, vi sia un neo
piuttosto contraddittorio rilevato dal gruppo di editori
contrari a questa riforma: è curioso, infatti,
che se da un lato Zapatero anticipi la fine dell’era
dell’analogico dal 2012 al 2010, dall’altro
programmi nuovi concessioni per tv analogiche. In
questo modo si rallenta l’introduzione del digitale.
La questione rimane abbastanza irrisolta e di difficile
comprensione. Nel complesso, ad ogni modo, in una
situazione che vede pochi attori partecipi (praticamente
i nostri connazionali) nell’industria culturale
della televisione, questa riforma mira all’innalzamento
della qualità dei palinsesti della Rtve con
la programmazione di documentari e format culturali
anche in prima serata, elude almeno in parte il controllo
politico sull’emittenza statale e aumenta l’offerta
di canali agli utenti. Insomma, più luci che
ombre su queste proposte che ora dovranno diventare,
salvo sorprese, disegno di legge.
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