275 - 08.04.05


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Le nostre proposte
per una Rai migliore
Paolo Gentiloni

Il testo che segue è l’intervento introduttivo al convegno “Vizi privati o pubbliche virtù - Il futuro della Rai in un nuovo mercato Tv”, organizzato dalla Margherita a Roma il 28 febbraio 2005.


Molti sono i detrattori della televisione italiana. Pochi, pochissimi, quelli che vogliono cambiarla. Si parla fin troppo di cattiva tv, volgarità, trash, tv deficiente, ma in realtà più questa televisione viene criticata, più la si ritiene intoccabile.
La televisione, certo, sta cambiando sotto l’effetto di nuove tecnologie che hanno rimesso in moto l’intero sistema e lo arricchiscono di numerose alternative, come il digitale e il satellitare fanno della tv un luogo di innovazione.
Attenzione, però. Solo i ciechi non vedono l’evoluzione tecnologica in atto nel sistema televisivo, ma solo i furbi possono sostenere che essa abbia risolto le malattie che lo attraversano.

Il paradiso può attendere

Il consumo di televisione è stabile (anzi, in lievissima crescita) e tra i 9 milioni di italiani che in media sono davanti a un teleschermo (quasi 24 milioni nel prime time), il 90% continua a guardare programmi Rai o Mediaset.
La platea del duopolio invecchia, perde quote di bambini e di istruiti. Rimanda sempre più all’immagine americana del couch-potato, questo novello ircocervo dell’uomo-patata piantato sul divano davanti alla tv.
Ma la platea dei couch-potato non si svuota, nonostante la concorrenza del bouquet di Sky e la tendenza al degrado dell’offerta generalista (boom dei reality, declino dei film, diffusione di volgarità).
Affiora, e rapidamente si allarga, una nuova linea di faglia tra una televisione generalista gratuita e degradata e un’offerta multicanale di maggior qualità ma riservata a pochi.
Il paradiso digitale terrestre annunciato dalla Gasparri e sostenuto da due Leggi Finanziarie non ci sarà. Il turn off dell’analogico non avverrà tra 22 mesi. Lo scenario dei prossimi anni vedrà una competizione dagli esiti incerti tra il digitale terrestre, il satellitare ormai consolidato, il cavo con i vantaggi derivanti dal segnale di ritorno per l’interattività, l’uso delle linee Adsl.
Ben venga, dunque, questa competizione. Ma sia chiaro che le nuove tecnologie non saranno la cura omeopatica dei mali della nostra tv. La posizione dominante di Mediaset e Rai nel broadcasting, ha avvertito la recente indagine dell’Antitrust, “rischia di ripercuotersi anche sulle dinamiche concorrenziali del nuovo mercato digitale, vanificandone le potenzialità procompetitive.”

Rai e Mediaset, questi due “dinosauri siamesi”, rischiano di confermarsi specie dominante anche nel futuro prossimo. Iper concentrazione, assenza di concorrenza, mancanza di pluralismo, scarsa qualità e scarsissima innovazione non se ne andranno da soli, sulla scia di qualche milione di decoder.
Queste malattie sono particolarmente gravi nel paese del conflitto di interessi, dove la cattiva televisione produce cattiva democrazia.
Come molti altri, ho provato un certo imbarazzo nel vedere lo spot della tv svedese dedicato al monopolio televisivo di Berlusconi. Almeno il sottofondo musicale di “O sole mio” potevano risparmiarcelo. Ma capisco il loro allarme – condiviso da tutti i governi europei – di fronte all’iperbole del nostro conflitto di interessi. Che almeno fino a qualche anno fa veniva riconosciuto come un problema. Oggi no, neppure quello. Oggi Berlusconi, sia pure con l’attenuante di una febbre alta, denuncia il controllo assoluto della tv da parte della sinistra.

Più mercato, più servizio pubblico

Migliorare la televisione aiuta la nostra democrazia. Per questo noi della Margherita abbiamo visto positivamente il fatto che proprio su questi temi Romano Prodi abbia indicato una delle sue prime idee di riforma intorno alla quale cercheremo di ragionare.
Ciò di cui il nostro sistema televisivo ha bisogno è presto detto: più mercato e più servizio pubblico. O meglio, realisticamente si dovrebbe dire: ha bisogno di mercato e di servizio pubblico tout court.
La nascita di un mercato televisivo passa attraverso lo scongelamento del duopolio e la graduale affermazione di un normale sistema televisivo nel quale siano in competizione tre o quattro diversi players. Come avviene negli altri paesi europei.
Gli effetti dell’era glaciale del duopolio sono sotto gli occhi di tutti.
Vantiamo il dubbio primato della più grande concessionaria pubblicitaria d’Europa nell’ambito di uno strapotere della pubblicità tv che, come ha detto Ciampi, rischia di prosciugare le fonti di finanziamento della libera stampa. A chi considera superata tale questione consiglio di guardare i dati Nielsen dell’ultimo triennio: fatto 100 il mercato pubblicitario, la stampa è calata dal 39 al 35 mentre la tv è cresciuta dal 53 al 56. Un record mondiale, dovuto in buona parte a Mediaset che, da sola, è passata dal 35 al 37% dell’intera torta pubblicitaria. Più di tutto il settore carta stampata.

Assistiamo a un peggioramento progressivo della programmazione televisiva, anche per mancanza di competizione.
Lo stesso digitale terrestre si traduce in un rafforzamento di operatori dominanti che per di più lo utilizzano a pagamento nonostante il cospicuo finanziamento statale (110 milioni nell’ultima finanziaria).
Tutto il nostro settore audiovisivo soffre il regime duopolistico e rischia di ridursi a industria cortigiana dei due sovrani.
Lo scongelamento del duopolio è dunque un obiettivo fondamentale per la salute del sistema e anche per la capacità competitiva di tutte le imprese, a partire da Mediaset.
Tra i primi atti di una nuova maggioranza di centrosinistra noi riteniamo debbano esserci due decisioni sulle quali credo sia possibile una convergenza tra tutti i partiti dell’Unione.
Primo: una legge semplice e chiara sul conflitto di interessi, che stabilisca la incompatibilità tra cariche politiche e possessori di grandi strumenti di comunicazione.
Secondo: l’abolizione dell’assurda finzione del Sic ed il ripristino di barriere antitrust nel settore audiovisivo.
Mercato e concorrenza devono riguardare anche ovviamente le nuove piattaforme televisive, dal digitale terrestre al satellite. A questo fine appare preziosa l’insistenza dell’Antitrust sulla separazione verticale tra operatori di rete e fornitori di contenuti e appare necessario un maggiore impegno del servizio pubblico nel digitale satellitare.

Cambiare la Rai

Per introdurre più mercato e più servizio pubblico nel sistema televisivo italiano occorre porsi la questione del destino della Rai.
Un destino al quale guardiamo non solo con il rispetto dovuto a questa grande azienda culturale pubblica, ma anche con affetto, come si guarda a un pezzo fondamentale della nostra identità italiana. E, proprio per questo, vogliamo farci guidare dalla consapevolezza che anche la Rai deve cambiare, che il rischio dello smarrimento del senso del servizio pubblico è troppo grande, che la difesa sic et simpliciter dell’esistente finisce per essere oggi il più grande alibi per il duopolio, e domani, forse, finirà per rivelarsi una fragilissima linea Maginot per il servizio pubblico.
La Rai, dunque, deve cambiare.
Non per arrendersi a Mediaset ma per rendere possibile di competere in un mercato più aperto.
Deve cambiare, soprattutto, se non vuole correre il rischio nel giro di pochi anni di ritrovarsi indifesa in un’offerta multicanale che giustificherà il pagamento del canone per alcuni di questi canali solo in ragione della loro “pubblica utilità”.
Una ragione che i palinsesti Rai, con varie eccezioni concentrate soprattutto su Rai Tre, sembrano aver perso di vista non solo per scelta politica, ma anche per inerzia, per assenza di un progetto culturale o addirittura per il diradarsi delle professionalità necessarie.

Cambiare è il solo modo per salvare il servizio pubblico. Per non arrendersi all’idea di Rupert Murdoch che già 15 anni fa sosteneva che “chiunque rispetti le leggi e offra ad un prezzo accettabile un servizio richiesto dal pubblico fa servizio pubblico.”
La campana suona per tutti. Perfino per la Bbc, visto il contenuto del Green Paper che ha sancito il nuovo contratto decennale 2007-2017. Vi confermiamo il canone (da 8 mila miliardi di vecchie lire all’anno) per dieci anni, dice il governo di sua Maestà, ma a metà strada, nel 2012, dovete chiarire meglio ciò che è finanziato dal canone anche per evitare vantaggi impropri sui competitor privati.
Cambiare, ma in che direzione? La dico con uno slogan: solo una Rai più simile alla Bbc può evitare di essere sempre più uguale a Mediaset. E allora più qualità dei contenuti editoriali, più capacità di sostenere l’industria culturale italiana, più pluralismo e libertà di informazione, più autonomia dei giornalisti e dei vertici aziendali dal potere politico.
Parliamo di obiettivi difficili, naturalmente. Alcuni (come l’autonomia dai partiti) ai confini della fantapolitica nel sistema italiano. Ma dopo questa legislatura che è andata in direzione opposta (si pensi al ritorno a un Cda Rai da anni 80), quel che conta è muovere i primi passi nella direzione giusta.

Il punto di avvio della riforma

L’Indagine Antitrust sulla pubblicità televisiva propone per la Rai “la creazione di due società distinte: la prima con obblighi di servizio pubblico generale finanziata attraverso il canone; la seconda, a carattere commerciale, che sostiene le proprie attività attraverso la raccolta pubblicitaria”.
Questo, come ha sottolineato Romano Prodi, è il punto di avvio.
In parallelo occorrerà separare, in Rai come in Mediaset, le funzioni di operatore di rete da quelle di fornitore di contenuti, liberare la Rai “commerciale” dagli attuali limiti di affollamento pubblicitario e applicare misure antitrust tali da ottenere un dimagrimento di Mediaset parallelo a quello della Rai.
Si tratterà di un processo graduale (che impiegherà certamente alcuni anni) e aperto, che potrà svilupparsi facendo riferimento al modello inglese ma anche all’esperienza del servizio pubblico francese dopo la vendita della sua principale rete generalista (Tf1).
Il processo di riforma potrà portare nel giro di alcuni anni alla privatizzazione di una rete generalista e della struttura di distribuzione e diffusione (Rai Way).
La Rai finanziata dal canone e dalla commercializzazione di prodotti e diritti potrebbe così basarsi sue due reti (una generalista e una territoriale), arricchirsi di nuove reti tematiche, contare su un forte impulso al satellitare free to air; puntare sul rilancio di Rai International e su attività tipiche del servizio pubblico come le Teche e il Centro ricerche; guardare con maggiore attenzione al sistema di sedi regionali, alla radio, ai new media.
Insomma, si tratta di immaginare e realizzare un insieme di asset in grado di assicurare presenza di mercato e competitività.
Non stiamo affatto parlando di una “mini- Rai” per il semplice fatto che cambierà assetto e venderà a privati alcune delle sue parti. Al contrario, stiamo parlando di un progetto da costruire, senza esiti precostituiti.
C’è molto da discutere, ma una cosa è certa. Preliminare a questo percorso di riforma è lo stop alla finta privatizzazione della Rai prevista dalla legge Gasparri. Una operazione che da un lato congelerebbe il duopolio senza aprire alcuno spazio di concorrenza nel mercato. E dall’altro congelerebbe la struttura Rai basata sulle tre reti e sull’ibrido totale tra canone e pubblicità rendendo assai impervio il percorso della futura riforma.

Le obiezioni alla proposta Prodi

Conosco le obiezioni con cui il centrosinistra dovrà confrontarsi se imboccherà questa strada.

Obiezione numero uno: le tre reti sono tutte vitali per la sopravvivenza della Rai (e di Mediaset).
Si tratta di una leggenda metropolitana: le tre reti “generaliste” all’italiana non sono la regola ma l’eccezione tra le tv europee. Quanto al pluralismo politico, che è la vera costituzione materiale delle reti Rai, esso ha ormai un fondamento bipolare e non certo affidato alla tripartizione Dc-Psi-Pci.

Obiezione numero due: i rischi occupazionali.
L’esperienza dimostra che vanno presi molto sul serio ma sono relativamente indipendenti dalle privatizzazioni. Queste ultime, quando hanno dato luogo (non sempre è avvenuto) a liberalizzazioni di settori di mercato hanno favorito e non penalizzato l’occupazione. Telecomunicazioni e trasporto aereo sono facili esempi di come sia azzardato vedere nella concorrenza (telefonia mobile) il nemico e nel monopolio pubblico (Alitalia) il garante della occupazione.
Certo, la società Rai interamente finanziata dal canone dovrà incrementare la propria efficienza per raggiungere un equilibrio economico senza improponibili impennate del contributo pubblico. Ma siamo certi che questo incremento di efficienza sia un male? E che sia evitabile, nel caso si mantenesse l’attuale struttura Rai?

Più seria è l’obiezione numero tre che riguarda l’effettiva possibilità di ingresso di nuovi protagonisti in un mercato difficile come quello del broadcasting.
La disponibilità di nuovi protagonisti presuppone la rimozione del conflitto di interessi (nessuno entra in un business dominato dal capo dell’esecutivo) e la possibilità di acquisire quote di ascolti e di pubblicità già consistenti senza dover partire praticamente da zero. Senza queste due premesse è indubbio che anche per la “Rai commerciale” potrebbe ripetersi la storia infinita delle false partenze del nostro terzo polo televisivo.

Infine, a chi obietta che senza pubblicità la “Rai pubblica” sarebbe destinata a fare la fine della Pbs, la piccola rete tv pubblica americana, rispondo che se c’è un’anomalia italiana rispetto alle tv pubbliche europee è il peso eccessivo della pubblicità.
Nella nostra tv pubblica la pubblicità assicura oltre il 40% dei ricavi contro il 4% tedesco, il 23% francese e lo zero britannico. Faceva eccezione la Spagna ma il rapporto dei cinque saggi incaricati da Zapatero propone che in 4 anni la pubblicità sia dimezzata su Tve1 ed eliminata su Las Dos. “L’eccessiva pressione commerciale sulla programmazione – dicono i saggi spagnoli – ha condotto a una saturazione pubblicitaria e a una scarsa differenziazione dalle tv private”.
Non è detto che senza pubblicità si faccia automaticamente una buona televisione, ma è certo che il dominio della pubblicità è una camicia di forza che impone un modello di tv sempre meno identificabile con il servizio pubblico.

Neutralizzare la Rai

Il rilancio di un autentico servizio pubblico televisivo sarà possibile se alla difesa del pluralismo, alla riscoperta del prodotto editoriale di qualità e alla chiarezza nella destinazione dei finanziamenti del canone si aggiungerà un sistema di nomina del vertice aziendale tale da garantirne la neutralità.
Rendere neutrale il vertice Rai: visti i primi 50 anni della nostra tv l’obiettivo fa tornare in mente quel “vaste programme” con cui De Gaulle si rivolse a chi gli proponeva di liberarsi dagli stupidi.
Ma non si tratta di una missione impossibile. La Rai non sarà mai “come la Banca d’Italia” (e del resto anche la pietra di paragone appare oggi meno convincente), ma potrebbe conquistarsi un sufficiente grado di autonomia con nuove regole.
La Margherita pensa a una Fondazione sul modello francese con un criterio di nomina del vertice ispirato a quello in vigore ad esempio nelle Autorità di Garanzia e non ispirato allo spoils system.
Intanto il vertice Rai deve cambiare strada.
E’ inaudita la sopravvivenza di un vertice politicamente delegittimato a nove mesi di distanza dalle dimissioni della Presidente Annunziata. I quattro consiglieri rimasti al settimo piano di Viale Mazzini hanno ignorato una risoluzione adottata a maggioranza dalla Commissione di Vigilanza e le parole del Presidente della Camera. Non si capisce da chi altri aspettino il segnale per andarsene. Chiunque abbia a cuore la Rai non può che augurarsi le immediate dimissioni di questo Cda. Ogni giorno che passa questo vertice provoca alla credibilità dell’azienda un danno permanente e irreparabile.

Vizi privati o pubbliche virtù.

Abbiamo naturalmente esagerato proponendo questa alternativa come titolo del nostro convegno, anche perché nella tv di oggi la distinzione non è così agevole e netta. Tra il programma di Ricci e quello di Bonolis, tanto per stare al top degli ascolti, non saprei come distribuire vizi e virtù. Dovendo farlo, mi verrebbe di assegnare piuttosto al privato la palma del virtuoso. E lo stesso discorso si potrebbe fare per alcuni programmi innovativi di satira e di intrattenimento.
Oggi è tutt’altro che facile individuare le pubbliche virtù andando oltre la definizione di “ciò che non vogliamo”.

Il punto di partenza della nostra riflessione è l’amara constatazione della resa della Rai – non di tutta la Rai, ma del marchio Rai – al modello della tv commerciale. Ha ragione Carlo Freccero: “La Rai è stata prima contaminata e poi si è dissolta nel modello di tv commerciale”, un modello che ha perso la sua spinta propulsiva e scivola verso il basso.
Del resto l’ambiente culturale degli anni ruggenti della tv commerciale è alle nostre spalle, crollato con le torri gemelle. La malìa della pubblicità tv poteva anche funzionare nell’epoca della “fine della storia”, della grande illusione di una nuova belle epoque che accompagnò la caduta del Muro di Berlino. Ma in tempi di incertezza, di società del rischio, di terrorismo globale e scontri di civiltà, di rallentamento dell’economia, c’è poco spazio per i sogni televisivi. La tv del nuovo millennio non vende più i sogni dei miti pubblicitari, ma smercia le piccole, meschine certezze dei reality.
Prendere le distanze dal modello dominante di tv commerciale è dunque ancora più necessario nel tempo del declino e dello svuotamento di quel modello.
Certo, il servizio pubblico non è solo una tv culturale, tanto meno una televisione di nicchia: “Non c’è servizio pubblico se il pubblico è altrove” ha scritto Paolo Ruffini.
La sfida più difficile riguarda la qualità, ma è una sfida obbligata che dobbiamo vincere.
Noi non abbiamo mai pensato che il servizio pubblico televisivo possa risolversi nella proprietà pubblica dell’azienda che lo trasmette. E’ un pezzo del sistema democratico in ogni paese europeo. E’ una frontiera di pluralismo e di libertà. Una Rai migliore può fare più forte la democrazia italiana.

 

 


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