Il testo che segue è l’intervento
introduttivo al convegno “Vizi privati o pubbliche
virtù - Il futuro della Rai in un nuovo mercato
Tv”, organizzato dalla Margherita a Roma il
28 febbraio 2005.
Molti sono i detrattori della televisione italiana.
Pochi, pochissimi, quelli che vogliono cambiarla.
Si parla fin troppo di cattiva tv, volgarità,
trash, tv deficiente, ma in realtà più
questa televisione viene criticata, più la
si ritiene intoccabile.
La televisione, certo, sta cambiando sotto l’effetto
di nuove tecnologie che hanno rimesso in moto l’intero
sistema e lo arricchiscono di numerose alternative,
come il digitale e il satellitare fanno della tv un
luogo di innovazione.
Attenzione, però. Solo i ciechi non vedono
l’evoluzione tecnologica in atto nel sistema
televisivo, ma solo i furbi possono sostenere che
essa abbia risolto le malattie che lo attraversano.
Il paradiso può attendere
Il consumo di televisione è stabile (anzi,
in lievissima crescita) e tra i 9 milioni di italiani
che in media sono davanti a un teleschermo (quasi
24 milioni nel prime time), il 90% continua
a guardare programmi Rai o Mediaset.
La platea del duopolio invecchia, perde quote di bambini
e di istruiti. Rimanda sempre più all’immagine
americana del couch-potato, questo novello
ircocervo dell’uomo-patata piantato sul divano
davanti alla tv.
Ma la platea dei couch-potato non si svuota, nonostante
la concorrenza del bouquet di Sky e la tendenza al
degrado dell’offerta generalista (boom dei reality,
declino dei film, diffusione di volgarità).
Affiora, e rapidamente si allarga, una nuova linea
di faglia tra una televisione generalista gratuita
e degradata e un’offerta multicanale di maggior
qualità ma riservata a pochi.
Il paradiso digitale terrestre annunciato dalla Gasparri
e sostenuto da due Leggi Finanziarie non ci sarà.
Il turn off dell’analogico non avverrà
tra 22 mesi. Lo scenario dei prossimi anni vedrà
una competizione dagli esiti incerti tra il digitale
terrestre, il satellitare ormai consolidato, il cavo
con i vantaggi derivanti dal segnale di ritorno per
l’interattività, l’uso delle linee
Adsl.
Ben venga, dunque, questa competizione. Ma sia chiaro
che le nuove tecnologie non saranno la cura omeopatica
dei mali della nostra tv. La posizione dominante di
Mediaset e Rai nel broadcasting, ha avvertito la recente
indagine dell’Antitrust, “rischia di ripercuotersi
anche sulle dinamiche concorrenziali del nuovo mercato
digitale, vanificandone le potenzialità procompetitive.”
Rai e Mediaset, questi due “dinosauri siamesi”,
rischiano di confermarsi specie dominante anche nel
futuro prossimo. Iper concentrazione, assenza di concorrenza,
mancanza di pluralismo, scarsa qualità e scarsissima
innovazione non se ne andranno da soli, sulla scia
di qualche milione di decoder.
Queste malattie sono particolarmente gravi nel paese
del conflitto di interessi, dove la cattiva televisione
produce cattiva democrazia.
Come molti altri, ho provato un certo imbarazzo nel
vedere lo spot della tv svedese dedicato al monopolio
televisivo di Berlusconi. Almeno il sottofondo musicale
di “O sole mio” potevano risparmiarcelo.
Ma capisco il loro allarme – condiviso da tutti
i governi europei – di fronte all’iperbole
del nostro conflitto di interessi. Che almeno fino
a qualche anno fa veniva riconosciuto come un problema.
Oggi no, neppure quello. Oggi Berlusconi, sia pure
con l’attenuante di una febbre alta, denuncia
il controllo assoluto della tv da parte della sinistra.
Più mercato, più servizio pubblico
Migliorare la televisione aiuta la nostra democrazia.
Per questo noi della Margherita abbiamo visto positivamente
il fatto che proprio su questi temi Romano Prodi abbia
indicato una delle sue prime idee di riforma intorno
alla quale cercheremo di ragionare.
Ciò di cui il nostro sistema televisivo ha
bisogno è presto detto: più mercato
e più servizio pubblico. O meglio, realisticamente
si dovrebbe dire: ha bisogno di mercato e di servizio
pubblico tout court.
La nascita di un mercato televisivo passa attraverso
lo scongelamento del duopolio e la graduale affermazione
di un normale sistema televisivo nel quale siano in
competizione tre o quattro diversi players. Come avviene
negli altri paesi europei.
Gli effetti dell’era glaciale del duopolio sono
sotto gli occhi di tutti.
Vantiamo il dubbio primato della più grande
concessionaria pubblicitaria d’Europa nell’ambito
di uno strapotere della pubblicità tv che,
come ha detto Ciampi, rischia di prosciugare le fonti
di finanziamento della libera stampa. A chi considera
superata tale questione consiglio di guardare i dati
Nielsen dell’ultimo triennio: fatto 100 il mercato
pubblicitario, la stampa è calata dal 39 al
35 mentre la tv è cresciuta dal 53 al 56. Un
record mondiale, dovuto in buona parte a Mediaset
che, da sola, è passata dal 35 al 37% dell’intera
torta pubblicitaria. Più di tutto il settore
carta stampata.
Assistiamo a un peggioramento progressivo della programmazione
televisiva, anche per mancanza di competizione.
Lo stesso digitale terrestre si traduce in un rafforzamento
di operatori dominanti che per di più lo utilizzano
a pagamento nonostante il cospicuo finanziamento statale
(110 milioni nell’ultima finanziaria).
Tutto il nostro settore audiovisivo soffre il regime
duopolistico e rischia di ridursi a industria cortigiana
dei due sovrani.
Lo scongelamento del duopolio è dunque un obiettivo
fondamentale per la salute del sistema e anche per
la capacità competitiva di tutte le imprese,
a partire da Mediaset.
Tra i primi atti di una nuova maggioranza di centrosinistra
noi riteniamo debbano esserci due decisioni sulle
quali credo sia possibile una convergenza tra tutti
i partiti dell’Unione.
Primo: una legge semplice e chiara sul conflitto di
interessi, che stabilisca la incompatibilità
tra cariche politiche e possessori di grandi strumenti
di comunicazione.
Secondo: l’abolizione dell’assurda finzione
del Sic ed il ripristino di barriere antitrust nel
settore audiovisivo.
Mercato e concorrenza devono riguardare anche ovviamente
le nuove piattaforme televisive, dal digitale terrestre
al satellite. A questo fine appare preziosa l’insistenza
dell’Antitrust sulla separazione verticale tra
operatori di rete e fornitori di contenuti e appare
necessario un maggiore impegno del servizio pubblico
nel digitale satellitare.
Cambiare la Rai
Per introdurre più mercato e più servizio
pubblico nel sistema televisivo italiano occorre porsi
la questione del destino della Rai.
Un destino al quale guardiamo non solo con il rispetto
dovuto a questa grande azienda culturale pubblica,
ma anche con affetto, come si guarda a un pezzo fondamentale
della nostra identità italiana. E, proprio
per questo, vogliamo farci guidare dalla consapevolezza
che anche la Rai deve cambiare, che il rischio dello
smarrimento del senso del servizio pubblico è
troppo grande, che la difesa sic et simpliciter
dell’esistente finisce per essere oggi
il più grande alibi per il duopolio, e domani,
forse, finirà per rivelarsi una fragilissima
linea Maginot per il servizio pubblico.
La Rai, dunque, deve cambiare.
Non per arrendersi a Mediaset ma per rendere possibile
di competere in un mercato più aperto.
Deve cambiare, soprattutto, se non vuole correre il
rischio nel giro di pochi anni di ritrovarsi indifesa
in un’offerta multicanale che giustificherà
il pagamento del canone per alcuni di questi canali
solo in ragione della loro “pubblica utilità”.
Una ragione che i palinsesti Rai, con varie eccezioni
concentrate soprattutto su Rai Tre, sembrano aver
perso di vista non solo per scelta politica, ma anche
per inerzia, per assenza di un progetto culturale
o addirittura per il diradarsi delle professionalità
necessarie.
Cambiare è il solo modo per salvare il servizio
pubblico. Per non arrendersi all’idea di Rupert
Murdoch che già 15 anni fa sosteneva che “chiunque
rispetti le leggi e offra ad un prezzo accettabile
un servizio richiesto dal pubblico fa servizio pubblico.”
La campana suona per tutti. Perfino per la Bbc, visto
il contenuto del Green Paper che ha sancito il nuovo
contratto decennale 2007-2017. Vi confermiamo il canone
(da 8 mila miliardi di vecchie lire all’anno)
per dieci anni, dice il governo di sua Maestà,
ma a metà strada, nel 2012, dovete chiarire
meglio ciò che è finanziato dal canone
anche per evitare vantaggi impropri sui competitor
privati.
Cambiare, ma in che direzione? La dico con uno slogan:
solo una Rai più simile alla Bbc può
evitare di essere sempre più uguale a Mediaset.
E allora più qualità dei contenuti editoriali,
più capacità di sostenere l’industria
culturale italiana, più pluralismo e libertà
di informazione, più autonomia dei giornalisti
e dei vertici aziendali dal potere politico.
Parliamo di obiettivi difficili, naturalmente. Alcuni
(come l’autonomia dai partiti) ai confini della
fantapolitica nel sistema italiano. Ma dopo questa
legislatura che è andata in direzione opposta
(si pensi al ritorno a un Cda Rai da anni 80), quel
che conta è muovere i primi passi nella direzione
giusta.
Il punto di avvio della riforma
L’Indagine Antitrust sulla pubblicità
televisiva propone per la Rai “la creazione
di due società distinte: la prima con obblighi
di servizio pubblico generale finanziata attraverso
il canone; la seconda, a carattere commerciale, che
sostiene le proprie attività attraverso la
raccolta pubblicitaria”.
Questo, come ha sottolineato Romano Prodi, è
il punto di avvio.
In parallelo occorrerà separare, in Rai come
in Mediaset, le funzioni di operatore di rete da quelle
di fornitore di contenuti, liberare la Rai “commerciale”
dagli attuali limiti di affollamento pubblicitario
e applicare misure antitrust tali da ottenere un dimagrimento
di Mediaset parallelo a quello della Rai.
Si tratterà di un processo graduale (che impiegherà
certamente alcuni anni) e aperto, che potrà
svilupparsi facendo riferimento al modello inglese
ma anche all’esperienza del servizio pubblico
francese dopo la vendita della sua principale rete
generalista (Tf1).
Il processo di riforma potrà portare nel giro
di alcuni anni alla privatizzazione di una rete generalista
e della struttura di distribuzione e diffusione (Rai
Way).
La Rai finanziata dal canone e dalla commercializzazione
di prodotti e diritti potrebbe così basarsi
sue due reti (una generalista e una territoriale),
arricchirsi di nuove reti tematiche, contare su un
forte impulso al satellitare free to air;
puntare sul rilancio di Rai International e su attività
tipiche del servizio pubblico come le Teche e il Centro
ricerche; guardare con maggiore attenzione al sistema
di sedi regionali, alla radio, ai new media.
Insomma, si tratta di immaginare e realizzare un insieme
di asset in grado di assicurare presenza di mercato
e competitività.
Non stiamo affatto parlando di una “mini- Rai”
per il semplice fatto che cambierà assetto
e venderà a privati alcune delle sue parti.
Al contrario, stiamo parlando di un progetto da costruire,
senza esiti precostituiti.
C’è molto da discutere, ma una cosa è
certa. Preliminare a questo percorso di riforma è
lo stop alla finta privatizzazione della Rai prevista
dalla legge Gasparri. Una operazione che da un lato
congelerebbe il duopolio senza aprire alcuno spazio
di concorrenza nel mercato. E dall’altro congelerebbe
la struttura Rai basata sulle tre reti e sull’ibrido
totale tra canone e pubblicità rendendo assai
impervio il percorso della futura riforma.
Le obiezioni alla proposta Prodi
Conosco le obiezioni con cui il centrosinistra dovrà
confrontarsi se imboccherà questa strada.
Obiezione numero uno: le tre reti sono tutte vitali
per la sopravvivenza della Rai (e di Mediaset).
Si tratta di una leggenda metropolitana: le tre reti
“generaliste” all’italiana non sono
la regola ma l’eccezione tra le tv europee.
Quanto al pluralismo politico, che è la vera
costituzione materiale delle reti Rai, esso ha ormai
un fondamento bipolare e non certo affidato alla tripartizione
Dc-Psi-Pci.
Obiezione numero due: i rischi occupazionali.
L’esperienza dimostra che vanno presi molto
sul serio ma sono relativamente indipendenti dalle
privatizzazioni. Queste ultime, quando hanno dato
luogo (non sempre è avvenuto) a liberalizzazioni
di settori di mercato hanno favorito e non penalizzato
l’occupazione. Telecomunicazioni e trasporto
aereo sono facili esempi di come sia azzardato vedere
nella concorrenza (telefonia mobile) il nemico e nel
monopolio pubblico (Alitalia) il garante della occupazione.
Certo, la società Rai interamente finanziata
dal canone dovrà incrementare la propria efficienza
per raggiungere un equilibrio economico senza improponibili
impennate del contributo pubblico. Ma siamo certi
che questo incremento di efficienza sia un male? E
che sia evitabile, nel caso si mantenesse l’attuale
struttura Rai?
Più seria è l’obiezione numero
tre che riguarda l’effettiva possibilità
di ingresso di nuovi protagonisti in un mercato difficile
come quello del broadcasting.
La disponibilità di nuovi protagonisti presuppone
la rimozione del conflitto di interessi (nessuno entra
in un business dominato dal capo dell’esecutivo)
e la possibilità di acquisire quote di ascolti
e di pubblicità già consistenti senza
dover partire praticamente da zero. Senza queste due
premesse è indubbio che anche per la “Rai
commerciale” potrebbe ripetersi la storia infinita
delle false partenze del nostro terzo polo televisivo.
Infine, a chi obietta che senza pubblicità
la “Rai pubblica” sarebbe destinata a
fare la fine della Pbs, la piccola rete tv pubblica
americana, rispondo che se c’è un’anomalia
italiana rispetto alle tv pubbliche europee è
il peso eccessivo della pubblicità.
Nella nostra tv pubblica la pubblicità assicura
oltre il 40% dei ricavi contro il 4% tedesco, il 23%
francese e lo zero britannico. Faceva eccezione la
Spagna ma il rapporto dei cinque saggi incaricati
da Zapatero propone che in 4 anni la pubblicità
sia dimezzata su Tve1 ed eliminata su Las Dos. “L’eccessiva
pressione commerciale sulla programmazione –
dicono i saggi spagnoli – ha condotto a una
saturazione pubblicitaria e a una scarsa differenziazione
dalle tv private”.
Non è detto che senza pubblicità si
faccia automaticamente una buona televisione, ma è
certo che il dominio della pubblicità è
una camicia di forza che impone un modello di tv sempre
meno identificabile con il servizio pubblico.
Neutralizzare la Rai
Il rilancio di un autentico servizio pubblico televisivo
sarà possibile se alla difesa del pluralismo,
alla riscoperta del prodotto editoriale di qualità
e alla chiarezza nella destinazione dei finanziamenti
del canone si aggiungerà un sistema di nomina
del vertice aziendale tale da garantirne la neutralità.
Rendere neutrale il vertice Rai: visti i primi 50
anni della nostra tv l’obiettivo fa tornare
in mente quel “vaste programme” con cui
De Gaulle si rivolse a chi gli proponeva di liberarsi
dagli stupidi.
Ma non si tratta di una missione impossibile. La Rai
non sarà mai “come la Banca d’Italia”
(e del resto anche la pietra di paragone appare oggi
meno convincente), ma potrebbe conquistarsi un sufficiente
grado di autonomia con nuove regole.
La Margherita pensa a una Fondazione sul modello francese
con un criterio di nomina del vertice ispirato a quello
in vigore ad esempio nelle Autorità di Garanzia
e non ispirato allo spoils system.
Intanto il vertice Rai deve cambiare strada.
E’ inaudita la sopravvivenza di un vertice politicamente
delegittimato a nove mesi di distanza dalle dimissioni
della Presidente Annunziata. I quattro consiglieri
rimasti al settimo piano di Viale Mazzini hanno ignorato
una risoluzione adottata a maggioranza dalla Commissione
di Vigilanza e le parole del Presidente della Camera.
Non si capisce da chi altri aspettino il segnale per
andarsene. Chiunque abbia a cuore la Rai non può
che augurarsi le immediate dimissioni di questo Cda.
Ogni giorno che passa questo vertice provoca alla
credibilità dell’azienda un danno permanente
e irreparabile.
Vizi privati o pubbliche virtù.
Abbiamo naturalmente esagerato proponendo questa
alternativa come titolo del nostro convegno, anche
perché nella tv di oggi la distinzione non
è così agevole e netta. Tra il programma
di Ricci e quello di Bonolis, tanto per stare al top
degli ascolti, non saprei come distribuire vizi e
virtù. Dovendo farlo, mi verrebbe di assegnare
piuttosto al privato la palma del virtuoso. E lo stesso
discorso si potrebbe fare per alcuni programmi innovativi
di satira e di intrattenimento.
Oggi è tutt’altro che facile individuare
le pubbliche virtù andando oltre la definizione
di “ciò che non vogliamo”.
Il punto di partenza della nostra riflessione è
l’amara constatazione della resa della Rai –
non di tutta la Rai, ma del marchio Rai – al
modello della tv commerciale. Ha ragione Carlo Freccero:
“La Rai è stata prima contaminata e poi
si è dissolta nel modello di tv commerciale”,
un modello che ha perso la sua spinta propulsiva e
scivola verso il basso.
Del resto l’ambiente culturale degli anni ruggenti
della tv commerciale è alle nostre spalle,
crollato con le torri gemelle. La malìa della
pubblicità tv poteva anche funzionare nell’epoca
della “fine della storia”, della grande
illusione di una nuova belle epoque che accompagnò
la caduta del Muro di Berlino. Ma in tempi di incertezza,
di società del rischio, di terrorismo globale
e scontri di civiltà, di rallentamento dell’economia,
c’è poco spazio per i sogni televisivi.
La tv del nuovo millennio non vende più i sogni
dei miti pubblicitari, ma smercia le piccole, meschine
certezze dei reality.
Prendere le distanze dal modello dominante di tv commerciale
è dunque ancora più necessario nel tempo
del declino e dello svuotamento di quel modello.
Certo, il servizio pubblico non è solo una
tv culturale, tanto meno una televisione di nicchia:
“Non c’è servizio pubblico se il
pubblico è altrove” ha scritto Paolo
Ruffini.
La sfida più difficile riguarda la qualità,
ma è una sfida obbligata che dobbiamo vincere.
Noi non abbiamo mai pensato che il servizio pubblico
televisivo possa risolversi nella proprietà
pubblica dell’azienda che lo trasmette. E’
un pezzo del sistema democratico in ogni paese europeo.
E’ una frontiera di pluralismo e di libertà.
Una Rai migliore può fare più forte
la democrazia italiana.
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