275 - 08.04.05


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In difesa di un bene essenziale
Dario Antiseri

Non andrebbe mai dimenticato che la televisione è maestra e che – come sostenuto da J. Baudrillard – i comportamenti di coloro che appaiono sullo schermo vengono percepiti in larga misura come normativi. La questione più urgente, dunque, è chiedersi se la televisione sia buona o cattiva maestra. Ed è chiaro che andare ad ogni costo a caccia dell’audience porterà inevitabilmente a livelli di produzione sempre peggiori. Già Kierkegaard diceva dei giornalisti: «Non conoscono limiti, perché possono scendere sempre più in basso nella scelta dei lettori». E alla scusante che molti dirigenti televisivi adottano per motivare la scelta dei palinsesti – ossia che si cerca di soddisfare i gusti della gente – aveva già risposto Popper: «dobbiamo offrire al pubblico ciò che vuole? […] Come se si potesse sapere quello che la gente vuole dalle statistiche sugli ascolti delle trasmissioni. Quello che possiamo ricavare da lì sono soltanto indicazioni circa le preferenze tra produzioni che sono state offerte. Guardando quei numeri non possiamo sapere… che cosa la gente sceglierebbe se ricevesse proposte diverse».

I più si domandano se non sia giunto il momento di smetterla con la “televisione di Stato”. Se non la si debba smantellare per farla diventare un’azienda privata, sottoponendola alla concorrenza del libero mercato. Qui mi si permetta di esprimere il mio disaccordo, in quanto, pur essendo favorevole alla più ampia competizione tra televisioni commerciali – senza posizioni dominanti – sono però dell’avviso che il servizio pubblico svolga funzioni essenziali e non residuali. Scrive von Hayek: «Riteniamo indispensabile che in una società avanzata il governo debba usare il proprio potere di raccogliere fondi per offrire una serie di servizi che per varie ragioni non possono essere forniti – o non possono esserlo in modo adeguato – dal mercato». Tra questi servizi annoveriamo il rispetto della legge, la difesa dai nemici esterni, la politica estera, gli interventi in caso di calamità naturali e così via. La concezione liberale della società non comporta una negazione dello Stato. Tutt’altro. Comporta però la negazione di qualsiasi monopolio, pubblico o privato che sia, compreso ovviamente il monopolio dell’informazione. Vanno preservate solo funzioni essenziali dello Stato. E allora: quali sarebbero le funzioni essenziali (da non intendersi minimali) del servizio pubblico radio-televisivo?
È mia opinione che la prima di queste funzioni è la più rigorosa salvaguardia del pluralismo politico. Il servizio pubblico è giustificabile proprio sulla base del principio di sussidiarietà: dovrà fare quelle cose di pubblica utilità che le TV commerciali non sono istituzionalmente deputate a fare. Se la televisione commerciale può non farsi carico della difesa del pluralismo politico, o di quello culturale, perché il suo legittimo scopo istituzionale consiste nella conquista dell’audience, la televisione di servizio pubblico dovrebbe invece salvaguardare i diritti dei cittadini e, in particolare, delle minoranze indifese. E se, d’altro canto, democrazia si ha laddove esistono istituzioni che permettono il controllo dei governati sui governanti, ha ben ragione Carlo Azeglio Ciampi nel dire che obiettivo della televisione di Stato è «la creazione di un’opinione pubblica critica e consapevole, che eserciti il suo controllo sull’operato di chi amministra la cosa pubblica e che sia ispirazione per le scelte che a diversi livelli incidono sulla vita dei cittadini».

La questione più urgente, dunque, consiste nella costruzione di un regolamento in grado di stabilire, qualora esistano, le funzioni del servizio pubblico radiotelevisivo e di staccarlo non dalla politica, ma dal dominio dei partiti di volta in volta al potere e, insieme, dalla tirannia dell’audience. Se sarà la politica a controllare il sistema informativo, e non viceversa, saremmo condannati in perpetuo ad assistere ai conflitti tribali di gruppi di servi famelici che sbraitano per avere più ossi mediatici da azzannare. Ed ecco allora il secondo problema: è auspicabile un pluralismo di testate o un pluralismo all’interno delle testate? Credo che il secondo sia la vera conquista del liberalismo: senza un pluralismo all’interno delle trasmissioni, queste si configurano e si configureranno come tanti minareti da cui altrettanti muezzin proclamano le loro “inconfutabili” verità.

Nell’epoca della globalizzazione, poi, una funzione irrinunciabile del servizio pubblico dovrebbe consistere nell’affiancare la scuola nel costruire i tratti di fondo della nostra tradizione: solo sapendo chi siamo e da dove veniamo potremmo seriamente dialogare e confrontarci con le culture “altre”. Soltanto una legittimazione morale e culturale può giustificare il pagamento di un canone, così come paghiamo le tasse per la giustizia, per la politica estera, per la difesa.
Sia chiaro: abbiamo fin qui parlato di servizio pubblico e non di servizio a questo o quel partito, a questo o a quel leader governativo. La televisione di Stato non va assegnata ai partiti o al governo. Dovrebbe piuttosto essere un’istituzione analoga alla Banca d’Italia: al servizio del cittadino e indipendente dai partiti o dal governo. Un’istituzione legata, per esempio, alla Corte Costituzionale ovvero che si strutturi come una fondazione o una Onlus. O, meglio ancora, un’istituzione legata alla Presidenza della Repubblica.

Da cosa dipende esattamente la qualità di un servizio radiotelevisivo pubblico? La risposta ce la fornisce Jader Jacobelli, nel suo saggio Della qualità televisiva, dove sono indicati i valori che possono in concreto definire la qualità: «Nel campo dell’informazione, anzitutto, il pluralismo e l’imparzialità, cioè la pluralità delle opinioni e delle interpretazioni. Poi il controllo, quanto possibile incrociato, delle fonti; la chiarezza espositiva; la proprietà linguistica; l’impaginazione razionale ed equilibrata; la migliore corrispondenza testo-immagine; la compostezza e la gradevolezza degli annunciatori; la correttezza della loro dizione; la misura e il rispetto della privacy, soprattutto nel campo della cronaca nera; la sobrietà di certe immagini; la non insistenza in particolari di crudo realismo; la rielaborazione delle notizie nelle diverse edizioni dei telegiornali; il non abuso di spettacolarità; la precisione delle domande rivolte agli intervistati; il non protagonismo degli intervistatori […]. E poi c’è la qualità complessiva della programmazione […] che si concreta nella varietà dell’offerta, nell’equilibrio dei vari generi, nella giusta destinazione dei programmi».

 

 

 

 

 

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