Non
andrebbe mai dimenticato che la televisione è
maestra e che – come sostenuto da J.
Baudrillard – i comportamenti di coloro che
appaiono sullo schermo vengono percepiti in larga
misura come normativi. La questione più
urgente, dunque, è chiedersi se la televisione
sia buona o cattiva maestra. Ed è
chiaro che andare ad ogni costo a caccia dell’audience
porterà inevitabilmente a livelli di produzione
sempre peggiori. Già Kierkegaard diceva dei
giornalisti: «Non conoscono limiti, perché
possono scendere sempre più in basso nella
scelta dei lettori». E alla scusante che molti
dirigenti televisivi adottano per motivare la scelta
dei palinsesti – ossia che si cerca di soddisfare
i gusti della gente – aveva già risposto
Popper: «dobbiamo offrire al pubblico ciò
che vuole? […] Come se si potesse sapere quello
che la gente vuole dalle statistiche sugli ascolti
delle trasmissioni. Quello che possiamo ricavare da
lì sono soltanto indicazioni circa le preferenze
tra produzioni che sono state offerte. Guardando quei
numeri non possiamo sapere… che cosa la gente
sceglierebbe se ricevesse proposte diverse».
I più si domandano se non sia giunto il momento
di smetterla con la “televisione di Stato”.
Se non la si debba smantellare per farla diventare
un’azienda privata, sottoponendola alla concorrenza
del libero mercato. Qui mi si permetta di esprimere
il mio disaccordo, in quanto, pur essendo favorevole
alla più ampia competizione tra televisioni
commerciali – senza posizioni dominanti –
sono però dell’avviso che il servizio
pubblico svolga funzioni essenziali e non
residuali. Scrive von Hayek: «Riteniamo indispensabile
che in una società avanzata il governo debba
usare il proprio potere di raccogliere fondi per offrire
una serie di servizi che per varie ragioni non possono
essere forniti – o non possono esserlo in modo
adeguato – dal mercato». Tra questi servizi
annoveriamo il rispetto della legge, la difesa dai
nemici esterni, la politica estera, gli interventi
in caso di calamità naturali e così
via. La concezione liberale della società non
comporta una negazione dello Stato. Tutt’altro.
Comporta però la negazione di qualsiasi monopolio,
pubblico o privato che sia, compreso ovviamente il
monopolio dell’informazione. Vanno preservate
solo funzioni essenziali dello Stato. E allora: quali
sarebbero le funzioni essenziali (da non intendersi
minimali) del servizio pubblico radio-televisivo?
È mia opinione che la prima di queste funzioni
è la più rigorosa salvaguardia del pluralismo
politico. Il servizio pubblico è giustificabile
proprio sulla base del principio di sussidiarietà:
dovrà fare quelle cose di pubblica utilità
che le TV commerciali non sono istituzionalmente deputate
a fare. Se la televisione commerciale può non
farsi carico della difesa del pluralismo politico,
o di quello culturale, perché il suo legittimo
scopo istituzionale consiste nella conquista dell’audience,
la televisione di servizio pubblico dovrebbe invece
salvaguardare i diritti dei cittadini e, in particolare,
delle minoranze indifese. E se, d’altro canto,
democrazia si ha laddove esistono istituzioni che
permettono il controllo dei governati sui governanti,
ha ben ragione Carlo Azeglio Ciampi nel dire che obiettivo
della televisione di Stato è «la creazione
di un’opinione pubblica critica e consapevole,
che eserciti il suo controllo sull’operato di
chi amministra la cosa pubblica e che sia ispirazione
per le scelte che a diversi livelli incidono sulla
vita dei cittadini».
La questione più urgente, dunque, consiste
nella costruzione di un regolamento in grado di stabilire,
qualora esistano, le funzioni del servizio pubblico
radiotelevisivo e di staccarlo non dalla politica,
ma dal dominio dei partiti di volta in volta al potere
e, insieme, dalla tirannia dell’audience. Se
sarà la politica a controllare il sistema informativo,
e non viceversa, saremmo condannati in perpetuo ad
assistere ai conflitti tribali di gruppi di servi
famelici che sbraitano per avere più ossi mediatici
da azzannare. Ed ecco allora il secondo problema:
è auspicabile un pluralismo di testate o un
pluralismo all’interno delle testate? Credo
che il secondo sia la vera conquista del liberalismo:
senza un pluralismo all’interno delle trasmissioni,
queste si configurano e si configureranno come tanti
minareti da cui altrettanti muezzin proclamano le
loro “inconfutabili” verità.
Nell’epoca della globalizzazione, poi, una
funzione irrinunciabile del servizio pubblico dovrebbe
consistere nell’affiancare la scuola nel costruire
i tratti di fondo della nostra tradizione: solo sapendo
chi siamo e da dove veniamo potremmo seriamente dialogare
e confrontarci con le culture “altre”.
Soltanto una legittimazione morale e culturale può
giustificare il pagamento di un canone, così
come paghiamo le tasse per la giustizia, per la politica
estera, per la difesa.
Sia chiaro: abbiamo fin qui parlato di servizio pubblico
e non di servizio a questo o quel partito, a questo
o a quel leader governativo. La televisione di Stato
non va assegnata ai partiti o al governo. Dovrebbe
piuttosto essere un’istituzione analoga alla
Banca d’Italia: al servizio del cittadino e
indipendente dai partiti o dal governo. Un’istituzione
legata, per esempio, alla Corte Costituzionale ovvero
che si strutturi come una fondazione o una Onlus.
O, meglio ancora, un’istituzione legata alla
Presidenza della Repubblica.
Da cosa dipende esattamente la qualità
di un servizio radiotelevisivo pubblico? La risposta
ce la fornisce Jader Jacobelli, nel suo saggio Della
qualità televisiva, dove sono indicati
i valori che possono in concreto definire la qualità:
«Nel campo dell’informazione, anzitutto,
il pluralismo e l’imparzialità, cioè
la pluralità delle opinioni e delle interpretazioni.
Poi il controllo, quanto possibile incrociato, delle
fonti; la chiarezza espositiva; la proprietà
linguistica; l’impaginazione razionale ed equilibrata;
la migliore corrispondenza testo-immagine; la compostezza
e la gradevolezza degli annunciatori; la correttezza
della loro dizione; la misura e il rispetto della
privacy, soprattutto nel campo della cronaca nera;
la sobrietà di certe immagini; la non insistenza
in particolari di crudo realismo; la rielaborazione
delle notizie nelle diverse edizioni dei telegiornali;
il non abuso di spettacolarità; la precisione
delle domande rivolte agli intervistati; il non protagonismo
degli intervistatori […]. E poi c’è
la qualità complessiva della programmazione
[…] che si concreta nella varietà dell’offerta,
nell’equilibrio dei vari generi, nella giusta
destinazione dei programmi».
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