
Nessuno
se lo sarebbe immaginato. Neanche lo stesso premier
José Maria Aznar che, dopo otto anni di “buon
governo”, aveva deciso di passare il testimone
politico al delfino, Mariano Rajoy, per portare a casa
“la continuità, altri 4 anni di sicurezza
nel lavoro, nella politica, nel mondo, grazie al centro
destra”. Le elezioni politiche del 14 marzo del
2004 dovevano essere una passeggiata per il
Partido
Popular. A suo favore parlavano i numeri: economia
in forte ascesa con un prodotto interno lordo cresciuto
mediamente del 3% l’anno, quasi 4 milioni e mezzo
di posti di lavoro creati, il tasso di disoccupazione
sceso dal 20% all’11%, il reddito pro capite spagnolo
passato dal 78,2% del 1995 all’87% del 2003 e,
infine, tre riforme fiscali in grado di abbassare sensibilmente
il prelievo dell’irpef sui redditi medio bassi.
Un successo.
D’altra parte che Aznar avesse fatto bene alla
vigilia delle elezioni era opinione diffusa. Come
ricorda Juan Pablo Fusi, storico dell’Università
Complutense e osservatore dell’evoluzione politica
iberica: “La verità è che Aznar
fu molto sottostimato all’inizio. Il grigiore,
l’apparenza mediocre, la provenienza dall’alta
dirigenza delle Finanze, sbattevano contro il carisma
di Felipe Gonzalez, uno dei più esperti premier
d’Europa, orgoglio per una nazione che cercava
riscatto. Si è rivelato invece un uomo con
forte senso di autorità, un buon tattico, bravissimo
nell’uso dei tempi della politica. Un carattere
efficiente, duro, molto tecnico che lascia dietro
di sé un’esperienza positiva”.
Un giudizio quest’ultimo condiviso da diversi
editorialisti e, in Italia, perfino la Repubblica,
quotidiano che ha spesso criticato l’operato
del leader spagnolo è costretta ad ammettere
che il premier lascia “dopo due mandati un paese
più ricco e forte e per questo gli avversari
lo rispettano”. Nel reportage scritto
da Sandro Viola si legge: “La prova che il grigiastro,
ex ispettore delle Finanze, il signor nessuno abbia
ben governato, la ho in questi giorni a Madrid quando
leggo sui giornali che i sondaggi sul voto del 14
marzo danno la vittoria al centro destra. Perché
un anno fa il centro destra sembrava spacciato. Gli
spagnoli che nel febbraio del 2003 si dichiaravano
contrari alla guerra in Iraq e, quindi, avversi alla
politica del governo Aznar (una politica di pieno
appoggio agli Stati Uniti e alla guerra) era infatti
il 92%. Non il 60, il 70, il 75: erano il 92. Eppure
quell’avversione sembra adesso essersi sciolta
come neve al sole. Le imponenti manifestazioni pacifiste
che la sinistra portò in strada un anno fa
non hanno provocato spostamenti decisivi nelle intenzioni
dell’elettorato. I sondaggi indicano che dovendo
scegliere tra pacifismo e qualità del governo,
gli spagnoli sono orientati a scegliere la seconda”.(la
Repubblica, 26 febbraio 2004).
Tutta la stampa è d’accordo:
Aznar è stato punito
Eppure non è stato così. Gli spagnoli
tra la qualità del governo e il pacifismo,
alla fine hanno scelto quest’ultimo. Ma per
un evento eccezionale, che nessuno, neanche Aznar,
aveva messo in conto. Il terrorismo internazionale.
Un colpo al cuore, l’11 marzo, a tre giorni
dal voto, dieci bombe alla stazione ferroviaria di
Atocha costano la vita a 201 persone. Le immagini
di quell’attentato fanno il giro del mondo e
portano in strada a Madrid oltre 2 milioni di persone.
Il governo sbaglia completamente la strategia di comunicazione
e, per bocca del ministro dell’Interno, Angel
Acebes, si accusa subito l’Eta, l’organizzazione
terroristica basca. Ma bastano poche ore per capire
che quel gesto folle, inspiegabile, era opera di una
banda di criminali legati ad Al-Qaeda. La Spagna pagava,
in pratica, l’alleanza e la fedeltà agli
Stati Uniti per la guerra in Iraq. E le elezioni del
14 marzo diventano un successo inaspettato per il
leader del partito socialista, José Luis Rodriguez
Zapatero.
Un capovolgimento inatteso perfino dalla stampa spagnola.
Prima del voto, dal Mundo, all’Abc,
al Periodico, perfino La Vanguardia di solito
assai scettica con il premier, davano per sicura la
vittoria dei popolari. L’attentato terroristico
e, soprattutto, la pessima comunicazione, hanno fatto
cambiare opinione non solo ai quotidiani comunque
ostili al premier, basti pensare al filo-socialista
El Paìs che per otto anni è
stato all’opposizione del governo Aznar, ma
addirittura ai giornali amici e governativi come El
Mundo che in una vignetta in prima pagina il
giorno dopo la sconfitta sentenziava: “Un calcio
ad Aznar nel sedere di Rajoy”. Un epitaffio
quello scelto dal quotidiano diretto da Pedro J. Ramirez
che ha messo tutti d’accordo: lo sconfitto infatti
non è stato Rajoy il delfino di Anzar ma l’ex
premier in persona. In un editoriale, sempre sullo
stesso giornale, il messaggio è ancora più
evidente: “La menzogna, ovvero il fastidioso
spettacolo di un’impacciata informazione sugli
autori dell’attentato con l’insistente
proposizione dell’Eta anche dinanzi a elementi
chiari che suggerivano Al-Qaeda ha offeso il sentimento
di dolore del popolo”. El Paìs
è sulla stessa lunghezza d’onda: “Con
quella menzogna Aznar ha riproposto l’immagine
meno piacevole della sua ultima legislatura, quella
in cui il Governo, forte di una maggioranza assoluta,
era apparso troppo arrogante, anche per aver ignorato,
con protervia, la volontà popolare contraria
al conflitto in Iraq”.
Senza pregiudizi e senza entusiasmi,
El Mundo si avvicina a Zapatero
Una condanna unanime da parte dei quotidiani madrileni.
Così, stranamente, diventa quasi un coro universale
l’appoggio al neo presidente che, come primo
atto ufficiale, come promesso durante la campagna
elettorale, ritira il contingente spagnolo dall’Iraq.
E lo stesso Zapatero sceglie come primo giornale a
cui concedere un’intervista ufficiale il quotidiano
un tempo nemico, oggi non più, El Mundo.
Il 24 aprile del 2004 incorniciato in una foto gigante
in prima pagina annuncia che è pronto “a
fare del suo mandato un esempio di democrazia nelle
regole e nei comportamenti”, questo perché
“il giorno in cui lascerò l’incarico
mi piacerebbe che di me si dicesse che non sono cambiato
come persona e per evitare gli errori dell’ultimo
governo socialista sceglierò personalmente
uomini dall’indubbia capacità etica e
morale”. Non deve meravigliare comunque che
il giornale più filo-Aznar alla fine sia diventato
quasi la spalla del nuovo presidente. El Mundo
infatti in questi anni ha visto crescere tra i suoi
soci, fino ad averne la quasi totalità nella
gestione, Rcs Media Group che controlla l’89%
di Unidad Editorial, la società editrice del
giornale spagnolo. D’altra parte è lo
stesso direttore, Ramirez ad ammettere “che
bisogna giudicare il nuovo presidente dal suo operato,
senza pregiudizi e senza facili entusiasmi”.
Alla ricerca della
memoria collettiva
Un premier che sta già disegnando una nuova
Spagna, più laica e più liberale rispetto
alle grandi problematiche etiche e sociali. Come sul
divorzio, dove un progetto approvato dal Consiglio
dei ministri, ne sveltirà i tempi in appena
due mesi, eliminando la separazione. O ancora l’aborto:
dove è prevista una completa liberalizzazione
già nelle prime settimane, e l’eutanasia
con la proposta di non penalizzare chi vuole scegliere
di non continuare a vivere in condizioni disumane.
Tutto questo, insieme alla “madre di tutte le
riforme”: il riconoscimento dei matrimoni tra
omosessuali. Temi che scuotono le coscienze, che fanno
infuriare i vertici della Chiesa e della cattolicissima
Spagna ma che hanno trovato l’appoggio della
quasi totalità dei media, primo fra tutti El
Paìs e di una buona parte della popolazione.
Come spiega Jesus Ceberio, direttore del giornale
madrileno: “Zapatero è il primo politico
spagnolo che arriva al governo senza avere vissuto
l’esperienza della transizione post franchista
e dunque senza la paura dei politici che lo hanno
preceduto e che hanno vissuto questa transizione:
la paura cioè dei militari da un lato e dalla
Chiesa dall’altro, che sono sempre stati elementi
particolarmente condizionanti nella società
spagnola. Zapatero era un adolescente all’epoca
della transizione, è un prodotto della democrazia
spagnola e credo che sia un uomo molto sensibile a
tutte le questioni che riguardano l’eguaglianza
dei sessi, i diritti delle donne, le libertà
civili, le libertà degli omosessuali”.
Un premier che gode dell’appoggio della carta
stampata anche quando decide di aprire forse la pagina
più dura e triste del popolo spagnolo: quella
della guerra civile che dal 1936 al ’39 è
costata oltre un milione di vittime. Quattro anni
durissimi che saranno analizzati da una Commissione
d’inchiesta parlamentare che dovrà stabilire
i risarcimenti per i familiari delle vittime. “Una
vicenda delicata” ha scritto il sociologo Victor
Perez Diaz in un articolo per il Corriere della
Sera: “Durante la guerra civile i morti
assassinati dietro le linee del fronte furono numerosi
da entrambi le parti. I loro resti si accumularono,
in alcuni casi, in fosse comuni e anonime. Si tratta
di estrarli dalla terra di nessuno (…). Per
il momento siamo di fronte a un fenomeno complesso
con un nucleo morale ed emotivo ammirevole, quale
è quello di rendere onore ai morti per ricostruire
una comunità politica morale che è sempre
stata, e continuerà a essere, ossessionata
dal ricordo della guerra. Riconosciuta la validità
di questo nucleo, bisogna domandarsi quali sono le
condizioni affinché questi onori funebri compiano
la propria funzione rituale, civica, di giustizia
e di riconciliazione, e non siano soggetti a usi incivili,
ideologici e partitici. La polarizzazione ideologica
che minaccia oggi tutti i Paesi occidentali si presenta
in ognuno di essi con caratteristiche diverse, che
riflettono la loro esperienza storica. Ci troviamo,
però, in un momento in cui abbiamo bisogno
di consolidare il nostro sentimento di identità
collettiva. Gli onori ai nostri morti dovrebbero aiutarci
a rafforzare la nostra comunità, non a romperla”.
Ed è ciò a cui è chiamato a rispondere
il governo Zapatero nei prossimi anni e, con lui,
il giornalismo spagnolo, che per molti, forse troppi
anni, ha dimenticato di costruire una memoria collettiva
intorno alle vittime della guerra civile.
Questo articolo è tratto dalla postfazione
del libro L’Europa di carta. Guida alla
stampa estera, di Giancarlo Salemi, recentemente
apparso in libreria in una nuova edizione riveduta
e ampliata, edito da Franco Angeli nella collana “Studi
e ricerche di storia dell’editoria” diretta
da Franco Della Peruta e Anna Gigli Marchetti.
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