Qualcosa
si è rotto. La carta stampata europea sembra
oramai priva di un vero orientamento, arranca tra crisi
editoriali e spregiudicate rincorse ai temi e ai linguaggi
televisivi. Il grande salto nel vuoto è cominciato
con l’attentato dell’11 settembre alle Torri
Gemelli di
New York. Si è entrati nella
storia in diretta, vivendo in tempo reale gli
avvenimenti, dagli Stati Uniti al Medio Oriente fino
alla tragedia nella scuola di Beslan, nell’Ossezia.
Un grande circuito rumoroso ha scomposto e scompaginato
i giornali tradizionali, quelli abituati alle analisi,
al ragionamento, “alla lettura dei fatti”.
Di fronte al pericolo del terrorismo internazionale,
di una possibile terza guerra mondiale come l’ha
definita con un punto di domanda qualche commentatore,
dello scatenarsi di una violenza assurda secondo i principi
etici e di democrazia dell’Occidente, il giornalismo
europeo si è scoperto vulnerabile, impaurito,
privo di quello slancio vitale, come direbbe Henry Bergson,
necessario per reagire e proporre. Giornali che diventano
sempre più compact, come la scelta operata nel
Regno Unito dal
Times e dall’
Independent
e in Germania da
Die Welt, a caccia di nuovi
lettori, molti per la verità inesistenti, puntando
sempre più all’immagine, alla vetrina,
piuttosto che alla valorizzazione testuale. Un’informazione
fast food come l’ha definita il cattedratico
dell’Università di Navarra, Carlos Barrera
che ha finito per assimilare il peggio del giornalismo
americano “caratterizzato da anni da un’informazione
globale, veloce, ma soprattutto ripetitiva nelle immagini
e prevedibile nei temi, sempre più influenzati
dalla logica dello spettacolo”. Al punto che proprio
dall’altra parte dell’oceano arriva la profezia
di un grande studioso, Dan Gillmor, che, nel suo ultimo
saggio
We the Media: Grassroots Journalism by the
People, for the People, dichiara senza mezzi termini
che, grazie alle nuove tecnologie e ai nuovi linguaggi
“il giornalismo tradizionale, in grado di gerarchizzare
l’informazione, non esiste più. Oggi è
il lettore che cerca le news di cui ha bisogno e, nel
contempo, diventa lui stesso un vero reporter”.
Ma non è solo una questione di linguaggi.
Alcuni quotidiani in questi anni hanno infranto dei
veri e propri tabù se si pensa che in Francia
monumenti dell’informazione come Le Monde
e Le Figaro si piegano alle leggi del mercato
e arrivano nelle edicole accompagnati da film, cd
e dvd. Un evento inatteso perfino per i commentatori
d’oltralpe. Altri giornali, poi, non sanno prevedere
né spiegare perché dei treni in corsa
esplodono in una fredda mattina di marzo nella stazione
di Madrid provocando la morte di 201 persone innocenti.
Una strage capace di mutare perfino l’esito,
quasi scontato, delle elezioni politiche.
Questa stampa non sa stare più dietro gli
avvenimenti. In fondo, rispecchia un malessere generale
e generazionale che si respira nel Vecchio Continente.
L’Europa appare come un gigante immobile che
non riesce a crescere nell’economia, che poco
ha creduto nella Costituzione e nelle riforme sociali,
che con l’euro, una moneta che ancora oggi in
pochi sentono propria, ha fortemente indebolito il
potere d’acquisto delle famiglie, così
come non è riuscita nel campo della difesa
a dotarsi di un esercito unico e non ha saputo fronteggiare
il tema dei clandestini e di quella grande risorsa
di idee, culture e lavoro che è invece l’immigrazione
regolare. Se l’Europa è ferma, anche
il giornalismo che ne è la riproduzione più
fedele, una sorta di “storia quotidiana”
non sa più che direzione imboccare. Perché
anche quei pochi punti fermi nel nostro immaginario
stanno lentamente scomparendo. Come in Francia, terra
dell’illuminismo di Voltaire, Diderot e dei
diritti dell’uomo e delle libertà, dove
si vieta alle donne islamiche di indossare il loro
copricapo. In Spagna dove il socialismo da reale diventa
realista e autorizza il matrimonio tra coppie omosessuali
e perfino l’adozione di minori. O, senza scomodare
i grandi temi etici e politici, in Gran Bretagna dove,
a Londra, si decide per sempre di mandare in pensione
il famoso autobus a due piani, simbolo di un’Inghilterra
che non c’è più.
Forse un po’ come questo nostro giornalismo.
Questo articolo è tratto dalla postfazione
del libro L’Europa di carta. Guida alla
stampa estera, di Giancarlo Salemi, recentemente
apparso in libreria in una nuova edizione riveduta
e ampliata, edito da Franco Angeli nella collana “Studi
e ricerche di storia dell’editoria” diretta
da Franco Della Peruta e Anna Gigli Marchetti.
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