Vincenzo Zeno-Zencovich,
Libertà d’espressione. Media, mercato,
potere nella società dell’informazione,
Il Mulino, 2005, pp. 167, euro 11,50
Libertà di espressione: è sempre lecita
in tutte le sue forme e manifestazioni? A questo interrogativo,
che attraversa il recente volume di Vincenzo Zeno-Zencovich,
Libertà d’espressione. Media,
mercato, potere nella società dell’informazione,
l’autore risponde affermativamente: “La
manifestazione del pensiero è – o dovrebbe
essere – libera quale che sia il mezzo utilizzato,
e i mezzi sono infiniti”. Questa tesi non ha
alcuna natura provocatoria: al contrario, è
il risultato di un sofisticato ragionamento filosofico-giuridico
sulla natura dei divieti imposti alla libertà
di manifestare, sempre e comunque, la propria opinione.
Infatti “se si accetta l’idea che la libertà
di manifestazione del pensiero – come ogni libertà
– conosca dei limiti, appare necessario fornire
una organica e coerente loro giustificazione”
(pag. 21). Ma proprio questo tipo di giustificazione
è, secondo Zeno-Zencovich, assente in numerosi
casi che l’autore analizza singolarmente.
Tv e stampa, pari sono
È inaccettabile, sostiene Zencovich, che
si introducano discriminazioni tra i diversi generi,
libro sceneggiato, rotocalco, fumetto, etc, così
come tra modalità di diffusione di uno stesso
genere (tv tradizionale, satellite, via cavo, a pagamento).
In altre parole, né il genere né il
tipo di tecnologia possono incidere sulla giustificazione
normativa di un divieto. Per questo l’autore
contesta i limiti ai contenuti della programmazione
televisiva, come il divieto di mandare in onda taluni
programmi in alcune fasce orarie, sostenendo che a
nessuno verrebbe in mente di impedire la pubblicazione
di Lady Chatterley perché portatrice di conseguenze
nefaste sulla moralità dei singoli. Queste
considerazioni si basano inoltre sulla constatazione
che la «fruizione si atteggia sempre più
come accesso ad una banca dati di immagini e suoni,
il cui contenuto, la cui durata, il momento, il luogo
sono decisi di volta in volta con dagli utenti, in
maniera non dissimile di quando si sceglie un libro
o una rivista, si noleggia una videocassetta, si compra
o si scarica un brano musicale» (p. 55). In
questo senso, l’autore auspica che la disciplina
televisiva si avvicini all’editoria, estendendo
alla prima le libertà della seconda e affidandosi
unicamente a forme di autoregolamentazione individuale.
Nel libro si contestano anche le denunce relative
all’«abuso» di televisione e al
(presunto) cattivo influsso su bambini e adulti. Perché
mai, infatti, la televisione dovrebbe far male in
sé? Quali gli indicatori attendibili? A chi
spetta decidere qual è la parte buona e quella
cattiva della televisione? E nella quantità
non dovrebbero essere forse i singoli individui a
decidere, come per cibo e alcolici?
Un discorso analogo viene fatto per l’utilizzo
politico della tv. La tv influenza l’opinione
dei cittadini, si dice. Ma anche qui l’autore
si chiede perché solo per tale mezzo valga
la regolamentazione, e non per tanti altri fattori
che comunque incidono vistosamente sulle opinioni
dei singoli. Inoltre, Zeno-Zencovich individua la
vera fonte del conflitto di interessi non tanto nell’insufficienza
delle norme antitrust, quanto piuttosto nel fatto
che a dettare le regole sull’uso o il non uso
politico della tv è la stessa politica, e che
pertanto tali regole non saranno in nessun caso veramente
imparziali. Inoltre, sempre a proposito di regole
antitrust, si chiede quale sia la motivazione specifica
per la quale la stampa dovrebbe essere protetta più
che la televisione. Meglio anche qui, quindi, affidarsi
a una regolamentazione e a un uso responsabile del
mezzo.
Ancora, nel libro si contestano le rigide norme di
accesso alla professione giornalistica, non giustificate
da nessuna ragione di interesse pubblico. Contestata
è anche la logica stessa del servizio pubblico,
che avrebbe la sua ragion d’essere solo se quel
servizio non fosse presente nel mercato, cosa che
di fatto non è, visto che i servizi radiotelevisivi
non hanno costi eccessivi e sono facilmente duplicabili.
A riguardo della pubblicità, infine, l’autore
si interroga su chi e in base a quali criteri decida
perché un prodotto sia nocivo e quindi non
vada pubblicizzato: molte cose possono essere strumenti
distruttivi, e in questo senso le auto non sono certo
diverse dalle sigarette.
Un’ultima stoccata è poi rivolta ad
alcuni divieti legati eminentemente a ragioni storiche,
come ad esempio il reato di apologia di fascismo:
infatti, esso si motiva unicamente in base ad un giudizio
storico, e non giuridico. Eppure, aggiunge l’autore,
«chi negasse la rotazione della terra attorno
al sole sarebbe giudicato solo dall’opinione
pubblica e non da un tribunale» (p. 120).
Un ottimismo eccessivo?
Due sono le tesi che fanno da sfondo al volume.
La prima è che «l’importanza della
libera manifestazione dovrebbe portare a ridurre al
minimo gli interventi esterni, che dovrebbero essere
giustificati dal conseguimento di risultati altrimenti
non raggiungibili. (p. 109). La seconda risiede nel
rifiutare l’idea che «il consumatore di
idee sia diverso dal consumatore di prodotti materiali,
e cioè che in questo secondo caso sappia orientarsi
da solo diversificando le sue scelte, mentre nel primo
subisca un’irresistibile attrazione verso un’unica
idea, che solo la mano visibile dell’intervento
statale può – per il solo benessere intellettuale
– impedire» (p. 45): in questo senso l’autore
rifiuta nettamente l’«invadente paternalismo»
dello stato nel “mercato” delle idee,
che appare ai suoi occhi del tutto ingiustificato.
Il volume vuole fornire un’analisi attenta
del sistema complessivo delle libertà, che
mostri come la libertà di manifestazione del
pensiero sia parte di un fascio di libertà
strettamente connesse tra di loro. Infatti, «è
l’insieme che va visto nei suoi nessi, non solo
per stabilire qual è lo stato della libertà
di espressione, ma anche per comprendere in che direzione
essa si stia muovendo» (p. 162). Una visione
complessiva e comparata permette di rendere manifeste
le ragioni della frastagliata regolamentazione nel
campo della radiotelevisione e della pubblicità,
«per consentirne il controllo e ridurne l’arbitrarietà».
Il che, aggiunge l’autore, «non significa
condividerle tutte, ma solo comprenderle meglio»
(p. 163).
Certamente è possibile condividere questo
tipo di approccio, che rivendica la necessità
di una giustificazione normativa alle limitazioni
della libertà di espressione: queste ultime
infatti, proprio in quanto hanno effetti sempre pesanti
sulle vite dei singoli, devono essere animate da medesimi
criteri, per evitare ingiustizie e anacronismi. In
questa prospettiva, è certamente vero che è
meglio non avere nessun divieto piuttosto che cattivi
divieti.
Tuttavia, la tesi, tutta liberale, dell’autoregolamentazione
dei singoli pecca forse di eccessivo ottimismo, e
nasconde una immagine dell’uomo come individuo
adulto anzitutto, razionale, pienamente consapevole
e refrattario a ogni forma di condizionamento nascosto:
si tratta di una immagine poco realistica, che rischia
di lasciare senza protezione le persone più
indifese, come i minori o chi non possieda le capacità
culturali o psichiche per attuare quella forma di
autoregolamentazione che l’autore così
frequentemente invoca.
Più in generale, un rilievo critico che si
può muovere al libro è quello di operare
un ragionamento su un piano neutro, avulso da riferimento
alle concrete situazioni storiche: così, ad
esempio, il rifiuto dell’autore di alcuni divieti
in quanto motivati da drammatici eventi storici come
lo sterminio degli ebrei può in parte essere
contestato, e non perché non tutti i divieti
debbano essere motivati, quanto piuttosto in virtù
del fatto che spesso sono proprio le ragioni storiche
a fornire quella legittimazione normativa di cui le
regole hanno sempre bisogno. La fonte della normatività,
come molti filosofi contemporanei hanno mostrato,
può risiedere anche nella stessa esperienza
storica: questo è il caso ad esempio della
tradizione di common law anglosassone, ma
anche delle Costituzioni, che sono riflettono sempre
e profondamente la società e il momento storico
nel quale esse sono nate.
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