Milly Buonanno
Visibilità senza potere.
Le sorti progressive ma non
magnifiche delle donne giornaliste italiane,
Liguori Editore, pp.123, euro 12,5
Se chiedessimo quali sono i volti di giornalisti
che la gente comune (e non solo) associa alla guerra
irachena, avremmo certamente l’impressione che
il giornalismo sia ormai saldamente in mano alle donne,
e a donne sicure di sé, della propria femminilità
ma soprattutto delle proprie idee e competenze.
La realtà è molto diversa, secondo Milly
Buonanno, docente di Sociologia della comunicazione
a Firenze, che da venticinque anni segue con passione
e finezza il mondo del giornalismo femminile. La visibilità
femminile è reale, ma è una visibilità
priva di potere: questa la tesi di fondo, che fa anche
da titolo, al volume Visibilità senza potere.
Le sorti progressive ma non magnifiche delle donne
giornaliste italiane (Liguori Editore).
Così se, come scrive Miriam Mafai nella prefazione
al libro, è vero che “la femminilizzazione
del giornalismo italiano è un fatto”,
per cui le donne sono finalmente presenti non solo
nei tradizionali settori del costume e dello spettacolo,
in cui erano state relegate,ma anche nei più
decisivi campi della politica, dell’economia
e della cultura, tuttavia i dati a disposizione parlano
chiaro. E la realtà che raccontano è
fatta di disparità evidenti, direttamente proporzionali
al livello di carriera: se è pur vero che la
percentuale complessiva delle donne giornaliste è
passata dal dieci per cento degli anni Settanta al
quasi trenta di oggi, dati del 2001 relativi ai quotidiani,
vera cartina di tornasole dei rapporti di potere (per
i periodici i dati sono diversi, vista l’alta
percentuali di riviste femminili: che, se pure sono
molto diffusi, non incidono sull’opinione delle
élite detentrici del potere politico ed economico),
mostrano come nel ruolo di direttore e di vicedirettore
la percentuale femminile sia del 2 per cento, quella
di caporedattore e vicecaporedattore rispettivamente
dell’8 e 9 per cento, quella di caposervizio
e vicecaposervizio del 12 e 20 per cento. In altre
parole, le statistiche infrangono quello che la studiosa
Marjorie Ferguson ha a suo tempo definito come il
“mito ottimistico”, secondo cui l’ingresso
di un gran numero di donne nella professione giornalistica
avrebbe prodotto rapidi mutamente anche nella distribuzione
del potere.
In ogni caso, si tratta di dati che non stupiscono
chi è abituato a vedere tutte le cariche pubbliche,
dai politici ai professori universitari, ricoperte
da uomini in percentuali ancora più schiacciante
di quelle di paesi considerati poveri e sottosviluppati,
e che ci pongono ultimi in Europa quanto a presenza
femminile sul lavoro e in particolare nei ruoli di
potere. Eppure, come nota l’autrice con un filo
di rammarico, è difficile trovare, tra le giornaliste,
voci invocanti una qualche prospettiva di genere.
“C’è in parte il comprensibile
timore di risvegliare una ormai insopportabile cultura
del lamento, o di non riuscire a sollevarsi dal piano
di una pur legittima rivendicazione di pari opportunità,
ma in molte c’è la percezione fastidiosa
di una questione arretrata, o superata, o che semplicemente
non esiste. Senza alcun rimpianto per la stagione
movimentista o per le mitologie palingenetiche dell’informazione
salvata o almeno trasformata dalle donne, provo a
ricordare con questo libro che sulla presenza femminile
nel giornalismo c’è ancora, sotto molti
aspetti, da dire e soprattutto da comprendere”
(p. XV).
La parte più interessante del volume risiede
invece nella ricerca delle cause che producono la
disparità. Cause che l’autrice, dotata
di una scrittura suggestiva, non ricerca saggiamente
solo in ragioni di tipo oggettivo, strutturale, ma
anche e soprattutto di tipo culturale. Ancora più
interessante è notare come la Buonanno indaghi
soprattutto le ragioni più profondamente soggettive
tra le giornaliste, quelle di tipo psichico, così
determinanti nell’autoaffermazione e nel successo.
Tra le ragioni oggettive, l’autrice individua
la natura del nostro tipo di giornalismo, caratterizzato
dall’orientamento elitista e dal primato della
politica, laddove il giornalismo popolare non ha mai
preso piede. Un secondo motivo risiede nei meccanismi
che permettono l’accesso alla professione, di
tipo cooptativo: se pure è vero infatti che
i canali familiari e politici hanno talvolta funzionato
da meccanismi di egualizzazione sociale e sessuale
delle opportunità, tuttavia, in generale, un
giornalismo indifferente alla selezioni meritocratica
ha finito per penalizzare le donne (ed è per
questo che le donne affollano le scuole di giornalismo,
nella speranza di trovare una forma di accesso svincolata
da logiche di potere).
Un ulteriore e significativo fattore che provoca
rinunce di carriera e abbandoni della professione
da parte delle donne risiede nella “difficile
conciliabilità di un mestiere ‘saturante’
e relativamente sregolato nelle scansioni temporali,
con compiti femminili di gestione della vita domestica,
di accadimento e cura dei membri della famiglia”
(p. 10). La doppia presenza è avvertita come
faticosissima, e spesso lavorare è possibile
solo a prezzo di una drammatica rinuncia al privato.
Ma veniamo alle ragioni di tipo culturale e psicologico.
Le componenti delle corti post-anni Settanta vivono
certamente il giornalismo in maniera nuova e innovativa,
senza avvertirlo come “necessariamente sacrificale
e dimidiante”. E questo produce, secondo l’autrice,
“una minore affannosità e insicurezza
o, per volgere le cose in positivo, una disposizione
più calma, risoluta e autoconfidente delle
donne giornaliste nello svolgimento del proprio lavoro,
e una qualche drammatizzazione del conflitto tra vita
professionale e vita familiare” (p. 21).
L’autrice divide originalmente le giornaliste
in quattro categorie: le grandi emancipate,
o pioniere, che hanno esordito negli anni Cinquanta
e Sessanta, vivendo avventure solitarie e durissime
in termini di sacrifici personali; le politiche,
o innovatrici, una leva di giornaliste entrate nella
seconda metà degli anni Settanta, provenienti
da esperienze di militanza e di stampa politica e
di movimento; le neo-emancipate, leve giornalistiche
degli anni Ottanta, motivate, competenti e competitive;
infine, le ultime arrivate, che sfuggono
ad ogni identificazione precisa e ancora invisibili
sebbene costituiscano la metà delle giornaliste
complessive.
Tuttavia, sostiene l’autrice, per accedere
ai posti di comando bisogna volerlo, ed essere disposti
ad entrare nell’arena della competizione. Ma
la gran parte delle giornaliste oggi cinquantenni,
le cosiddette politiche, si è astenuta dalla
competizione, non certo per mancanza di capacità
di competere, ma perché avversa alle regole
del gioco elaborate dai maschi e quindi contrarie,
a volte con venature ideologiche, alla competizione
per la carriera. Diverse le motivazioni: “il
rifiuto degli aspetti sporchi e duri del comando,
il dis-gusto della gestione dei conflitti, l’insofferenza
del carico delle responsabilità e delle decisioni”,
ma anche, oltre alla scelta di preservare spazi e
equilibri di vita impossibili a livelli alti, una
“imputazione valorial ‘difforme’
e anticonformista, secondo la quale conta di più
acquisire autorevolezza e prestigio che potere, ed
è assai più gratificante e autorealizzativo
scrivere che dettare e distribuire i temi di cui altri
scriveranno” (p. 35). In questo senso, secondo
l’autrice, le donne non utilizzano quella categoria
dell’auto-esclusione su cui l’identità
femminile è stata socialmente costruita: la
scelta di restare fuori è piuttosto il frutto
di una valutazione strategica sui costi e i benefici
della carriera, «i quali, ove eventualmente
– ma non troppo probabilmente – fossero
stati coronati da successo, avrebbero comportato la
vera rinuncia delle prerogative predilette dalle donne,
e di certo da una generazione colta e intellettualizzata:
l’esercizio della scrittura, le sollecitazioni
cognitive e creative del contatto con la realtà,
la marca distintiva della firma o della presenza riconoscibili»
(p. 36).
Insomma, una scelta di visibilità, ma a prezzo
della rinuncia a scendere nell’arena della competizione.
Arena in cui in cui sono invece più numerose
le esponenti delle generazioni successive, cosa che
tuttavia non costituisce garanzia, secondo l’autrice,
di un riequilibrio di poteri tra i generi.
Proprio sul filo del rapporto tra autoesclusione consapevole
da un lato e accettazione consapevole e serena della
competizione dall’altro, può forse emergere
un percorso originale, che faccia della diversità
un punto di forza. Le donne, si tratta di una constatazione,
si trovano a disporre di due risorse ad elevato potenziale
etico: la distanza dal potere, e la diversificazione
interna. “Lavorare sulla diversità e
sulla distanza dal potere, e usarle come risorse per
costruire una nuova visione del giornalismo e delle
sue pratiche” può quindi costituire una
alternativa al giornalismo ‘maschile’.
Certo, aggiunge l’autrice, “se le donne
giornaliste, e quante, abbiano voglia di farlo è
difficile dire. Negli anni passati è andata
dispersa le messe delle illusioni, ma è ciò
che sempre accade, appunto, alle illusioni: oggi c’è
maggiore consapevolezza ed esperienza, maggiore forza,
e una urgenza più pressante a decelerare, quanto
meno, la corsa dell’informazione verso punto
di non ritorno. Se non si tentasse nulla, andrebbe
disperso molto più che le illusioni”
(p. 106).
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