Questo articolo è la prefazione
del libro L’Europa di carta. Guida alla stampa
estera
, di Giancarlo Salemi, recentemente apparso
in libreria in una nuova edizione riveduta e ampliata,
edito da Franco Angeli nella collana “Studi e
ricerche di storia dell’editoria” diretta
da Franco Della Peruta e Anna Gigli Marchetti.
Dovunque
ci si aggiri per l’Europa della carta stampata
capita fatalmente di ascoltare e leggere parole cupe,
o per lo meno di ansia, sulla sorte della stampa.
Forse questo dipende dal fatto che di solito sono
i giornalisti a occuparsi di giornali, e sono per
questo più sensibili (dei manager, degli industriali,
dei banchieri, dei politici) alle sorti di una testata.
Forse sono portati a esagerare perché sanno,
sappiamo, meglio di altri, che la fine di un giornale,
una ristrutturazione, una riduzione di budget, un
cambio di rotta editoriale, hanno dei costi umani
elevati, ma anche che la varietà e ricchezza
delle iniziative, la vitalità di pubblicazioni
capaci di far sentire la loro voce indipendente, o
comunque plurale e contrapposta ad altre, è
un indizio certo di libertà.
Uno sguardo oltre frontiera
Le loro, le nostre, preoccupazioni sono dunque fondate,
perché quando i dati della diffusione dei giornali
sono brutti, ristagnano o diminuiscono, stiamo perdendo
qualcosa di importante nella qualità di una
opinione pubblica. Ed è necessario, per capire
quel che accade, che delle condizioni di salute della
stampa ci facciamo una visione che vada al di là
dei confini nazionali, che comprenda se non tutti
i paesi europei almeno quelli che ne hanno costituito
finora il cuore dal punto di vista della storia del
giornalismo. Sta qui la utilità di questo libro:
un tema del quale gli europei sono generalmente esperti,
ciascuno per il paese e per la lingua sua, è
qui trattato in modo sintetico e chiaro, scavalcando
i confini nazionali e confrontando quattro grandi
storie diverse, la inglese, la tedesca, la francese
e la spagnola. La quinta, quella italiana, non c’è,
non ha il suo specifico capitolo, ma attraversa tutto
il libro per via dei frequenti rimandi alle vicende
di casa nostra viste nel modo in cui si rispecchiano
nella stampa estera. E poi la stampa di casa gli italiani
(quelli, una minoranza, che i giornali li legge) la
conoscono, anche se il libro li aiuterà a vederne
le caratteristiche, attraverso confronti e contrasti
con quella estera, sotto una luce nuova.
Siamo tentati, in Italia, e con molto fondamento,
di guardare alla stampa di altri grandi paesi, paragonabili
all’Italia per dimensioni e reddito, con una
certa invidia per due ragioni fondamentali, molto
elementari: la prima è che i giornali vi si
vendono molto di più (in Francia) o enormemente
di più (in Germania e in Inghilterra), la seconda
che dovunque in Europa (anche in Spagna) i giornali
hanno più pubblicità che da noi e sono
dunque molto più forti nella competizione con
la televisione. Queste differenze sono così
marcate che è inevitabile parlare di una anomalia
italiana, che non accenna a ridursi, ma tende anzi
ad aggravarsi. Tuttavia quando si getta lo sguardo
oltre frontiera si trova sì una situazione,
comparativamente, molto più florida, ma con
evidenti segnali di crisi anche lì. Crisi e
trasformazione. La situazione non è per niente
ferma, al contrario offre e prepara sorprese.
Il panorama europeo
Le pagine di L’Europa di carta spiegano
perché e come. Su una scala economica e aziendale
più alta che da noi si accentuano i processi
di concentrazione e passaggi di proprietà;
si acutizza la competizione con la tv commerciale;
i mutamenti sociali e del costume erodono ovunque
la forza del discorso pubblico standard di altri tempi,
riducono la presa del modello di cittadino istruito
su basi “tipografiche” (come le avrebbe
definite Neil Postman) e affidano un peso crescente
alla comunicazione per brevi battute di pochi secondi,
alla politica condotta attraverso gli spot televisivi
o le comparizioni nei telegiornali (che è quasi
la stessa cosa). E dunque sarebbe inutile cercare
facili alternative del genere: facciamo come loro.
Inutile, impossibile e anche sbagliato. Perché
la storia dei grandi giornali è la storia del
carattere di un paese, delle sue élites, del
suo popolo, dei loro gusti e tic. Troviamo il Times
vittoriano di una classe dirigente che sapeva tutto
della crisi in Indocina ma si appassionava di più
alla vendita di un cavallo, e troviamo il Sun di Murdoch
che il giorno in cui Blair annuncia l’entrata
in guerra in Afghanistan sceglie di aprire con la
paperella di plastica gialla che la Regina Elisabetta
tiene nella sua vasca da bagno. Seguiamo la nascita
degli austeri giornali del dopoguerra tedesco, la
Frankfurter Allgemeine Zeitung e la Sueddeutsche,
ma anche il trash della Bild di Springer,
che forte di oltre quattro milioni di copie conquista
ora in pochi mesi la Polonia con il gemello Fakty,
subito a quota un milione. E poi i desideri di De
Gaulle che si incarnano nella nascita del mitico Le
Monde di Hubert Beuve-Mery fino alle durissime
polemiche che hanno tuttora al centro il quotidiano
di Jean Marie Colombani. O la lunga agonia del Caudillo
da cui scaturirà la nuova Spagna del Pais,
il giornale che passerà i suoi guai accompagnando
Felipe Gonzalez nella disavventura del caso Gal, lo
stesso scandalo che farà le fortune editoriali
del Mundo, il giornale che appoggia Aznar
ma non risparmia per questo colpi al Berlusconi di
Telecinco.
Compact,
tabloid e d’élite.
Per i lettori italiani la nozione forse più
importante che risulta dalla conoscenza del giornalismo
degli altri grandi paesi europei è il dualismo,
un dualismo di classe, di reddito, di cultura e anche
di funzioni, che caratterizza i paesi dove si legge
molto di più che da noi. Quanto più
si legge, tanto più la «evoluzione della
specie» (dei quotidiani) ha prodotto una differenziazione
delle funzioni: ci sono i giornali di élite
da una parte e quelli popolari dall’altra. Da
noi, al contrario, i grandi quotidiani hanno seguito
una via di mezzo, portando le vendite molto al di
sopra delle medie dei quotidiani di qualità
inglesi o tedeschi, ma certo lontanissimi dai milioni
di copie (più di tre il Sun, più
di quattro la Bild) dei tabloids.
Non è detto che qualcosa non cambi, in quel
senso, anche da noi in futuro. La lezione di un tabloid
che improvvisamente invade un grande paese, come avvenuto
con Fakty, potrebbe ispirare nuovi tentativi
di creare un popolare italiano, a più di vent’anni
dal fallimento dell’Occhio. Ma tutto il mercato
europeo è in forte evoluzione. La decisione
del Times di passare al formato tabloid,
ovvero compact (dovremo chiamarlo così
probabilmente anche noi, dal momento che la parola
tabloid sta a indicare sempre più una formula,
quella del giornale popolare, non un semplice formato)
dopo una fase sperimentale in doppia versione, può
essere davvero l’inizio di una rivoluzione,
che riguarderà necessariamente anche i contenuti,
lo stile, la scrittura. E il Times non è
solo su questa strada: c’è anche la amburghese
Welt, c’è l’Indipendent,
altri seguiranno. La scelta poi di portare nelle edicole
film, libri e dischi – una via nella quale è
stata decisamente l’Italia ad aprire la strada
– sembra trovare imitatori in Francia e in Germania:
messi economicamente alle strette, come da noi è
accaduto prima e più pesantemente, i giornali
sono spinti a esplorare tutte le possibilità
di sfruttamento del proprio marchio e del proprio
circuito di distribuzione. Intanto la free press
si sta ovunque configurando come una nuova stabile
presenza sul mercato dei quotidiani.
Per tante ragioni dunque conoscere le vicende della
stampa estera, tenerle sotto osservazione è
utile per tutti coloro che hanno a cuore la vita della
opinione pubblica nella nuova e allargata Unione europea.
Ma per i giornalisti, gli imprenditori, tutti coloro
che in Europa e con gli europei vogliono lavorare
è indispensabile.
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