Wilhelm Röpke
Democrazia ed economia
L'umanesimo liberale nella civitas humana
Il Mulino, 2004
pp. 256, € 19,50
Da lungo tempo ormai, imperversa il dibattito sulla
conciliabilità, o meno, di mercato e democrazia,
una delle cui diramazioni concerne la possibile convivenza,
oppure no, di liberalismo e dimensione sociale. Volendo
leggere questa discussione con gli occhiali e le lenti
fornite dalla cultura tedesca, si potrebbe parlare
della compatibilità di “Spirito”
(un termine assai evocativo e polisemantico, dal romanticismo
in avanti) e dottrina liberale, a cui il sociologo
ed economista Wilhelm Röpke – tipico “pensatore
della crisi”, come ha scritto lo studioso Silvio
Cotellessa – fornisce il proprio contributo
in direzione dell’elaborazione di quanto potremmo
ribattezzare un “Liberalismo con l’anima”
e umanistico.
Giunge assai opportuna, dunque, la pubblicazione
degli scritti più significativi di questo intellettuale
tedesco, non particolarmente noto al pubblico italiano,
nell’ambito della nuova collana della casa editrice
il Mulino dedicata ai “Classici del pensiero
politico ed economico europeo nel Novecento”
(diretta da Lorenzo Ornaghi e Alberto Quadrio Curzio),
di cui Democrazia ed economia. L’umanesimo
liberale nella civitas humana costituisce
il volume inaugurale.
Docente presso l’Institut universitaire de hautes
études internationales di Ginevra (dopo aver
insegnato all’università di Istanbul),
città dell’esilio dove era approdato
abbandonando la Germania del nazionalsocialismo di
cui era stato un implacabile oppositore, Röpke
tenne come stella polare della propria ricerca e dei
propri studi l’inserimento dell’economia
all’interno di un quadro antropologico e di
un contesto sociologico, senza i quali, notava, si
perde la capacità stessa di comprensione della
principale attività degli individui che, in
quanto tale, non può prescindere, per l’appunto,
dalla Civitas humana.
L’umanesimo per trattare il mercato
La lezione di liberalismo che Röpke impartisce
appare, per molti versi, unica e dotata, giustappunto,
del respiro dei “classici”, quasi senechiana
nella sua serenità e temperanza. Una “forza
tranquilla” utile a contrastare i numerosi rischi
di deviazione rispetto all’eredità e
alla natura autentica del liberalismo, da contrapporre
all’economia pianificata sovietica.
Come scrive in un brano di grande efficacia e formidabile
chiarezza, all’interno del suo testo su
Forme vecchie e nuove dell’economia e della
società: “L’errore fondamentale
del vecchio pensiero liberale ‘capitalistico’
è stato precisamente quello di considerare
l’economia di mercato come un processo chiuso
in sé, che si svolge automaticamente. Non si
era notato che l’economia di mercato rappresenta
soltanto un breve settore della vita sociale, incorniciato
e contenuto in un campo più largo, un campo
esterno nel quale gli uomini non sono concorrenti,
produttori, affaristi, consumatori, membri di corporazioni,
azionisti, risparmiatori e investitori, ma semplicemente
uomini che non vivono di solo pane, membri di famiglia,
vicini di casa, membri di comunità religiose,
compagni di lavoro, cittadini del loro comune e creature
di carne e ossa con pensieri eternamente umani e col
senso della giustizia, dell’onore, dell’abnegazione,
dell’istinto sociale, della pace, dell’onestà
nell’esecuzione del lavoro, della bellezza e
della tranquillità nella natura. L’economia
di mercato è soltanto un dato ordinamento indispensabile
[…] entro un ambito ristretto, nel quale deve
trovare il suo posto pura e non falsata; abbandonata
a se stessa, diventa pericolosa, anzi insostenibile,
perché ridurrebbe gli uomini a un’esistenza
non naturale che tosto o tardi essi scrollerebbero
di dosso insieme con l’economia di mercato diventata
odiosa” (pp. 89-90).
Più chiaro di così… Alla faccia
dei padroni della finanza alla Michael Douglas in
Wall Street e dei filibustieri responsabili
delle vicende Enron o WorldCom (e delle tante di cui
non ricordiamo i nomi o che non sono ancora venute
a galla)!
“Che l’economia si adatti all’uomo.
E non viceversa”
Nelle parole di Röpke c’è Max Weber,
la fedeltà ai precetti liberali della lezione
di von Hayeck e i principi della scuola economica
di Friburgo, ma c’è anche – e soprattutto,
vorremmo sottolineare – la costruzione del corpus
teorico alla base del “modello sociale europeo”
e di quel capitalismo renano che ha fatto da antidoto,
nell’Europa continentale, al neoliberismo più
virulento.
Nella ricerca di autori capaci di rimotivare e di
dare profondità alla dottrina liberale, sottraendola
all’equivoco – che numerosi esponenti
del mainstream e del “pensiero unico”
dominante stanno strumentalmente alimentando, in particolare
dagli anni Ottanta del Novecento – della sua
coincidenza con il liberismo, la riscoperta di un
“classico” quale Röpke e del suo
“liberalesimo”, come lo chiamano Ornaghi
e Quadrio Curzio nella loro introduzione, appare quanto
mai positiva e utile. Lo studioso tedesco, fautore
di un “umanesimo dell’economia”,
infatti, ritenne sempre che l’adattamento dell’economia
all’uomo – e non viceversa, come predicano
i corifei del “fondamentalismo di mercato”
– fosse non solamente un dovere etico, ma anche,
assai concretamente, una manifestazione di “saggezza
politica”, come ebbe modo di definirla.
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