Non
vi è dubbio che l’America sia una democrazia
disegualitaria, certamente essa è particolarmente
ospitale verso i ricchi, tuttavia essa è qualcosa
di diverso di una democrazia per i ricchi. L’America
è una democrazia di mercato, piuttosto che una
democrazia sociale come quella di buona parte dei paesi
dell’Europa occidentale. Naturalmente, anche questi
ultimi sono delle democrazie di mercato, ma in nessuno
di essi la logica della competizione informa di sé
il funzionamento dell’intero sistema sociale come
in America. Dunque, quella diseguaglianza va riconosciuta,
ma per potere essere compresa va collocata nel contesto
strutturale e culturale che connota quel paese.
Cittadini liberali e cittadini sociali
Il contesto culturale della diseguaglianza americana
è inequivocabile. Storicamente, l’America
si è preoccupata del cittadino liberale, ovvero
dell’eguaglianza dei punti di partenza, piuttosto
che del cittadino sociale, ovvero dell’eguaglianza
delle posizioni di arrivo. Dopo tutto, l’America
è stata il primo paese al mondo che ha istituzionalizzato
la cittadinanza liberale. Intendendo, per liberale,
quella cittadinanza che si basa sul riconoscimento
dei diritti civili e politici, prima ancora (se non
piuttosto) che su quelli sociali o economici. Sappiamo
che tale cittadinanza liberale non è stata
affatto universale. Anzi, sin dall’inizio della
nuova repubblica, essa è stata ipotecata da
due vizi, come l’esclusione dei neri dalla cittadinanza
e la soggezione delle donne. Se i neri non hanno potuto
diventare cittadini perché erano considerati
inferiori agli uomini bianchi (la costituzione del
1787 aveva addirittura commisurato, seppure per ragione
di calcolo dei collegi elettorali, un individuo nero
a 3/5 di un individuo bianco), le donne non hanno
potuto (a lungo) diventarlo perché considerate
più idonee ad assolvere compiti privati piuttosto
che pubblici.
Nondimeno, pur con queste limitazioni, l’America
ha inaugurato, alla fine del XVIII secolo, l’epoca
delle libertà individuali, intese come presupposto
della coesione sociale. Mentre l’Europa dell’ancien
règime riteneva che la coesione sociale
fosse il risultato della coercizione, dell’autorità
proveniente dall’alto, della tradizione, delle
gerarchie sociali, l’America della new republic
pratica l’idea che la coesione sociale fosse
il risultato della scelta dei singoli individui, ovvero
dell’accordo o covenant tra di essi. Dopo tutto,
il We the People con cui inizia il Preambolo
alla costituzione del 1787 e con cui i cittadini stringono
il patto fondamentale che ha dato vita alla nuova
repubblica è un plurale (We) e non già
un singolare (come nella tradizione europea, dove
popolo o peuple o volk
sono sempre reificati in un soggetto unico e unitario).
La sovranità dell’individuo
In assenza dello stato, è toccato dunque ai
singoli individui il compito di promuovere e sostenere,
ai vari livelli sociali, il governo inteso come autogoverno.
Ecco perché, tra l’altro, l’individualismo
americano è stato generalmente un individualismo
sociale. Un individualismo cioè su cui il liberalismo
di quel paese ha potuto costruire la propria identità
progressista. Ciò, invece, non è avvenuto
in Europa , dove l’individualismo, quando si
è affermato, ha acquisito un connotato sia
anti-statale che anti-sociale (e quindi tendenzialmente
anti-progressista). Infatti, mentre in Europa l’individuo
è riuscito ad affermarsi solamente contrapponendosi
allo stato, in America, dove non c’era un potere
a cui contrapporsi, l’individuo ha potuto affermarsi
costruendo da sé quel potere.
L’America liberale ha trovato (e continua a
trovare) la sua massima espressione nei primi dieci
emendamenti della costituzione (i cosidetti Bill of
Rights). Proposti dal Congresso federale ai legislativi
statali nel settembre del 1789, e da questi ultimi
quindi approvati, essi sostanziano la vocazione (o
mission) liberale del paese. Con i Bill of Rights,
le libertà civili hanno acquisito, per la prima
volta nella storia, una dignità costituzionale.
Costituzionalizzando quei diritti, i singoli individui
sono stati messi al riparo dall’arbitrio e dalla
costrizione. Ovvero, hanno avuto uno strumento per
opporsi a questi ultimi. Attraverso questi dieci emendamenti,
l’America è diventata la terra della
libertà individuale, il punto di riferimento
(e non solo ideale) per tutti coloro che, nel mondo,
soffrono per l’assenza di quella libertà.
Ovvero l’America è diventata la repubblica
della sovranità dell’individuo,
una repubblica attentamente presidiata dalla Corte
Suprema. Tuttavia, se i diritti individuali sono un
baluardo necessario contro ogni limitazione della
libertà, nondimeno la loro formalizzazione
giuridica si è rivelata un vincolo sulla produzione
dei beni pubblici (ad esempio, ostacolando, con il
secondo emendamento della costituzione, la proibizione
dell’uso privato delle armi da fuoco), ovvero
la loro ideologizzazione si è rivelata una
barriera contro le esigenze di una maggiore redistribuzione
della ricchezza. Insomma, il significato dell’individualismo
sociale cambia con il cambiamento storico.
La democrazia della competizione
Anche il contesto strutturale della diseguaglianza
americana è inequivocabile.Quello americano
non è un mercato sregolato, ma esattamente
il contrario. Tuttavia esso è regolato secondo
finalità diverse da quelle adottate dai singoli
paesi dell’Europa occidentale. Storicamente,
l’America ha regolato il mercato per garantire
il consumatore e non già il lavoratore. E il
consumatore è stato garantito tramite la competizione.
Qui, come si vede, tra il mercato e la democrazia
si è creata una sorta di simbiosi istituzionale,
in quanto entrambi sono stati informati al principio
della competizione, o tra istituzioni di governo o
tra imprese. Per la democrazia di mercato americana
l’obiettivo da raggiungere è stato, sia
in politica che in economia, la prevenzioni delle
posizioni di monopolio. Prevenzione perseguita ponendo
ostacoli alle concentrazioni del potere. È
stato inevitabile che tale strategia producesse diseguaglianze,
ma esse erano state accettate perché considerate
l’esito di una competizione equa. Ora, la rivoluzione
neo-conservatrice degli anni Ottanta del secolo scorso
è riuscita, con straordinario successo, a focalizzare
quell’obiettivo esclusivamente sulla politica
(e non già sull’economia come era avvenuto
in passato). Ciò ha reso possibile smantellare
le politiche assistenziali, integrative e redistributive
perseguite dalla politica democratica tra gli anni
Trenta e gli anni Settanta, riducendo le risorse fiscali
a disposizione dello stato federale ma anche mettendo
in discussione la loro legittimità sociale.
Così, una democrazia di mercato, che aveva
già il vizio della diseguaglianza, è
divenuta ancora più insensibile a quest’ultima
con la vittoria del neo-conservatorismo. Al punto
da ridurre significativamente le capacità integrative
della democrazia di mercato del paese. Come ha scritto
Maurizio Ferrera, oggi “nella società
americana la mobilità è in declino (meno
individui riescono a migliorare nel corso del tempo
la propria posizione economica, a prescindere dal
ciclo economico); le posizioni dei figli sono sempre
più altamente correlate alle posizioni dei
padri... [insomma] la mela cade vicino all’albero
anche nel paese delle opportunità” (“Il
cerpuscolo delle oppurtunità, in “Il
Sole24 Ore”, 29/12/02).
Si tratta di un cambiamento non da poco in un paese
cha ha da sempre giustificato le proprie diseguaglianze
con il suo dinamismo, la sua tendenza a modificare
le gerarchie sociali, la sua capacità di integrare
generazioni e generazioni di immigrati provenienti
da tutto il mondo, fornendo ad essi un’opportunità
di riscatto economico come nessun altro paese ha mai
fatto. E, dopo tutto, basti pensare che tra il 1991
e il 2000 in America sono entrati più di nove
milioni di immigrati legali (ma assai di più
se si considerano i clandestini), per un tasso annuale
medio di immigrazione di 3,4 per ogni 1.000 abitanti.
Tuttavia, gli sviluppi sociali più recenti
sembrano sfidare la capacità integrativa della
democrazia di mercato americana.
I cittadini tra stato e mercato
Come reagirà l’America a tale sfida?
Per ora mi limito a rilevare che l’America,
se per ragioni culturali e strutturali non è
riuscita a dare vita ad un welfare state
universalistico, tuttavia essa non può essere
confusa con una società darwiniana in cui sopravvivono
solamente i più forti. Perché l’America
dell’individualismo sociale è anche l’America
della mobilitazione e organizzazione della società
civile. La società civile americana è
stata e continua ad essere assai più articolata
e mobilitata di qualsiasi società civile occidentale.
Nonostante sia aumentato il numero di coloro “che
vanno a giocare il bowling da soli” (l’espressione
è tratta dal libro di R.D. Putnam, “Capitale
sociale e individualismo. Crisi e rinascita della
cultura civica in America”, NdR), è anche
aumentato il numero delle associazioni a finalità
civica e sociale. Come ha mostrato Skocpol, “il
numero totale di associazioni nazionali [non-profit]
è passato da 6.000 nel 1960 a quasi 23.000
nel 1990”, per assestarsi a 22.449 nel 2001.
Si tratta di milioni e milioni di persone impegnate
in attività di solidarietà e aiuto che
nei paesi europei vengono generalmente svolte da funzionari
pubblici di agenzie di assistenza. Nessun paese democratico
ha l’associazionismo civico dell’America.
Tra lo stato e il mercato, in America non c’è
il vuoto che spesso c’è (o c’era)
nei paesi europei. Molti servizi sociali, educativi,
assistenziali, medici sono direttamente promossi e
organizzati da gruppi di cittadini, da associazioni
etniche, da movimenti religiosi, da cooperative di
mutuo soccorso. L’associazionismo diffuso continua
a essere uno delle spine dorsali dell’autogoverno
democratico americano.
Vale ancora oggi ciò che Bryce scriveva alla
fine del XIX secolo, riprendendo le riflessioni di
Tocqueville degli anni Trenta di quel secolo, e cioè
che in America “le associazioni sono create
e si estendono più velocemente e più
efficacemente che in qualsiasi altro paese”.
Insomma, se è vero che il liberalismo americano
ha (avuto) il vizio della diseguaglianza, esso però
ha anche (avuto) la virtù dell’autogoverno.
Questo saggio è tratto dal libro
L'America e i suoi critici.
Virtù e vizi dell'iperpotenza democratica
di Sergio Fabbrini, il Mulino, 2005
pp. 272, euro 14,00
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