Il presente articolo costituisce
l’intervento tenuto da Rita di Leo al convegno
“Quo Vadis America?”, organizzato dal Centro
di Studi e iniziative per la riforma dello stato
e svolto a Roma il 21 febbraio 2005 in occasione del
viaggio di George W. Bush in visita presso l’Unione
europea.
Bush
torna in Europa
Il presidente Bush è in Europa e tutti tirano
un sospiro di sollievo perchè “lo strappo
tra l’Europa e l’America è ricucito”.
A Parigi l’8 febbraio il suo segretario di stato
ha solennemente dichiarato “che l’America
è pronta a lavorare con l’Europa sulla
nostra comune agenda e che l’Europa deve essere
pronta a lavorare con l’America”. In quel
‘nostra’ agenda e in quel ‘deve’
c’è il sapore della vittoria, l’orgoglio
di aver riportato nei ranghi i governi europei. Sembrano
abbandonate le aspirazioni all’autonomia politica
dell’Unione Europea, nate con le scelte equivoche
di Maastricht.
Euro, esercito comune, carta costituzionale, politica
estera comune, un vero parlamento, istituzioni giuridiche
riconosciute: di tutto ciò solo l’euro
ha una vita reale. Perché è reale la
sua economia di riferimento. Metà del reddito
globale della Microsoft viene dal mercato europeo.
Gli americani investono in Olanda due volte più
che in Messico e 10 volte più che in Cina.
Il 75% degli investimenti esteri in America proviene
dai paesi europei. La Siemens tedesca dà lavoro
a 70.000 americani. E il mercato europeo di 450 milioni
di consumatori è un pozzo senza fondo per il
business Usa. Come rinunziare alle relazioni transatlantiche?
Meglio far svanire l’ipotesi “di un nuovo
soggetto politico ostile intorno a un asse franco-tedesco,
allineata alla Russia ambiziosa di Putin”. L’ipotesi
era circolata nell’ormai lontano febbraio 2003
all’epoca dei contrasti sulla guerra, in occasione
delle prese di posizione di Francia, Germania e Russia
contro l’intervento in Iraq.
Da allora gli Stati Uniti hanno tenuto ferma la barra
del comando su più scenari. Su quello europeo
i risultati sono andati al di là delle più
ottimistiche aspettative. Si è da poco insediata
la nuova Commissione Europea il cui presidente, il
portoghese Barroso, ha nominato in posti strategici
ministri patologicamente diffidenti alla leadership
franco-tedesca e di qualsiasi coinvolgimento della
Russia nelle politiche di Bruxelles. Alla Nato siede
un segretario generale olandese che vede come una
provocazione l’ipotesi stessa di un esercito
comune europeo.
L’allargamento a 25 ha provocato, come previsto,
difficoltà di gestione e rinunzia a sperimentazioni
sociali, economicamente rischiose. All’interno
dell’Unione contano le posizioni polacche e
degli altri governi est europei, ostili a qualsiasi
pur lieve intenzione di muoversi senza chiedere il
benestare di Washington. Anche le medie potenze sembrano
aver ritrovato il buon senso. La Francia colpita nelle
sue zone d’influenza in Africa ha ammorbidito
i toni, ha cambiato il ministro degli esteri, sembra
meno interessata a fare accordi con tedeschi e spagnoli.
La Germania socialdemocratica è preoccupata
per i suoi 5 milioni di disoccupati e pare placata
dalla promessa di un posto di prestigio nella futura
riforma delle Nazioni Unite. Lo spagnolo Zapatero
è un parvenu. Gli altri governi non
destano alcun interesse.
Una lunga partita a scacchi
Con una Unione Europea così fatta si possono
raggiungere intese sugli aiuti necessari per le zone
a rischio del mondo, Medio Oriente e Iraq, Corea del
Nord. Rimangono intatte le frizioni su contenziosi
come la vendita di armi alla Cina e i legami lobbistici
con l’Iran. E il caso Siria si è da pochissimo
complicato.
Tutto da chiarire è lo stato dei rapporti
con la Russia verso la quale Washington potrebbe concordare
con Bruxelles la virata da fare. L’amicizia
ostentata tra Bush e Putin da 2-3 anni è coincisa
con una ininterrotta durissima partita a scacchi tra
i due paesi. Le mosse sono iniziate quando le politiche
di Putin hanno messo in discussione il protettorato
Usa nato con la Russia di Eltsin. Da parte americana
sono state giocate con successo molte pedine: la costruzione
di basi ai confini della Russia nelle repubbliche
asiatiche ex sovietiche, l’allargamento alla
Nato dei paesi e paesetti dell’ex Patto di Varsavia,
l’acquisizione (fallita) del 40% della Yukos,
la “rivoluzione delle rose” della Georgia,
la “rivoluzione arancione” dell’Ucraina.
La prossima rivoluzione riguarderà la Bielorussia.
Bush l’ha appena promesso.
Da parte russa, un paese dove persino i neonati giocano
a scacchi, la reazione è stata quasi sempre
in difesa e quasi sempre si è attirata la riprovazione
generale. In politica interna e in politica estera
le iniziative di Putin hanno azzerato in pochi mesi
le aspettative originarie sulle sue capacità
di statista, sul suo ruolo sulla scena internazionale.
Washington può chiedere a Bruxelles di seguirla
sulla politica verso la Russia, e si aspetta consenso.
Come se i vecchi tempi della guerra fredda fossero
tornati. Così non è.
I legami tra le due sponde dell’Atlantico si
sono erosi e le differenze appaiono maggiori delle
similitudini. Non solo per come tiene la barra del
comando la Casa Bianca di Bush ma anche per quello
che sta accadendo nel paese di Bush.
La difesa del “credo americano”
Sembra che la leadership, con convinzione ed entusiasmo,
stia ripudiando l’America degli anni Trenta,
Sessanta e Novanta. Via dal New Deal, dalla Great
Society, dalle affirmative action, dal relativismo
amorale dei liberal reazionari. I conservatori
progressisti al governo ambiscono al ritorno alle
origini.
Nel paradiso originario l’individuo era libero
di agire a profitto di se stesso pur vivendo dentro
comunità, quella della sua religione, quella
del suo lavoro, quella a difesa dai popoli indigeni.
A legare le comunità tra loro erano principi
condivisi che esaltavano il valore della ricchezza,
il potere della forza, il ruolo guida della bibbia.
L’individuo diffidava dello status di cittadino
mentre esaltava la sua condizione di uomo libero e
nella comunità cui spontaneamente aderiva.
Tali principi sono rimasti validi nei tre secoli che
hanno visto il grande paese diventare una nazione
potente. Poi è arrivato il novecento con la
sua società dove i conflitti di classe erano
legittimi, lo stato federale regolava l’economia,
e culture esogene delegittimavano l’individualismo,
il successo economico, il primato della forza, il
ruolo della religione. Una vera e propria caduta nel
baratro dell’assimilazione all’Europa,
da cui la Casa Bianca di Bush junior sta cercando
di venir fuori. La transizione dalla società
all’europea alle comunità originarie
è l’esplicito rifiuto di quasi 80 anni
di vita del paese. Si salvano solo i tempi del presidente
Ronald Reagan.
Moltissimi sono i politici e gli studiosi che si
misurano con la questione della transizione. Nel suo
ultimo libro, L’altra America, S. Huntington
paventa la perdita del primato anglo-puritano, prospetta
addirittura la destrutturazione del paese. Nella sua
definizione il primato anglo-puritano ispira il credo
americano: quei principi intrinseci alle élites,
che improntano la vita della nazione. Le fondamenta
del credo – libertà religiosa, uguaglianza
nelle opportunità, individualismo, successo
e governo minimo – stabili sino al XX secolo,
sono stati sinora accettati da chiunque arrivava nel
grande paese. Non è più così.
Si innesta qui la minaccia alla destrutturazione:
l’immigrazione ispanica (e asiatica), milioni
di lavoratori indispensabili all’economia i
quali si sottraggono all’integrazione, mantengono
la propria identità d’origine, non imparano
l’inglese, sembrano impermeabili al “credo
americano”.
Gli ultimi arrivati hanno la chance di rimanere estranei
al primato anglo-puritano perché vivono nella
società creata dal New Deal, dalla Great Society,
dal multicultarismo e relativismo morale, vale a dire
tutte diversioni dalla strada maestra del “credo
americano”.
Un programma pieno di ambizioni
Nella versione dell’intellettuale conservatore
la difesa del primato anglo-puritano è un grido
di dolore. Nella versione della Casa Bianca è
un programma ben preciso con obiettivi di medio e
lungo termine. Il focus del programma è far
tornare l’individuo solo e unico responsabile
di se stesso all’interno delle varie comunità
del suo spazio esistenziale: la fede religiosa, l’istruzione,
il lavoro, la famiglia, la casa, le malattie, i consumi,
il tempo libero, la vecchiaia.
Questa è la proposta del vice presidente Dick
Cheney: “Uno dei più grandi obiettivi
della nostra amministrazione è aiutare più
americani a trovare le opportunità di possedere
una casa, di avere un piccolo business, un proprio
piano sanitario e pensionistico. In tutte queste aeree
la proprietà è la via per maggiori opportunità,
maggiori libertà e più controllo sulla
propria vita, e questo è un traguardo degno
di una grande nazione. Tutti hanno il diritto di avere
la chance di vivere il sogno americano, di farsi propri
risparmi, aspirare alla ricchezza, avere un proprio
gruzzolo per la pensione che nessuno ti possa portare
via”.
Le parole, semplici e attraenti, provengono da uno
dei campioni dell’economia contemporanea, quella
delle corporation smisurate e delocalizzate,
di management sofisticati e cosmopoliti. Il politico
Cheney, ancor più sulla breccia nel secondo
mandato, è un notissimo boss, temporaneamente
fuori servizio, di una notissima corporation
che è stata generosamente finanziata per ricostruire
l’Iraq e l’Afganistan, ed è presente
in Kosovo, e in tanti altri posti in America e nel
mondo. Come conciliare la sua promessa di un piccolo
business per ogni americano con la realtà del
proprio business?
La conciliazione non è nella sua agenda. In
agenda c’è un programma politico che
usa la proprietà individuale come la scelta
vincente per l’integrazione “dell’altra
America” nella vecchia. Nel programma c’è
il superamento di vincoli, lacci e lacciuoli che non
lasciano l’individuo libero, solo con se stesso
e con le sue ambizioni di farsi strada nella vita.
I primi vincoli hanno a che fare con il mondo dell’economia,
dove il governo è tuttora considerato responsabile
della capacità del singolo americano di trovare
lavoro, e delle sue opportunità di avere successo.
E’ un’enormità nata negli anni
Trenta con il New Deal, in quella spuria fase della
storia del grande paese che solo oggi si è
realmente intenzionati a chiudere. Molto è
stato cambiato con il governo Reagan e anche dopo
con Bush senior e con Clinton ma sinora le misure
adottate hanno avuto il segno negativo, come “espropriazioni
di diritti” da chi era stato toccato o come
insufficienti dagli uomini del business.
Come è solo l’americano!
Invece il programma attuale ha un impianto ideologico
teso a far accettare all’opinone pubblica come
positiva, l’eliminazione di vincoli governativi,
statali e federali super partes nelle relazioni
tra il singolo e l’ambiente.
Ecco due possibili case study per ricercatori
che indagassero empiricamente la natura ideologica
del programma. Il primo riguarda l’intenzione,
appassionatamente sostenuta dal presidente Bush, di
porre fine alla class action e alla medical liability.
Nel sistema sociale americano non è previsto
un attivismo sindacale e politico a sostegno dell’individuo
colpito da un torto. E’ sinora esistita la strada
dell’azione legale, con avvocati e giudici che
a livello locale, stato per stato, dibattono e decidono
il risarcimento del torto. Il risultato può
essere la riparazione del danno con guadagni da parte
degli avvocati e perdite da parte delle compagnie
di assicurazioni e dei potentati economici federali.
L’azione legale è una costosa scommessa
e per correrla è prassi unirsi in più
persone con il medesimo problema e affidarsi ad uno
studio legale. E’ un’unione occasionale,
meramente economica ma è comunque un’esperienza
che vede da una parte l’individuo sperimentare
il vantaggio dell’azione collettiva e, dall’altra
parte, le lobby delle assicurazioni e del
settore sanitario avere difficoltà.
Il governo Bush è intervenuto con gran successo
a dare soccorso al business delle lobby e a porre
fine alla condizione innaturale che spinge l’individuo
a tradire il credo americano dell’individualismo.
Secondo i suoi principi se l’individuo subisce
un torto deve porvi rimedio da solo, e se non è
in grado, allora accetti la sua debolezza e l’altrui
forza.
La pensione me la gioco in borsa
“La privatizzazione delle pensioni” è
l’altro case study che ben testimonia
il rifiuto maturato verso il New Deal e la Great Society.
Nella prospettiva che nel 2040 il costo della spesa
pensionistica non sia affrontabile, il governo intende
varare misure legislative che mettano il singolo lavoratore
in condizioni tali da collocare in borsa i contributi
previdenziali. Ne deriverebbero vantaggi per il lavoratore
che potrebbe assicurarsi un reddito anche più
elevato della pensione, per gli operatori di Wall
Street per l’immissione di capitali e per gli
enti previdenziali che supererebbero l’incubo
del deficit. La proposta di giocarsi in borsa la pensione
ha scatenato le critiche non solo dei politici democratici
ma anche repubblicani, degli esperti, e persino dell’americano
del ceto medio.
In realtà il senso della proposta non sta
tanto nell’aspetto economico, il deficit previsto
per il 2020 o il 2040, quanto nella rottura di uno
dei cliché più consolidati del welfare
dei paesi ricchi: l’ultima fase della vita va
trascorso al riparo dalle tensioni economiche. La
riforma della Casa Bianca di Bush è ispirata
a una logica per cui l’individuo lavora, guadagna,
gioca in borsa e rischia sino alla fine dei suoi giorni.
Secondo tale logica l’individuo vive dentro
una ininterrotta tensione materiale e spirituale,
da affrontare in solitudine.
Nelle comunità in cui è inserito, nella
scuola, sul lavoro, nei luoghi di residenza e di vacanza,
sono in vigore le regole della cultura anglo-puritana:
individualismo, competizione, valore della ricchezza,
rispetto della forza. Le comunità religiose
aiutano l’individuo a conformarsi alle regole.
Anche nelle chiese cattoliche, nelle sinagoghe, nelle
moschee, estranee a quella cultura, l’approccio
richiesto è l’assuefazione all’altro
da sé. La richiesta implicita nel passato oggi
proviene dagli ideologi e dai politici persuasisi
che la fine della società del New Deal, degli
anni sessanta e novanta è la condizione per
decontaminare l’America.
Karl Rove e la nuova democrazia
La messa al bando dei conflitti nella società
e l’esaltazione delle comunità sono scelte
politiche, intrinseche alle relazioni di potere dove
chi decide è a una distanza siderale da chi
esegue. Il mandato per decidere richiede però
la democrazia procedurale come la più idonea
a garantirsi il consenso di chi esegue. Rieletto trionfalmente
presidente l’inquilino della Casa Bianca è
un monarca. E come tale i suoi consiglieri gli possono
suggerire iniziative radicali di politica interna
e iniziative spericolate di politica estera. Bush
ha tra i suoi fidi Karl Rove, un uomo senza ancora
un capello bianco ma di cui si sono già scritte
biografie.
Karl Rove è noto per aver fatto vincere a
Bush la carica di governatore del Texas, la prima
elezione a presidente, le elezioni di midterm
e il secondo mandato. Ogni volta egli ha adattato
la macchina elettorale all’occasione. Secondo
la vulgata corrente, contro lo sfidante del partito
democratico la mossa vincente è stata lo sbandierare
l’estraneità dell’avversario, e
la straordinaria somiglianza di Bush, con il leggendario
uomo qualunque della provincia americana che ama il
suo fucile, la sua casa, il suo paese, la Bibbia e
odia la politica, gli intellettuali, gli stranieri.
In realtà Rove ha ottenuto l’ultimo successo
utilizzando all’europea il partito repubblicano:
presenza sul territorio, militanza organizzata, un
programma ideologico mirato sull’elettore tradizionalmente
astensionista.
Egli ha dato al suo presidente la maggioranza nelle
istituzioni che contano e di conseguenza un potere
senza limiti. E il presidente lo ha appena nominato
responsabile del coordinamento della politica interna,
della politica economica, della sicurezza nazionale
e della sicurezza interna. E’ un accumulo di
poteri senza controllo e contrappesi, che innova la
natura delle democrazie, da quelle parlamentari a
quelle partitiche, a quelle presidenziali.
Il New Conservative Federalism
Rove non è uno esperto di economia, di sicurezza,
di questioni militari, è un ideologo che fa
strategie di potere. In politica interna la sua strategia
prevede un governo federale forte che limita l’autonomia
degli stati con leggi e misure uguali per tutti. Paradossalmente
il modello storico di riferimento sembrerebbe lo stato
europeo nelle sue molte versioni, un po’ di
Prussia guglielmina, un po’ di Austria asburgica,
un bel po’ di Inghilterra vittoriana.
I suoi oppositori interni lo definiscono a big
government conservatism e i repubblicani tradizionali
sono preoccupati da un interventismo che spazia dal
Patriot Act ai programmi scolastici delle scuole medie.
Un interventismo eretico rispetto all’ideal
tipo repubblicano, un interventismo che richiede soldi
e burocrazia come costo della ristrutturazione del
paese, come condizione per il pieno ripristino del
credo originario anglo-puritano. Il fine giustifica
i mezzi: è proprio il caso di dirlo. Il fine
è quello di restituire l’America alle
sue origini, di pulirla dalle incrostazioni del Novecento
laico e socialisteggiante. I mezzi sono le regole
da far accettare senza compromessi e cedimenti a chi
mette piede nel grande paese, a chi vi lavora, a chi
ci vive da tempo e ha potuto sinora ostentare idee
e comportamenti diversi. Sono milioni gli americani
che non si riconoscono nell’ideologia e nelle
politiche della Casa Bianca ma sono tanto soli quanto
gli altri che vi credono e vi si conformano.
Quasi come il Re Sole
Il new conservative federalism non ha spazi
di confronto e di dissenso, la divisione è
netta tra chi ci sta e chi è contro, tra amici
e nemici. Esplicita è l’accusa di collusione
tra gli americani che all’interno criticano
il governo e i non americani che criticano l’America.
Per i nemici interni ed esterni vale la strategia
di attacco che da anni è sperimentata nelle
relazioni internazionali. La strategia prevede la
dismissione delle istituzioni e delle norme che nel
corso del Novecento sono state inventate per sostenere
il diritto internazionale. Il rifiuto va dalla Convenzione
di Ginevra all’Onu sino al recentissimo Tribunale
penale internazionale. Forte è la convinzione
che istituzioni e norme esistenti non sono più
adatti alla situazione attuale di guerra globale al
terrorismo, la IV guerra mondiale nella definizione
neoconservatrice. Il rifiuto si spinge sino alla norma
eius regio cuius religio che da secoli regolava
i rapporti tra stati sovrani. Le dismissioni non hanno
un’accezione meramente distruttiva, di annullamento
tout court delle strutture esistenti dei rapporti
internazionali, esse sono la premessa per differenti
norme e istituzioni.
Non c’è ancora un corpus teorico delle
relazioni internazionali che inquadri le politiche
dell’America di oggi verso il resto del mondo.
Vi sono i discorsi del presidente e dei suoi ministri,
le dichiarazioni dei suoi consiglieri, gli incoraggiamenti
dei suoi esperti, le critiche dei suoi avversari.
Ne viene fuori un abbozzo di quadro dove gli Stati
Uniti sono al centro come un Luigi di Francia a Versailles.
Essi hanno intorno amici e clientes con cui intrattengono
scambi d’opinioni su business e democrazia mentre
Richelieu - nelle fattezze contemporanee di Dick Cheney
e Karl Rove - si occupa dei nemici e degli avversari.
Le misure a difesa del paese vanno rese note al popolo
cum grano salis perché non abbia dubbi
sulla sua fortuna di essere americano, membro della
nazione indispensabile al resto del mondo.
Guerra ai tiranni
La nazione indispensabile ha la missione di rendere
il mondo simile all’America per la sicurezza
dell’America. La missione prevede lotte ininterrotte
contro i tiranni. Nel primo mandato i nemici dell’America
erano definiti “l’asse del male”,
nel secondo tiranni. La spia semantica segna il passaggio
da una categoria etico-religiosa a una politica che
appartiene alla cultura greca, alla nostra filosofia,
al nostro passato. La distinzione tra bene e male
anche nelle relazioni internazionali è servita
a farsi votare dalla destra religiosa. Dopo il voto
le aspettative delle lobby della destra religiosa
sono state deluse mentre emergeva un altro approccio
meglio spendibile sulla scena internazionale. La liberazione
dai tiranni è l’espressione adatta per
attrarre la laica Europa e per lanciare un avvertimento
a nemici e clientes, sinora tollerati nonostante i
loro regimi senza cabine elettorali. Il tempo della
tolleranza sarebbe finito.
Per intenderci: togliere di mezzo l’Allende
del Cile era necessario, sostituirlo con Pinochet
può essere stato un errore.
L’esportazione della “democrazia chiavi
in mano” è una svolta a 360 gradi per
la politica estera del paese, ondeggiante da sempre
tra isolazionismo e realismo. La svolta, suggerita
dagli intellettuali neoconservatori, è stata
sinora accettata dai Cheney e dai Rove perché
democrazia e mercato sono più convenienti del
dispotismo e del clientelismo. Il primo banco di prova
è stato l’Iraq. L’esito elettorale
è al buio, come se il cacciatore che ha costruito
una trappola vi sia caduto dentro. Il cacciatore ha
l’esperienza di Cheney e Rove e dunque uscirà
dalla trappola.
In loro aiuto è appena arrivato John Negroponte,
il supercapo della nuova intelligence. I tre insieme
sono il bastione della fortezza America. Altro che
gli ideologi neoconservatori. Dall’alto della
fortezza essi guardano alla questione del rapporto
con il resto del mondo, così deteriorato. La
questione riguarda la possibilità di rendere
universali le relazioni di potere ispirati alla cultura
anglo-puritana del XVII secolo. Nell’America
di Bush il tentativo è in corso. Ma altrove?
C’è da sperare nel pragmatismo di Cheney,
nel cinismo di Rove e nel’esperienza di Negroponte,
nella loro disponibilità a capire che ciò
che è possibile nel loro paese, non lo è
altrove.
Non lo è in Europa dove nessuno vuole vivere
solo con se stesso alla mercé delle norme anglo-puritane.
Per noi europei, dunque, tener duro sullo strappo
tra le due sponde dell’Atlantico significa andare
avanti nel XXI secolo.
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