273 - 12.03.05


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La Casa Bianca che ha
scordato il New Deal
Rita di Leo

Il presente articolo costituisce l’intervento tenuto da Rita di Leo al convegno “Quo Vadis America?”, organizzato dal Centro di Studi e iniziative per la riforma dello stato e svolto a Roma il 21 febbraio 2005 in occasione del viaggio di George W. Bush in visita presso l’Unione europea.


Bush torna in Europa

Il presidente Bush è in Europa e tutti tirano un sospiro di sollievo perchè “lo strappo tra l’Europa e l’America è ricucito”. A Parigi l’8 febbraio il suo segretario di stato ha solennemente dichiarato “che l’America è pronta a lavorare con l’Europa sulla nostra comune agenda e che l’Europa deve essere pronta a lavorare con l’America”. In quel ‘nostra’ agenda e in quel ‘deve’ c’è il sapore della vittoria, l’orgoglio di aver riportato nei ranghi i governi europei. Sembrano abbandonate le aspirazioni all’autonomia politica dell’Unione Europea, nate con le scelte equivoche di Maastricht.

Euro, esercito comune, carta costituzionale, politica estera comune, un vero parlamento, istituzioni giuridiche riconosciute: di tutto ciò solo l’euro ha una vita reale. Perché è reale la sua economia di riferimento. Metà del reddito globale della Microsoft viene dal mercato europeo. Gli americani investono in Olanda due volte più che in Messico e 10 volte più che in Cina. Il 75% degli investimenti esteri in America proviene dai paesi europei. La Siemens tedesca dà lavoro a 70.000 americani. E il mercato europeo di 450 milioni di consumatori è un pozzo senza fondo per il business Usa. Come rinunziare alle relazioni transatlantiche? Meglio far svanire l’ipotesi “di un nuovo soggetto politico ostile intorno a un asse franco-tedesco, allineata alla Russia ambiziosa di Putin”. L’ipotesi era circolata nell’ormai lontano febbraio 2003 all’epoca dei contrasti sulla guerra, in occasione delle prese di posizione di Francia, Germania e Russia contro l’intervento in Iraq.
Da allora gli Stati Uniti hanno tenuto ferma la barra del comando su più scenari. Su quello europeo i risultati sono andati al di là delle più ottimistiche aspettative. Si è da poco insediata la nuova Commissione Europea il cui presidente, il portoghese Barroso, ha nominato in posti strategici ministri patologicamente diffidenti alla leadership franco-tedesca e di qualsiasi coinvolgimento della Russia nelle politiche di Bruxelles. Alla Nato siede un segretario generale olandese che vede come una provocazione l’ipotesi stessa di un esercito comune europeo.

L’allargamento a 25 ha provocato, come previsto, difficoltà di gestione e rinunzia a sperimentazioni sociali, economicamente rischiose. All’interno dell’Unione contano le posizioni polacche e degli altri governi est europei, ostili a qualsiasi pur lieve intenzione di muoversi senza chiedere il benestare di Washington. Anche le medie potenze sembrano aver ritrovato il buon senso. La Francia colpita nelle sue zone d’influenza in Africa ha ammorbidito i toni, ha cambiato il ministro degli esteri, sembra meno interessata a fare accordi con tedeschi e spagnoli. La Germania socialdemocratica è preoccupata per i suoi 5 milioni di disoccupati e pare placata dalla promessa di un posto di prestigio nella futura riforma delle Nazioni Unite. Lo spagnolo Zapatero è un parvenu. Gli altri governi non destano alcun interesse.

Una lunga partita a scacchi

Con una Unione Europea così fatta si possono raggiungere intese sugli aiuti necessari per le zone a rischio del mondo, Medio Oriente e Iraq, Corea del Nord. Rimangono intatte le frizioni su contenziosi come la vendita di armi alla Cina e i legami lobbistici con l’Iran. E il caso Siria si è da pochissimo complicato.

Tutto da chiarire è lo stato dei rapporti con la Russia verso la quale Washington potrebbe concordare con Bruxelles la virata da fare. L’amicizia ostentata tra Bush e Putin da 2-3 anni è coincisa con una ininterrotta durissima partita a scacchi tra i due paesi. Le mosse sono iniziate quando le politiche di Putin hanno messo in discussione il protettorato Usa nato con la Russia di Eltsin. Da parte americana sono state giocate con successo molte pedine: la costruzione di basi ai confini della Russia nelle repubbliche asiatiche ex sovietiche, l’allargamento alla Nato dei paesi e paesetti dell’ex Patto di Varsavia, l’acquisizione (fallita) del 40% della Yukos, la “rivoluzione delle rose” della Georgia, la “rivoluzione arancione” dell’Ucraina. La prossima rivoluzione riguarderà la Bielorussia. Bush l’ha appena promesso.

Da parte russa, un paese dove persino i neonati giocano a scacchi, la reazione è stata quasi sempre in difesa e quasi sempre si è attirata la riprovazione generale. In politica interna e in politica estera le iniziative di Putin hanno azzerato in pochi mesi le aspettative originarie sulle sue capacità di statista, sul suo ruolo sulla scena internazionale. Washington può chiedere a Bruxelles di seguirla sulla politica verso la Russia, e si aspetta consenso. Come se i vecchi tempi della guerra fredda fossero tornati. Così non è.

I legami tra le due sponde dell’Atlantico si sono erosi e le differenze appaiono maggiori delle similitudini. Non solo per come tiene la barra del comando la Casa Bianca di Bush ma anche per quello che sta accadendo nel paese di Bush.

La difesa del “credo americano”

Sembra che la leadership, con convinzione ed entusiasmo, stia ripudiando l’America degli anni Trenta, Sessanta e Novanta. Via dal New Deal, dalla Great Society, dalle affirmative action, dal relativismo amorale dei liberal reazionari. I conservatori progressisti al governo ambiscono al ritorno alle origini.
Nel paradiso originario l’individuo era libero di agire a profitto di se stesso pur vivendo dentro comunità, quella della sua religione, quella del suo lavoro, quella a difesa dai popoli indigeni. A legare le comunità tra loro erano principi condivisi che esaltavano il valore della ricchezza, il potere della forza, il ruolo guida della bibbia. L’individuo diffidava dello status di cittadino mentre esaltava la sua condizione di uomo libero e nella comunità cui spontaneamente aderiva. Tali principi sono rimasti validi nei tre secoli che hanno visto il grande paese diventare una nazione potente. Poi è arrivato il novecento con la sua società dove i conflitti di classe erano legittimi, lo stato federale regolava l’economia, e culture esogene delegittimavano l’individualismo, il successo economico, il primato della forza, il ruolo della religione. Una vera e propria caduta nel baratro dell’assimilazione all’Europa, da cui la Casa Bianca di Bush junior sta cercando di venir fuori. La transizione dalla società all’europea alle comunità originarie è l’esplicito rifiuto di quasi 80 anni di vita del paese. Si salvano solo i tempi del presidente Ronald Reagan.

Moltissimi sono i politici e gli studiosi che si misurano con la questione della transizione. Nel suo ultimo libro, L’altra America, S. Huntington paventa la perdita del primato anglo-puritano, prospetta addirittura la destrutturazione del paese. Nella sua definizione il primato anglo-puritano ispira il credo americano: quei principi intrinseci alle élites, che improntano la vita della nazione. Le fondamenta del credo – libertà religiosa, uguaglianza nelle opportunità, individualismo, successo e governo minimo – stabili sino al XX secolo, sono stati sinora accettati da chiunque arrivava nel grande paese. Non è più così.
Si innesta qui la minaccia alla destrutturazione: l’immigrazione ispanica (e asiatica), milioni di lavoratori indispensabili all’economia i quali si sottraggono all’integrazione, mantengono la propria identità d’origine, non imparano l’inglese, sembrano impermeabili al “credo americano”.
Gli ultimi arrivati hanno la chance di rimanere estranei al primato anglo-puritano perché vivono nella società creata dal New Deal, dalla Great Society, dal multicultarismo e relativismo morale, vale a dire tutte diversioni dalla strada maestra del “credo americano”.

Un programma pieno di ambizioni

Nella versione dell’intellettuale conservatore la difesa del primato anglo-puritano è un grido di dolore. Nella versione della Casa Bianca è un programma ben preciso con obiettivi di medio e lungo termine. Il focus del programma è far tornare l’individuo solo e unico responsabile di se stesso all’interno delle varie comunità del suo spazio esistenziale: la fede religiosa, l’istruzione, il lavoro, la famiglia, la casa, le malattie, i consumi, il tempo libero, la vecchiaia.

Questa è la proposta del vice presidente Dick Cheney: “Uno dei più grandi obiettivi della nostra amministrazione è aiutare più americani a trovare le opportunità di possedere una casa, di avere un piccolo business, un proprio piano sanitario e pensionistico. In tutte queste aeree la proprietà è la via per maggiori opportunità, maggiori libertà e più controllo sulla propria vita, e questo è un traguardo degno di una grande nazione. Tutti hanno il diritto di avere la chance di vivere il sogno americano, di farsi propri risparmi, aspirare alla ricchezza, avere un proprio gruzzolo per la pensione che nessuno ti possa portare via”.

Le parole, semplici e attraenti, provengono da uno dei campioni dell’economia contemporanea, quella delle corporation smisurate e delocalizzate, di management sofisticati e cosmopoliti. Il politico Cheney, ancor più sulla breccia nel secondo mandato, è un notissimo boss, temporaneamente fuori servizio, di una notissima corporation che è stata generosamente finanziata per ricostruire l’Iraq e l’Afganistan, ed è presente in Kosovo, e in tanti altri posti in America e nel mondo. Come conciliare la sua promessa di un piccolo business per ogni americano con la realtà del proprio business?
La conciliazione non è nella sua agenda. In agenda c’è un programma politico che usa la proprietà individuale come la scelta vincente per l’integrazione “dell’altra America” nella vecchia. Nel programma c’è il superamento di vincoli, lacci e lacciuoli che non lasciano l’individuo libero, solo con se stesso e con le sue ambizioni di farsi strada nella vita. I primi vincoli hanno a che fare con il mondo dell’economia, dove il governo è tuttora considerato responsabile della capacità del singolo americano di trovare lavoro, e delle sue opportunità di avere successo. E’ un’enormità nata negli anni Trenta con il New Deal, in quella spuria fase della storia del grande paese che solo oggi si è realmente intenzionati a chiudere. Molto è stato cambiato con il governo Reagan e anche dopo con Bush senior e con Clinton ma sinora le misure adottate hanno avuto il segno negativo, come “espropriazioni di diritti” da chi era stato toccato o come insufficienti dagli uomini del business.

Come è solo l’americano!

Invece il programma attuale ha un impianto ideologico teso a far accettare all’opinone pubblica come positiva, l’eliminazione di vincoli governativi, statali e federali super partes nelle relazioni tra il singolo e l’ambiente.
Ecco due possibili case study per ricercatori che indagassero empiricamente la natura ideologica del programma. Il primo riguarda l’intenzione, appassionatamente sostenuta dal presidente Bush, di porre fine alla class action e alla medical liability.
Nel sistema sociale americano non è previsto un attivismo sindacale e politico a sostegno dell’individuo colpito da un torto. E’ sinora esistita la strada dell’azione legale, con avvocati e giudici che a livello locale, stato per stato, dibattono e decidono il risarcimento del torto. Il risultato può essere la riparazione del danno con guadagni da parte degli avvocati e perdite da parte delle compagnie di assicurazioni e dei potentati economici federali. L’azione legale è una costosa scommessa e per correrla è prassi unirsi in più persone con il medesimo problema e affidarsi ad uno studio legale. E’ un’unione occasionale, meramente economica ma è comunque un’esperienza che vede da una parte l’individuo sperimentare il vantaggio dell’azione collettiva e, dall’altra parte, le lobby delle assicurazioni e del settore sanitario avere difficoltà.
Il governo Bush è intervenuto con gran successo a dare soccorso al business delle lobby e a porre fine alla condizione innaturale che spinge l’individuo a tradire il credo americano dell’individualismo. Secondo i suoi principi se l’individuo subisce un torto deve porvi rimedio da solo, e se non è in grado, allora accetti la sua debolezza e l’altrui forza.

La pensione me la gioco in borsa

“La privatizzazione delle pensioni” è l’altro case study che ben testimonia il rifiuto maturato verso il New Deal e la Great Society. Nella prospettiva che nel 2040 il costo della spesa pensionistica non sia affrontabile, il governo intende varare misure legislative che mettano il singolo lavoratore in condizioni tali da collocare in borsa i contributi previdenziali. Ne deriverebbero vantaggi per il lavoratore che potrebbe assicurarsi un reddito anche più elevato della pensione, per gli operatori di Wall Street per l’immissione di capitali e per gli enti previdenziali che supererebbero l’incubo del deficit. La proposta di giocarsi in borsa la pensione ha scatenato le critiche non solo dei politici democratici ma anche repubblicani, degli esperti, e persino dell’americano del ceto medio.

In realtà il senso della proposta non sta tanto nell’aspetto economico, il deficit previsto per il 2020 o il 2040, quanto nella rottura di uno dei cliché più consolidati del welfare dei paesi ricchi: l’ultima fase della vita va trascorso al riparo dalle tensioni economiche. La riforma della Casa Bianca di Bush è ispirata a una logica per cui l’individuo lavora, guadagna, gioca in borsa e rischia sino alla fine dei suoi giorni. Secondo tale logica l’individuo vive dentro una ininterrotta tensione materiale e spirituale, da affrontare in solitudine.

Nelle comunità in cui è inserito, nella scuola, sul lavoro, nei luoghi di residenza e di vacanza, sono in vigore le regole della cultura anglo-puritana: individualismo, competizione, valore della ricchezza, rispetto della forza. Le comunità religiose aiutano l’individuo a conformarsi alle regole. Anche nelle chiese cattoliche, nelle sinagoghe, nelle moschee, estranee a quella cultura, l’approccio richiesto è l’assuefazione all’altro da sé. La richiesta implicita nel passato oggi proviene dagli ideologi e dai politici persuasisi che la fine della società del New Deal, degli anni sessanta e novanta è la condizione per decontaminare l’America.

Karl Rove e la nuova democrazia

La messa al bando dei conflitti nella società e l’esaltazione delle comunità sono scelte politiche, intrinseche alle relazioni di potere dove chi decide è a una distanza siderale da chi esegue. Il mandato per decidere richiede però la democrazia procedurale come la più idonea a garantirsi il consenso di chi esegue. Rieletto trionfalmente presidente l’inquilino della Casa Bianca è un monarca. E come tale i suoi consiglieri gli possono suggerire iniziative radicali di politica interna e iniziative spericolate di politica estera. Bush ha tra i suoi fidi Karl Rove, un uomo senza ancora un capello bianco ma di cui si sono già scritte biografie.

Karl Rove è noto per aver fatto vincere a Bush la carica di governatore del Texas, la prima elezione a presidente, le elezioni di midterm e il secondo mandato. Ogni volta egli ha adattato la macchina elettorale all’occasione. Secondo la vulgata corrente, contro lo sfidante del partito democratico la mossa vincente è stata lo sbandierare l’estraneità dell’avversario, e la straordinaria somiglianza di Bush, con il leggendario uomo qualunque della provincia americana che ama il suo fucile, la sua casa, il suo paese, la Bibbia e odia la politica, gli intellettuali, gli stranieri.
In realtà Rove ha ottenuto l’ultimo successo utilizzando all’europea il partito repubblicano: presenza sul territorio, militanza organizzata, un programma ideologico mirato sull’elettore tradizionalmente astensionista.
Egli ha dato al suo presidente la maggioranza nelle istituzioni che contano e di conseguenza un potere senza limiti. E il presidente lo ha appena nominato responsabile del coordinamento della politica interna, della politica economica, della sicurezza nazionale e della sicurezza interna. E’ un accumulo di poteri senza controllo e contrappesi, che innova la natura delle democrazie, da quelle parlamentari a quelle partitiche, a quelle presidenziali.

Il New Conservative Federalism

Rove non è uno esperto di economia, di sicurezza, di questioni militari, è un ideologo che fa strategie di potere. In politica interna la sua strategia prevede un governo federale forte che limita l’autonomia degli stati con leggi e misure uguali per tutti. Paradossalmente il modello storico di riferimento sembrerebbe lo stato europeo nelle sue molte versioni, un po’ di Prussia guglielmina, un po’ di Austria asburgica, un bel po’ di Inghilterra vittoriana.

I suoi oppositori interni lo definiscono a big government conservatism e i repubblicani tradizionali sono preoccupati da un interventismo che spazia dal Patriot Act ai programmi scolastici delle scuole medie. Un interventismo eretico rispetto all’ideal tipo repubblicano, un interventismo che richiede soldi e burocrazia come costo della ristrutturazione del paese, come condizione per il pieno ripristino del credo originario anglo-puritano. Il fine giustifica i mezzi: è proprio il caso di dirlo. Il fine è quello di restituire l’America alle sue origini, di pulirla dalle incrostazioni del Novecento laico e socialisteggiante. I mezzi sono le regole da far accettare senza compromessi e cedimenti a chi mette piede nel grande paese, a chi vi lavora, a chi ci vive da tempo e ha potuto sinora ostentare idee e comportamenti diversi. Sono milioni gli americani che non si riconoscono nell’ideologia e nelle politiche della Casa Bianca ma sono tanto soli quanto gli altri che vi credono e vi si conformano.

Quasi come il Re Sole

Il new conservative federalism non ha spazi di confronto e di dissenso, la divisione è netta tra chi ci sta e chi è contro, tra amici e nemici. Esplicita è l’accusa di collusione tra gli americani che all’interno criticano il governo e i non americani che criticano l’America. Per i nemici interni ed esterni vale la strategia di attacco che da anni è sperimentata nelle relazioni internazionali. La strategia prevede la dismissione delle istituzioni e delle norme che nel corso del Novecento sono state inventate per sostenere il diritto internazionale. Il rifiuto va dalla Convenzione di Ginevra all’Onu sino al recentissimo Tribunale penale internazionale. Forte è la convinzione che istituzioni e norme esistenti non sono più adatti alla situazione attuale di guerra globale al terrorismo, la IV guerra mondiale nella definizione neoconservatrice. Il rifiuto si spinge sino alla norma eius regio cuius religio che da secoli regolava i rapporti tra stati sovrani. Le dismissioni non hanno un’accezione meramente distruttiva, di annullamento tout court delle strutture esistenti dei rapporti internazionali, esse sono la premessa per differenti norme e istituzioni.

Non c’è ancora un corpus teorico delle relazioni internazionali che inquadri le politiche dell’America di oggi verso il resto del mondo. Vi sono i discorsi del presidente e dei suoi ministri, le dichiarazioni dei suoi consiglieri, gli incoraggiamenti dei suoi esperti, le critiche dei suoi avversari. Ne viene fuori un abbozzo di quadro dove gli Stati Uniti sono al centro come un Luigi di Francia a Versailles. Essi hanno intorno amici e clientes con cui intrattengono scambi d’opinioni su business e democrazia mentre Richelieu - nelle fattezze contemporanee di Dick Cheney e Karl Rove - si occupa dei nemici e degli avversari. Le misure a difesa del paese vanno rese note al popolo cum grano salis perché non abbia dubbi sulla sua fortuna di essere americano, membro della nazione indispensabile al resto del mondo.

Guerra ai tiranni

La nazione indispensabile ha la missione di rendere il mondo simile all’America per la sicurezza dell’America. La missione prevede lotte ininterrotte contro i tiranni. Nel primo mandato i nemici dell’America erano definiti “l’asse del male”, nel secondo tiranni. La spia semantica segna il passaggio da una categoria etico-religiosa a una politica che appartiene alla cultura greca, alla nostra filosofia, al nostro passato. La distinzione tra bene e male anche nelle relazioni internazionali è servita a farsi votare dalla destra religiosa. Dopo il voto le aspettative delle lobby della destra religiosa sono state deluse mentre emergeva un altro approccio meglio spendibile sulla scena internazionale. La liberazione dai tiranni è l’espressione adatta per attrarre la laica Europa e per lanciare un avvertimento a nemici e clientes, sinora tollerati nonostante i loro regimi senza cabine elettorali. Il tempo della tolleranza sarebbe finito.

Per intenderci: togliere di mezzo l’Allende del Cile era necessario, sostituirlo con Pinochet può essere stato un errore.
L’esportazione della “democrazia chiavi in mano” è una svolta a 360 gradi per la politica estera del paese, ondeggiante da sempre tra isolazionismo e realismo. La svolta, suggerita dagli intellettuali neoconservatori, è stata sinora accettata dai Cheney e dai Rove perché democrazia e mercato sono più convenienti del dispotismo e del clientelismo. Il primo banco di prova è stato l’Iraq. L’esito elettorale è al buio, come se il cacciatore che ha costruito una trappola vi sia caduto dentro. Il cacciatore ha l’esperienza di Cheney e Rove e dunque uscirà dalla trappola.

In loro aiuto è appena arrivato John Negroponte, il supercapo della nuova intelligence. I tre insieme sono il bastione della fortezza America. Altro che gli ideologi neoconservatori. Dall’alto della fortezza essi guardano alla questione del rapporto con il resto del mondo, così deteriorato. La questione riguarda la possibilità di rendere universali le relazioni di potere ispirati alla cultura anglo-puritana del XVII secolo. Nell’America di Bush il tentativo è in corso. Ma altrove? C’è da sperare nel pragmatismo di Cheney, nel cinismo di Rove e nel’esperienza di Negroponte, nella loro disponibilità a capire che ciò che è possibile nel loro paese, non lo è altrove.
Non lo è in Europa dove nessuno vuole vivere solo con se stesso alla mercé delle norme anglo-puritane. Per noi europei, dunque, tener duro sullo strappo tra le due sponde dell’Atlantico significa andare avanti nel XXI secolo.

 

 

 

 

 

 

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