“Bush-due
meno unilaterale della passata amministrazione? Non
credo, ma una cosa sono le intenzioni, altra sono le
possibilità”.
Per Mario Del Pero, esperto di relazioni internazionali
– in modo particolare della politica americana
– e docente all’Università di Bologna,
la visita di Gorge W. Bush all’Unione europea
non nasconde nessuna conversione dell’amministrazione
americana, ma piuttosto è il segno che gli Usa
non riescono più a tenere sulle proprie, per
quanto possenti, spalle tutto il peso degli equilibri
mediorientali, vera chiave della politica mondiale.
Il viaggio di Bush segna davvero un riavvicinamento
concreto tra Usa e Unione europea nella politica internazionale?
Che cosa è cambiato tra le sponde atlantiche?
Trovo molto difficile dire quanto di effettivo ci
sia nel cambiamento dell’amministrazione Bush.
Ci sono stati, in questi ultimi anni, eventi importanti
di cui chi vuole essere protagonista della politica
internazionale non può non tenere conto.
Per gli Usa il fattore nuovo è rappresentato
dalle difficoltà in Medio Oriente e in Iraq;
per l’Unione e per tutti coloro che hanno criticato
l’intervento in Iraq, le modalità con
cui è stato deciso e poi condotto, l’elemento
di novità è costituito dalle elezioni
irachene: anche senza sopravvalutarne la portata non
si può negare che rappresentino un passaggio
importante. Se consideriamo questi due nuovi fattori
capiamo perché da entrambe le parti ci sia
il riconoscimento della necessità di operare
assieme.
La prima visita ufficiale del presidente
Bush alle istituzioni dell’Unione, il primo
volo della nuova amministrazione fuori dagli States
è atterrato proprio a Bruxelles. Insomma, i
valori simbolici messi in gioco erano tanti. Ma se
andiamo a guardare i contenuti degli incontri cosa
possiamo leggerci?
La simbologia ha una sua importanza perché
la frattura e l’allontanamento, tanto tra le
politiche quanto tra le opinioni pubbliche sulle due
sponde dell’Atlantico, sono stati catalizzati
anche da elementi simbolici, dalle dichiarazioni di
alcuni leader europei, dall’emergere di un certo
antiamericanismo, fino alle frasi di Rumsfeld su quella
che ha definito la Vecchia Europa. Quindi la simbologia
ha una certa rilevanza e non va sottovalutata.
Io mi occupo di politica estera americana, ne studio
la storia e lo faccio anche analizzandone l’ideologia.
Ora, se vado a leggere i testi degli interventi di
Bush, come il discorso del giorno dell’insediamento
o quello sullo stato dell’Unione di questa seconda
presidenza, oppure se analizzo gli interventi e le
dichiarazioni della Rice, non posso evidenziare mutamenti
significativi, anzi vi si legge un rilancio di quei
tòpoi ideologici attraverso i quali si è
andata costruendo quella che possiamo chiamare la
dottrina Bush.
Al momento però, il problema per gli Stati
Uniti non sono tanto le intenzioni, che sono rimaste
le stesse del 2003, quanto invece le possibilità.
Ad esempio, il fatto che gran parte delle forze armate
sia impegnata in Iraq, rende gli Stati Uniti incapaci
di dare corso, da soli, a una agenda più ambiziosa
progettata tre vanni fa e di cui l’Iraq sarebbe
stata solo una prima tappa. Ora hanno anzi bisogno
di qualcun altro per provare a rimettere la questione
irachena su binari diversi. Quindi, se le intenzioni
restano uguali ma gli strumenti non permettono di
dare corso a questi interventi, bisogna muoversi altrimenti.
L’Iraq è una tappa dell’agenda
della politica estera americana, si è detto.
Seguono poi la Siria, l’Iran…
Quello che accadrà della questione iraniana
sarà, secondo me, abbastanza dirimente per
la politica internazionale del prossimo futuro. Usa
e Unione europea mantengo due posizioni diverse e
l’Europa sull’Iran ha deciso di spendersi,
di cercare una mediazione e trovare un’alternativa
alla via della rigidità. Un programma europeo
è stato messo sul tavolo, ed è fatto
di accordi commerciali, aiuti e rinuncia al programma
nucleare da parte dell’Iran. Ora bisogna vedere
se l’Ue riuscirà a portare avanti il
suo progetto, se gli Usa non lo boicottano e, in ultima
istanza, se lo accettano sarà la dimostrazione
che un certo equilibrio si è raggiunto.
E, se così sarà, si tratterà
di un equilibrio in cui i neoconservatori della seconda
amministrazione Bush dovranno mettere da parte le
loro idee sugli equilibri internazionali?
La dottrina dei neocon si è qualificata per
il fatto di proporre un interventismo statunitense
nelle vicende interne di altri paesi a mutarne la
natura dei sistemi politici, se necessario anche con
l’uso della violenza. Altri interventisti, più
moderati, rifiutavano questa idea perché la
ritenevano incauta e controproducente.
Ma se vogliamo ricostruire una genealogia del pensiero
neoconservatore dobbiamo assumere il Medio Oriente
come nodo centrale. Negli anni Settanta – con
Kissinger prima e Carter poi – gli Stati Uniti
riconfiguravano un assetto geopolitico mediorientale
che vedeva uscire l’Iran dall’area di
influenza americana, l’Egitto allontanarsi dalle
influenze sovietiche mentre si stringeva un legame
privilegiato tra Usa e Arabia Saudita. Allora i neoconservatori
denunciavano tutto ciò ponendo l’accento
sul fatto che, secondo loro, in Medio Oriente gli
Stati Uniti stavano rinunciando a costruire un’egemonia
culturale che sola avrebbe garantito sicurezza; in
nome di un realismo che consentiva l’accesso
a certe risorse e una supposta stabilità regionale,
gli Usa hanno rinunciato a occidentalizzare il Medio
Oriente. Questo è alla base del pensiero dei
neoconservatori, e l’11 settembre, ai loro occhi,
non è altro che la prova della correttezza
della loro analisi.
Ora, non credo che ci siano i presupposti perché
questa visione della politica internazionale possa
cedere il passo all’interno della nuova amministrazione.
Anche se però va detto che i neocon hanno avuto
grande rilievo nel governo americano dopo l’11
settembre, ma non hanno un ruolo egemonico nell’esecutivo.
Ne è la prova che chi temeva una loro conquista
del Dipartimento di Stato è stato smentito.
Fin qui il modo con cui gli Usa di Bush guardano
la politica internazionale. E l’Unione europea,
invece, ce l’ha una sua visione del mondo?
Non so se dentro l’Ue, intesa dal punto di vista
istituzionale, ci sia una visione, cosa che tra l’altro
comporterebbe all’origine una politica estera
comune che ancora non c’è. La mia impressione
è che dentro l’Unione si sia formata
una sorta di koinè condivisa tra le varie opinioni
pubbliche europee, e si vada così formando
un’opinione pubblica europea legata a una visione,
a volte anche molto stereotipata, di quello che l’Europa
è, dei valori che essa incarna, delle differenze
con gli Usa. Dentro questa opinione pubblica si potrebbe
formare certamente un’idea dell’Europa
nel mondo e delle possibilità che l’Europa
ha di intervenire nelle questioni internazionali,
ma quello che mi pare emerga sia l’idea di una
certa eccezionalità europea. Se l’eccezionalismo
americano è un tema di lungo corso assai studiato,
sembra di percepire nelle modalità in cui ci
si vede e ci si rappresenta l’idea che l’Europa
sia qualcosa di eccezionale e di unico, un po’
un modello per il resto del mondo. Non so se questo
stimolerà una sorta di “missionarismo
europeo”, con tutte le virgolette del caso,
cioè una voglia europea di intervenire nelle
vicende internazionali e di offrire strumenti per
risolvere eventuali crisi.
L’Europa vista dagli States. Fioriscono
in America libri di intellettuali, studiosi, giornalisti
di area liberal e democratica che guardano oltre l’Atlantico
con grande ammirazione. L’Europa, dicono, è
un modello da cui gli Usa devono imparare la tolleranza,
l’attenzione allo stato sociale, una politica
estera in cui la guerra è sempre l’ultima
scelta. Si tratta semplicemente di opposizione anti-repubblicana
oppure esiste un sentimento che avvicina certi ambienti
democratici americani a una visione europea della
società e della politica?
È una domanda complicata. All’interno
di una certa intellighenzia liberal esiste già
da tempo, prima dell’11 settembre e prima del
clintonismo, una qualche ammirazione verso tratti
europei, come appunto alcuni aspetti dello stato sociale.
Esiste,in altre parole, un’America che subisce
un certo fascino europeo. All’origine ci sono
tanti fattori. C’è stata la crisi della
new economy che ha sollevato domande sulla sostenibilità
del capitalismo americano e dell’opportunità
di un modello sociale ispirato all’Europa.
La crisi seguita all’11 settembre e alla guerra
in Iraq, poi, ha mostrato un’Europa che sembrava
in grado di offrire un modello di dialogo multilaterale,
quindi un modo di gestione delle crisi internazionali
più efficace e pratico, e in ultima istanza
giusto, di quello americano. Non solo, ci sono storici
e studiosi che sostengono che l’Europa, da questo
punto di vista, incarna un modello che gli Stati Uniti,
negli ultimi quaranta o cinquant’anni hanno
efficacemente costruito prima che arrivasse il ciclone
Bush. L’Europa offrirebbe così un modello
di diplomazia che è stato americano e che,
dicono questi studiosi, gli americani hanno insegnato
per certi aspetti all’Europa e ora l’hanno
dimenticato.
Queste sono due dinamiche che possono far guardare
all’Europa come un certo tipo di modello per
gli Usa: da una parte la crisi internazionale e la
capacità dell’Europa di sapersi muovere
con strumenti multilaterali apprezzati, dall’altra,
la fine dell’euforia insana degli anni Novanta
e un’introspezione autocritica sulla sostenibilità
del capitalismo americano. Ma va detto che certi intellettuali
americani hanno una visione edulcorata e, direi, agiografica
del Vecchio Continente, sono innamorati dell’Europa
colta, dell’Europa tollerante, dell’Europa
raffinata, ma quando vengono a visitare le nostre
città vedono che la realtà, a volte,
è molto diversa.
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