273 - 12.03.05


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Il Medio Oriente
tra Usa e Ue
Mario Del Pero con
Mauro Buonocore

“Bush-due meno unilaterale della passata amministrazione? Non credo, ma una cosa sono le intenzioni, altra sono le possibilità”.
Per Mario Del Pero, esperto di relazioni internazionali – in modo particolare della politica americana – e docente all’Università di Bologna, la visita di Gorge W. Bush all’Unione europea non nasconde nessuna conversione dell’amministrazione americana, ma piuttosto è il segno che gli Usa non riescono più a tenere sulle proprie, per quanto possenti, spalle tutto il peso degli equilibri mediorientali, vera chiave della politica mondiale.

Il viaggio di Bush segna davvero un riavvicinamento concreto tra Usa e Unione europea nella politica internazionale? Che cosa è cambiato tra le sponde atlantiche?

Trovo molto difficile dire quanto di effettivo ci sia nel cambiamento dell’amministrazione Bush. Ci sono stati, in questi ultimi anni, eventi importanti di cui chi vuole essere protagonista della politica internazionale non può non tenere conto.
Per gli Usa il fattore nuovo è rappresentato dalle difficoltà in Medio Oriente e in Iraq; per l’Unione e per tutti coloro che hanno criticato l’intervento in Iraq, le modalità con cui è stato deciso e poi condotto, l’elemento di novità è costituito dalle elezioni irachene: anche senza sopravvalutarne la portata non si può negare che rappresentino un passaggio importante. Se consideriamo questi due nuovi fattori capiamo perché da entrambe le parti ci sia il riconoscimento della necessità di operare assieme.

La prima visita ufficiale del presidente Bush alle istituzioni dell’Unione, il primo volo della nuova amministrazione fuori dagli States è atterrato proprio a Bruxelles. Insomma, i valori simbolici messi in gioco erano tanti. Ma se andiamo a guardare i contenuti degli incontri cosa possiamo leggerci?

La simbologia ha una sua importanza perché la frattura e l’allontanamento, tanto tra le politiche quanto tra le opinioni pubbliche sulle due sponde dell’Atlantico, sono stati catalizzati anche da elementi simbolici, dalle dichiarazioni di alcuni leader europei, dall’emergere di un certo antiamericanismo, fino alle frasi di Rumsfeld su quella che ha definito la Vecchia Europa. Quindi la simbologia ha una certa rilevanza e non va sottovalutata.

Io mi occupo di politica estera americana, ne studio la storia e lo faccio anche analizzandone l’ideologia. Ora, se vado a leggere i testi degli interventi di Bush, come il discorso del giorno dell’insediamento o quello sullo stato dell’Unione di questa seconda presidenza, oppure se analizzo gli interventi e le dichiarazioni della Rice, non posso evidenziare mutamenti significativi, anzi vi si legge un rilancio di quei tòpoi ideologici attraverso i quali si è andata costruendo quella che possiamo chiamare la dottrina Bush.

Al momento però, il problema per gli Stati Uniti non sono tanto le intenzioni, che sono rimaste le stesse del 2003, quanto invece le possibilità. Ad esempio, il fatto che gran parte delle forze armate sia impegnata in Iraq, rende gli Stati Uniti incapaci di dare corso, da soli, a una agenda più ambiziosa progettata tre vanni fa e di cui l’Iraq sarebbe stata solo una prima tappa. Ora hanno anzi bisogno di qualcun altro per provare a rimettere la questione irachena su binari diversi. Quindi, se le intenzioni restano uguali ma gli strumenti non permettono di dare corso a questi interventi, bisogna muoversi altrimenti.

L’Iraq è una tappa dell’agenda della politica estera americana, si è detto. Seguono poi la Siria, l’Iran…

Quello che accadrà della questione iraniana sarà, secondo me, abbastanza dirimente per la politica internazionale del prossimo futuro. Usa e Unione europea mantengo due posizioni diverse e l’Europa sull’Iran ha deciso di spendersi, di cercare una mediazione e trovare un’alternativa alla via della rigidità. Un programma europeo è stato messo sul tavolo, ed è fatto di accordi commerciali, aiuti e rinuncia al programma nucleare da parte dell’Iran. Ora bisogna vedere se l’Ue riuscirà a portare avanti il suo progetto, se gli Usa non lo boicottano e, in ultima istanza, se lo accettano sarà la dimostrazione che un certo equilibrio si è raggiunto.

E, se così sarà, si tratterà di un equilibrio in cui i neoconservatori della seconda amministrazione Bush dovranno mettere da parte le loro idee sugli equilibri internazionali?

La dottrina dei neocon si è qualificata per il fatto di proporre un interventismo statunitense nelle vicende interne di altri paesi a mutarne la natura dei sistemi politici, se necessario anche con l’uso della violenza. Altri interventisti, più moderati, rifiutavano questa idea perché la ritenevano incauta e controproducente.
Ma se vogliamo ricostruire una genealogia del pensiero neoconservatore dobbiamo assumere il Medio Oriente come nodo centrale. Negli anni Settanta – con Kissinger prima e Carter poi – gli Stati Uniti riconfiguravano un assetto geopolitico mediorientale che vedeva uscire l’Iran dall’area di influenza americana, l’Egitto allontanarsi dalle influenze sovietiche mentre si stringeva un legame privilegiato tra Usa e Arabia Saudita. Allora i neoconservatori denunciavano tutto ciò ponendo l’accento sul fatto che, secondo loro, in Medio Oriente gli Stati Uniti stavano rinunciando a costruire un’egemonia culturale che sola avrebbe garantito sicurezza; in nome di un realismo che consentiva l’accesso a certe risorse e una supposta stabilità regionale, gli Usa hanno rinunciato a occidentalizzare il Medio Oriente. Questo è alla base del pensiero dei neoconservatori, e l’11 settembre, ai loro occhi, non è altro che la prova della correttezza della loro analisi.

Ora, non credo che ci siano i presupposti perché questa visione della politica internazionale possa cedere il passo all’interno della nuova amministrazione. Anche se però va detto che i neocon hanno avuto grande rilievo nel governo americano dopo l’11 settembre, ma non hanno un ruolo egemonico nell’esecutivo. Ne è la prova che chi temeva una loro conquista del Dipartimento di Stato è stato smentito.

Fin qui il modo con cui gli Usa di Bush guardano la politica internazionale. E l’Unione europea, invece, ce l’ha una sua visione del mondo?

Non so se dentro l’Ue, intesa dal punto di vista istituzionale, ci sia una visione, cosa che tra l’altro comporterebbe all’origine una politica estera comune che ancora non c’è. La mia impressione è che dentro l’Unione si sia formata una sorta di koinè condivisa tra le varie opinioni pubbliche europee, e si vada così formando un’opinione pubblica europea legata a una visione, a volte anche molto stereotipata, di quello che l’Europa è, dei valori che essa incarna, delle differenze con gli Usa. Dentro questa opinione pubblica si potrebbe formare certamente un’idea dell’Europa nel mondo e delle possibilità che l’Europa ha di intervenire nelle questioni internazionali, ma quello che mi pare emerga sia l’idea di una certa eccezionalità europea. Se l’eccezionalismo americano è un tema di lungo corso assai studiato, sembra di percepire nelle modalità in cui ci si vede e ci si rappresenta l’idea che l’Europa sia qualcosa di eccezionale e di unico, un po’ un modello per il resto del mondo. Non so se questo stimolerà una sorta di “missionarismo europeo”, con tutte le virgolette del caso, cioè una voglia europea di intervenire nelle vicende internazionali e di offrire strumenti per risolvere eventuali crisi.

L’Europa vista dagli States. Fioriscono in America libri di intellettuali, studiosi, giornalisti di area liberal e democratica che guardano oltre l’Atlantico con grande ammirazione. L’Europa, dicono, è un modello da cui gli Usa devono imparare la tolleranza, l’attenzione allo stato sociale, una politica estera in cui la guerra è sempre l’ultima scelta. Si tratta semplicemente di opposizione anti-repubblicana oppure esiste un sentimento che avvicina certi ambienti democratici americani a una visione europea della società e della politica?

È una domanda complicata. All’interno di una certa intellighenzia liberal esiste già da tempo, prima dell’11 settembre e prima del clintonismo, una qualche ammirazione verso tratti europei, come appunto alcuni aspetti dello stato sociale. Esiste,in altre parole, un’America che subisce un certo fascino europeo. All’origine ci sono tanti fattori. C’è stata la crisi della new economy che ha sollevato domande sulla sostenibilità del capitalismo americano e dell’opportunità di un modello sociale ispirato all’Europa.
La crisi seguita all’11 settembre e alla guerra in Iraq, poi, ha mostrato un’Europa che sembrava in grado di offrire un modello di dialogo multilaterale, quindi un modo di gestione delle crisi internazionali più efficace e pratico, e in ultima istanza giusto, di quello americano. Non solo, ci sono storici e studiosi che sostengono che l’Europa, da questo punto di vista, incarna un modello che gli Stati Uniti, negli ultimi quaranta o cinquant’anni hanno efficacemente costruito prima che arrivasse il ciclone Bush. L’Europa offrirebbe così un modello di diplomazia che è stato americano e che, dicono questi studiosi, gli americani hanno insegnato per certi aspetti all’Europa e ora l’hanno dimenticato.
Queste sono due dinamiche che possono far guardare all’Europa come un certo tipo di modello per gli Usa: da una parte la crisi internazionale e la capacità dell’Europa di sapersi muovere con strumenti multilaterali apprezzati, dall’altra, la fine dell’euforia insana degli anni Novanta e un’introspezione autocritica sulla sostenibilità del capitalismo americano. Ma va detto che certi intellettuali americani hanno una visione edulcorata e, direi, agiografica del Vecchio Continente, sono innamorati dell’Europa colta, dell’Europa tollerante, dell’Europa raffinata, ma quando vengono a visitare le nostre città vedono che la realtà, a volte, è molto diversa.

 

 

 

 

 

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