Amartya Sen e Jagdish Bhagwati sono
stati ospiti della Luiss Guido Carli, in due contesti
diversi, rispettivamente mercoledì 19 e venerdì
20 gennaio.
Si tratta, forse, di qualcosa di più di una semplice
coincidenza. Sen e Bhagwati sono infatti due intellettuali.
Prima di tutto, pur essendosi affermati nel mondo accademico
anglosassone, sono entrambi di origine indiana. E tutti
e due hanno conservato un rapporto stretto, non solo
ideale, con la loro patria di origine, in cui hanno
anche insegnato per periodi non brevi della loro vita.
Entrambi si occupano poi di economia politica con un’attenzione
sia ai problemi teorici e filosofici sia a quelli più
prettamente empirici della disciplina. Entrambi hanno
messo al centro dei loro interessi l’evento epocale
che va sotto il nome di globalizzazione e che definisce,
con un termine a suo modo ambiguo, quel processo di
integrazione e connessione che interessa sempre più
i mercati finanziari e commerciali a livello mondiale.
Tralasciando il fatto che Sen ha vinto nel 1988 il
Premio Nobel per l’Economia e che Bhagwati è
in lizza per vincerlo già da qualche anno,
particolarmente interessante è, a mio avviso,
andare oltre le affinità esteriori e entrare,
seppure a volo di uccello, nel nucleo di idee che
forma il loro sistema di pensiero. Anche perché
i due sono rappresentanti, almeno in apparenza, di
due prospettive culturali non solo diverse ma antitetiche:
di due diversi modi di aprirsi a giudicare il mondo
contemporaneo.
Sen, pur non avendo nulla da spartire con i “no
global”, è sicuramente un critico degli
sviluppi della globalizzazione. In particolare, egli
ritiene che essa vada governata attraverso una redistribuzione
delle ricchezze e una maggiore giustizia sociale a
livello globale. Nulla di più lontano perciò,
almeno prima facie, dall’appassionato Elogio
della globalizzazione scritto da Bhagwati e appena
uscito per Laterza. Senonché, se si va a un’analisi
più attenta, si scopre che la critica di Sen
alla globalizzazione va inserita in un contesto più
ampio, va riferita all’impostazione nettamente
antieconomicista del suo pensiero. Il Premio Nobel
aggredisce l’economicismo da due punti di vista:
da una parte criticando il concetto classico di “qualità
della vita”; dall’altra legando il successo
economico e lo sviluppo di una nazione a elementi
morali e simbolici quali il rispetto dei diritti civili
e la libertà umana. Dal primo punto di vista,
Sen, che sviluppa le idee sulla “natura umana”
di Aristotele e Marx, ritiene che uomini e donne non
possono essere definiti per ciò che sono, ma
per la capacità che hanno, per le possibilità
che sono sì personali, ma che uno stato giusto
deve favorire. Ad esempio, garantendo a ognuno un
ampio ventaglio di scelte: liberi si è, in
effetti, solo quando su ogni cosa importante si può
scegliere fra diverse opzioni. Ciò comporta,
dal secondo punto di vista, che uno stato libero riesce
a far fronte con più forza agli stessi problemi
di distribuzione della ricchezza.
Sen mostra, con esempi concreti e con studi empirici
(ad esempio sulle carestie in India) come lo sviluppo
si è realizzato in modo più rapido e
profondo in quei paesi che si sono posti il compito
di realizzare vasti programmi di alfabetizzazione
e di assistenza sanitaria. Lo stesso indice di democrazia
delle istituzioni di un paese è in connessione
stretta con la sua forza economica.
Ora, se si passa a esaminare l’opera di Bhagwati,
si scopre che il suo elogio della globalizzazione
non è tanto la difesa del liberismo selvaggio
ma proprio di quel mondo di scambi, simbolici prima
che materiali, che favoriscono e forse definiscono
la stessa libertà umana. Il contatto facilitato
fra popoli, tradizioni, culture, non è forse
un fattore di arricchimento reciproco, da ogni punto
di vista? E non è ciò a cui l’uomo,
almeno quello occidentale, ha da sempre teso, fin
da quando ha sfidato gli dei e i limiti artificiali
imposti al suo destino? E, al contrario, la chiusura,
l’appartenenza, l’identità costruita
su paradigmi precostituiti non sono un limite? Se
poi a tutto questo aggiungiamo, come Bhagwati magistralmente
fa, che in questi anni la povertà mondiale
non è affatto cresciuta, il lavoro minorile
non è aumentato, la situazione femminile non
è stata penalizzata, che la democrazia e la
cultura pure non hanno peggiorato, che i salari e
gli standard del lavoro non sono a repentaglio, che
l’ambiente non è più a rischio
di un tempo….. Beh, ci rendiamo conto, allora,
che la retorica “no global” prende forse
le mosse da esigenze condivisibili ma si rivolge sicuramente
ai nemici sbagliati.
Oggi, il mondo è in crisi perché hanno
preso vigore i fondamentalismi e il terrorismo. Ma
siamo proprio sicuri che “è la povertà
la responsabile della violenza”(è il
titolo della lecture che Sen ha tenuto in Luiss )?
E non potrebbero i guai essere una sorta di crisi
di crescenza, la reazione di comunità chiuse
e illiberali che si sentono sempre più assediate?
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