272 - 26.02.05


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Sen e Bhagwati:
sulla globalizzazione
Corrado Ocone

Amartya Sen e Jagdish Bhagwati sono stati ospiti della Luiss Guido Carli, in due contesti diversi, rispettivamente mercoledì 19 e venerdì 20 gennaio.
Si tratta, forse, di qualcosa di più di una semplice coincidenza. Sen e Bhagwati sono infatti due intellettuali. Prima di tutto, pur essendosi affermati nel mondo accademico anglosassone, sono entrambi di origine indiana. E tutti e due hanno conservato un rapporto stretto, non solo ideale, con la loro patria di origine, in cui hanno anche insegnato per periodi non brevi della loro vita. Entrambi si occupano poi di economia politica con un’attenzione sia ai problemi teorici e filosofici sia a quelli più prettamente empirici della disciplina. Entrambi hanno messo al centro dei loro interessi l’evento epocale che va sotto il nome di globalizzazione e che definisce, con un termine a suo modo ambiguo, quel processo di integrazione e connessione che interessa sempre più i mercati finanziari e commerciali a livello mondiale.

Tralasciando il fatto che Sen ha vinto nel 1988 il Premio Nobel per l’Economia e che Bhagwati è in lizza per vincerlo già da qualche anno, particolarmente interessante è, a mio avviso, andare oltre le affinità esteriori e entrare, seppure a volo di uccello, nel nucleo di idee che forma il loro sistema di pensiero. Anche perché i due sono rappresentanti, almeno in apparenza, di due prospettive culturali non solo diverse ma antitetiche: di due diversi modi di aprirsi a giudicare il mondo contemporaneo.

Sen, pur non avendo nulla da spartire con i “no global”, è sicuramente un critico degli sviluppi della globalizzazione. In particolare, egli ritiene che essa vada governata attraverso una redistribuzione delle ricchezze e una maggiore giustizia sociale a livello globale. Nulla di più lontano perciò, almeno prima facie, dall’appassionato Elogio della globalizzazione scritto da Bhagwati e appena uscito per Laterza. Senonché, se si va a un’analisi più attenta, si scopre che la critica di Sen alla globalizzazione va inserita in un contesto più ampio, va riferita all’impostazione nettamente antieconomicista del suo pensiero. Il Premio Nobel aggredisce l’economicismo da due punti di vista: da una parte criticando il concetto classico di “qualità della vita”; dall’altra legando il successo economico e lo sviluppo di una nazione a elementi morali e simbolici quali il rispetto dei diritti civili e la libertà umana. Dal primo punto di vista, Sen, che sviluppa le idee sulla “natura umana” di Aristotele e Marx, ritiene che uomini e donne non possono essere definiti per ciò che sono, ma per la capacità che hanno, per le possibilità che sono sì personali, ma che uno stato giusto deve favorire. Ad esempio, garantendo a ognuno un ampio ventaglio di scelte: liberi si è, in effetti, solo quando su ogni cosa importante si può scegliere fra diverse opzioni. Ciò comporta, dal secondo punto di vista, che uno stato libero riesce a far fronte con più forza agli stessi problemi di distribuzione della ricchezza.

Sen mostra, con esempi concreti e con studi empirici (ad esempio sulle carestie in India) come lo sviluppo si è realizzato in modo più rapido e profondo in quei paesi che si sono posti il compito di realizzare vasti programmi di alfabetizzazione e di assistenza sanitaria. Lo stesso indice di democrazia delle istituzioni di un paese è in connessione stretta con la sua forza economica.

Ora, se si passa a esaminare l’opera di Bhagwati, si scopre che il suo elogio della globalizzazione non è tanto la difesa del liberismo selvaggio ma proprio di quel mondo di scambi, simbolici prima che materiali, che favoriscono e forse definiscono la stessa libertà umana. Il contatto facilitato fra popoli, tradizioni, culture, non è forse un fattore di arricchimento reciproco, da ogni punto di vista? E non è ciò a cui l’uomo, almeno quello occidentale, ha da sempre teso, fin da quando ha sfidato gli dei e i limiti artificiali imposti al suo destino? E, al contrario, la chiusura, l’appartenenza, l’identità costruita su paradigmi precostituiti non sono un limite? Se poi a tutto questo aggiungiamo, come Bhagwati magistralmente fa, che in questi anni la povertà mondiale non è affatto cresciuta, il lavoro minorile non è aumentato, la situazione femminile non è stata penalizzata, che la democrazia e la cultura pure non hanno peggiorato, che i salari e gli standard del lavoro non sono a repentaglio, che l’ambiente non è più a rischio di un tempo….. Beh, ci rendiamo conto, allora, che la retorica “no global” prende forse le mosse da esigenze condivisibili ma si rivolge sicuramente ai nemici sbagliati.

Oggi, il mondo è in crisi perché hanno preso vigore i fondamentalismi e il terrorismo. Ma siamo proprio sicuri che “è la povertà la responsabile della violenza”(è il titolo della lecture che Sen ha tenuto in Luiss )? E non potrebbero i guai essere una sorta di crisi di crescenza, la reazione di comunità chiuse e illiberali che si sentono sempre più assediate?

 

 

 

 

 

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