Arriva trafelata, un po’ in ritardo
a causa dell’aereo, sorridente e al tempo stesso
ansiosa di conoscere il suo uditorio: anche se di discorsi
in pubblico ne deve aver fatti Kerry Kennedy, questo
avvocato di quarant’anni con il viso di una ragazzina,
visto che da anni si dedica ai temi dei diritti dell’infanzia,
del lavoro minorile, della scomparsa di persone, del
diritto alla terra di popolazioni indigene, della libertà
di espressione, l’ambiente, ed è, oltre
che membro del consiglio di amministrazione del Robert
F. Kennedy Memorial Center for Human Rights (da lei
istituito nel lontano 1988), anche Presidente dell’Amnesty
International Leadership country.
Impossibile fare un racconto neutro della lecture
tenutasi alla Luiss Guido Carli di Roma per il secondo
incontro del ciclo «Atlante Luiss 2006».
Le riflessioni di Kerry Kennedy sono infatti prima
di tutto emozioni, che vengono trasmesse al pubblico
in una sorta di benefico elettroshock. La
sua calda voce femminile (una musica davvero nuova:
chi vive in Italia e va abitualmente a convegni e
conferenze è del tutto abituato a trovarsi
di fronte panel esclusivamente maschili,
e in genere avanti con l’età, e non vi
fa più caso) racconta con passione e insieme
sicurezza i motivi per i quali ha deciso di dedicarsi
a tempo pieno alla difesa dei diritti umani nel mondo.
Ed è un motivo semplice e forse ovvio, che
appare però a chi ascolta improvvisamente scioccante
e inaccettabile: non si tratta della sua personale
vicenda biografica – Kerry è la figlia
di Bob Kennedy – ma di una constatazione brutale
che ha potuto fare non appena entrata, giovanissima,
in Amnesty International. Dal suo osservatorio americano,
poteva infatti vedere che chi, come lei, al di fuori
dell’America, si occupava di diritti umani era
imprigionato, torturato, privato della libertà.
Un sentimento di orrore e di sdegno che ha generato
la decisione di dedicare la sua vita a fianco di chi
ha subito violenza, solo perché chiedeva giustizia.
Perché occuparsi di diritti umani oggi?
Rispetto alla sua infanzia, dice Kerry Kennedy, alcune
situazioni critiche di oppressione non ci sono più.
Allora le dittature militari spadroneggiavano in Sudamerica,
oggi resta solo Cuba. Allora il comunismo era ancora
al governo, oggi resta solo in Cina. Allora in Sudafrica
i diritti delle persone di colore erano calpestati,
oggi no; allora nessuno parlava di diritti delle donne,
oggi essi sono sanciti in 172 paesi.
Si tratta di cambiamenti i cui meriti non sono ascrivibili
alle volontà dei governi, che spesso hanno
cercato di soffocare i movimenti per i diritti civili;
né tanto meno al militarismo, né all’azione
delle grandi aziende multinazionali: sono state invece
quelle persone “normali”, in carne e ossa,
con poche risorse grande determinazione e sogni di
libertà, a spazzare via la repressione e aprire
strade di libertà.
Nonostante i loro sforzi, tuttavia, nota Kerry Kennedy,
il mondo di oggi presenta oppressioni drammatiche,
e la gran parte di esse ruota intorno allo stesso
soggetto, la donna: milioni di aborti o uccisioni
di neonati femminili in Cina; migliaia di donne picchiate
e uccise da figli e mariti ovunque, in Russia, Congo,
Bosnia, Rwanda; donne che non vanno a scuola, donne
sottoposte a mutilazioni genitali o oggetto di commercio
sessuale, donne contagiate dall’hiv a causa
della prostituzione forzata. Ma gli abusi non avvengono
solo nei paesi cosiddetti poco sviluppati. In America
una donna su tre, le statistiche sono agghiaccianti,
ha subito una forma di violenza. Provate, dice, usando
un artificio retorico per far capire la portata del
dramma, a pensare a tutte le donne che conoscete e
sappiate che, statisticamente, una su tre ha subito
una qualche forma di violenza, a casa e sul lavoro.
Non ne siete a conoscenza? Bene, ciò è
unicamente il segno che la vergogna e la paura sono
così grandi che chi ha subito torti orrendi
non ha nemmeno il coraggio di confidarsi con amiche
e familiari.
Kerry ricorda, una per una e con un nome di fantasia,
tutte le donne a lei vicine che sono state vittime
di abusi, e sono ben 14: tutte le hanno confidato
ciò che è successo, una sola è
andata dalla polizia (in molti paesi tra l’altro,
ricorda, esiste ancora il reato di onore, che spesso
impedisce la denuncia). E ancora: sempre nei paesi
sviluppati, la diversità delle retribuzioni,
l’assenza di servizi, il peso della cura di
bambini e anziani fa sì che uomini e donne
non siano ancora, realmente, uguali.
Come permettere che tutto ciò continui? Come
vivere nell’indifferenza rispetto ai milioni
di tragiche vicende individuali, segnate dalla violenza
e dalla sofferenza psichica e fisica?
Un motivo di speranza, conclude questo formidabile
avvocato appassionato, può essere individuato
proprio nella rabbia di chi ha patito i soprusi. L’emozione
della rabbia infatti, in sé certamente negativa
e potenzialmente distruttiva, può, se incanalata
nella giusta maniera, fornire un serbatoio di energia
e motivazioni per operare un cambiamento, perché
la violenza non si ripeta. Basterebbe che le donne
acquisissero maggiore consapevolezza e sicurezza perché
le loro azioni finalmente possano divenire riconosciute
e rispettate.
Una rivoluzione, dalla forza della disperazione.
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