Questo articolo è l'intervento
tenuto da Daniel Gros al convegno internazionale Turkey
and the European Union:reason for a historic choice,
organizzato a Bruxelles presso la sede del Parlamento
europeo dal Partito Radicale Transnazionale, Alde e
No Peace without Justice.
Tra le problematiche che mette in campo l’ingresso
della Turchia dell’Unione ce ne sono molte di
natura di economica; e quando parliamo di economia è
meglio mettere da parte ogni idealismo ed essere realisti
il più possibile.
Andiamo subito a guardare quali sono le questioni economiche
concrete della discussione sull’adesione della
Turchia all’Ue.
Uno dei temi più grandi e importanti riguarda
i timori legati al fatto che la Turchia è un
paese molto popoloso e allo stesso tempo, per certi
aspetti, è un paese povero, che rischia di pesare
sull’economia dell’Unione e di stravolgerne
tutti i piani legati all’immigrazione. Altri critici
sostengono poi che Ankara non riuscirà mai a
tenere il passo di sviluppo degli altri grandi mercati
del Vecchio Continente.
La mia risposta a tali opposizioni è che esse
sembrano ispirarsi al passato piuttosto che fondarsi
sul nostro presente per guardare al futuro.
È molto poco risaputo – si tratta anzi
di un’idea comunemente non accettata – che
la Turchia già da tempo ha acquisito una notevole
dimestichezza con i meccanismi moderni di transazione
economica. Esistono già da anni partnership tra
aziende europee e turche. La vitalità economica
della Turchia è superiore a quella di paesi come
la Romania e la Bulgaria, che pure sono in procinto
di fare il loro ingresso nell’Unione. La Turchia
resta comunque una nazione molto povera, che nelle classifiche
stilate utilizzando i principali indicatori economici
occupa sempre una posizione molto vicina a Bulgaria
e Romania, verso le quali si può notare un atteggiamento
di maggiore apertura quando si parla di ingresso nell’Ue.
L’immigrazione come risorsa
Eppure, anche se l’interesse della Turchia
a far parte dell’Unione europea sembra molto
più forte di quello di altri Paesi, l’adesione
suscita sempre molte discussioni e mostra, fra gli
altri, almeno due punti essenziali, uno negativo e
uno positivo.
Il primo riguarda il fatto che livello di partecipazione
alla vita politica da parte dei cittadini turchi è
ancora molto basso, e peraltro irregolare, soprattutto
per quanto riguarda le donne o alcune aree geografiche;
irregolarità, questa, che riguarda anche la
distribuzione della produttività nei vari settori,
per cui ci troviamo di fronte a un panorama ion cui
le aree di produttività dominanti godono di
un adeguato capitale, mentre altre si ritrovano a
costituire sacche ideali di malcontento. Ma ancora
una volta ci troviamo di fronte a un discorso che
possiamo riferire prevalentemente al passato, perché
negli ultimi anni la situazione è cambiata
parecchio e la lacuna tra aree geografiche e ambiti
di produzione si è notevolmente ridotta.
Uno dei motori chiave dell’economia turca è
sempre stata l’immigrazione verso i paesi dell’Unione.
Se riuscissimo a guardare a questi flussi migratori
come a delle risorse, questi si potrebbero regolare
in modo da dirigerli da aree a bassa produttività
verso occupazioni ad alta produttività con
esiti estremamente positivi ai fini dello sviluppo.
Si tratta di un modello analogo a quello dell’economia
cinese, ma che non può essere attuato senza
pagare un prezzo. E il prezzo sarà l’apertura
alla mobilità, nonché il contributo
da parte degli altri Stati membri.
Si vede quindi come un elemento di debolezza della
realtà turca possa trasformarsi, se guardato
con una certa ottica, in un potenziale positivo per
il futuro.
L’infanzia demografica
Il secondo punto intorno al quale ruota la discussione
intorno all’opportunità dell’adesione
di Ankara all’Ue
è che la Turchia è caratterizzata da
dinamiche demografiche radicalmente diverse da quelle
del resto d’Europa. Non si tratta certo di un
aspetto nuovo che solleviamo qui per la prima volta,
è anzi argomento conosciuto e risaputo, ma
c’è qualcosa di tale questione che non
viene adeguatamente considerato. In Turchia il tasso
di natalità è sceso allo stesso modo
e nella stessa percentuale che nel complesso dell’Europa
meridionale, con la differenza che tutto ciò
è accaduto con venti o trent’anni di
ritardo rispetto agli altri paesi. Questo vuol dire
che la Turchia sta per entrare adesso nella sua “prima
infanzia” demografica. Le nascite sono diminuite,
i giovani tendono a laurearsi in altri sistemi scolastici
(specialmente nel comparto tecnico-ingegneristico),
ma la forza lavoro disponibile è in costante
aumento e in generale ciò potrebbe determinare
un miglioramento delle condizioni di vita e di reddito
per la popolazione nel suo complesso.
Forse alla Turchia non basterà una sola generazione
per raggiungere, in termini demografici, i criteri
che l’Unione esige, ma sicuramente ad Istanbul
e dintorni si parte dallo stesso livello di sviluppo
a cui si trovavano altri Stati membri all’epoca
del loro ingresso.
Esiste poi una parte della discussione che si sviluppa
a un problema che riguarda sì la Turchia, ma
anche altri paesi che vorrebbero fare parte dell’Unione:
la paura di ricadute economiche per gli Stati membri
più sviluppati.
Molti, in Europa - specialmente analisti di formazione
anglosassone - sono convinti che la membership turca
finirebbe per far compiere all’economi dell’Unione
un passo indietro. In effetti, esaminando le cifre,
le analisi di tutti gli esperti si discostano di poco,
parlano tutti di percentuali bassissime di partecipazione
della Turchia al Prodotto Lordo europeo. Ma non è
detto che, una volta arrivati alla piena integrazione
di Ankara in Europa, tale situazione non possa essere
portata a un punto di equilibrio. In termini economici,
a mio avviso l’Europa non potrà che trarre
vantaggio dalla sinergia con la Turchia, il cui contributo,
ovviamente, non potrà essere particolarmente
significativo per una ragione molto semplice, e cioè
che si tratta di un paese con un’economia molto
limitata a confronto degli altri Stati membri, e quindi
il suo futuro sviluppo economico, nell’ottica
dell’Unione, potrà costituire un “di
più”, ma senza fare differenze rilevanti.
In altre parole, guardando alla realtà turca,
ci si rende subito conto che ha bisogno, più
di ogni altra cosa, di mettersi nelle condizioni di
qualificare il capitale umano della sua popolazione.
Ed è in questo senso che la sinergia con l’Unione
europea può dare un grande contributo, a patto,
però, che gli aiuti e i contributi dell’Unione
non siano destinati alla costruzione di nuovi ponti,
strade, ferrovie, quanto piuttosto alla realizzazione
di nuove scuole e alla formazione dei docenti, per
far sì che la prossima generazione turca possa
entrare direttamente a far parte integrante dell’economia
europea. E questo sarebbe un mutuo vantaggio, in prospettiva
futura, sia per l’Europa che per la Turchia.
Daniel Gros è docente all’Università
di Chicago, direttore del Centre of European Policy
Studies (Ceps) a Bruxelles e consigliere presso il
Parlamento europeo e il Ministero delle Finanze francese.
Tra le sue ultime pubblicazioni una ricerca, promossa
dal Ceps, dal titolo “The European Transformation
of Modern Turkey”.
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