270 - 21.01.05


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Una politica poco globale

Daniele Castellani Perelli


“I governi stanno rispondendo ad un vero e proprio sollevamento dell’opinione pubblica”. Bernard Kouchner, ex ministro francese e fondatore di Medecins sans Frontieres, ha colto un aspetto fondamentale del modo in cui l’Occidente sta reagendo al maremoto che il 26 dicembre, nel sud-est asiatico, ha provocato centinaia di migliaia di vittime: se la “gara di solidarietà” da subito sviluppatasi nella società civile ha fatto pronunciare parole di speranza anche a Giovanni Paolo II, la politica mondiale è sembrata invece disordinata, inadeguata a fronteggiare catastrofi globali di queste dimensioni.


La solidarietà dell’opinione pubblica occidentale

“L’opinione pubblica spinge i governi”, titolava la Bbc il 31 dicembre, e in effetti i media e i cittadini occidentali si sono commossi davanti a quest’immensa tragedia, e hanno subito partecipato attivamente agli aiuti. La globalizzazione delle telecomunicazioni ha dimostrato di essere ormai matura, di saper veicolare un’informazione globale. E’ vero che il coinvolgimento di turisti occidentali nella tragedia (60 vittime e 1000 dispersi tra i tedeschi, 122 e 530 tra i francesi, 59 e 3500 tra gli svedesi) ha procurato all’evento una partecipazione emotiva superiore a quella, ad esempio, del terremoto iraniano di Bam del 27 dicembre 2003. E’ vero che, soprattutto in Italia, non è mancata una certa dose di provincialismo (i telegiornali annotano ogni tanto dispiaciuti: “Ritrovato un gruppo di turisti occidentali, ma nessun italiano ne farebbe parte”). I numeri, tuttavia, parlano da soli.

Solo nel nostro paese le offerte raccolte con gli sms spediti dagli utenti Tim, Vodafone, Wind e H3G hanno raggiunto già quasi 25 milioni di euro. La sottoscrizione Corriere della Sera-Tg5 ha superato i 3 milioni di euro, mentre sono due i milioni raccolti dall’Unicef in collaborazione con il gruppo L’Espresso. Donazioni ufficiali sono state organizzate anche dalla Caritas, Medici senza Frontiere, Save the Children, La Stampa e Il Sole 24 ore. Ma altrove è stato lo stesso, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dove il contributo dei cittadini ha superato quello promesso dal governo (100 milioni di dollari contro 96). La società civile si mobilita anche attraverso le migliaia di volontari delle Ong che gestiranno sul luogo fondi e strutture anche governative. Infine un modo per ricordare le vittime dello tsunami è stato anche quello di interrompere o di rendere più sobri i festeggiamenti per il capodanno, con concerti e manifestazioni annullate in tutte le città e petardi e fuochi d’artificio ovunque limitati.

La drammatica assenza di una politica mondiale

Quello degli aiuti umanitari stanziati dall’Occidente è stato da subito uno dei temi chiave del dibattito sviluppatosi intorno al maremoto. Ad aprire la polemica è stato Jan Egeland, sottosegretario dell’Onu agli aiuti umanitari, che ha accusato i paesi ricchi di essere “avari” e “ossessionati dalle politiche di tagli delle tasse”, quindi “tirchi” anche rispetto agli aiuti ai paesi poveri, che invece del previsto 0,7% del Pil nazionale non vanno al di là dello 0,1-0,2%. E se il Canada decideva di sospendere il debito dei paesi colpiti dalla catastrofe, gli altri governi occidentali cominciavano una gara di generosità che non si è ancora conclusa. Gli Usa, dopo aver promesso 35 milioni di dollari, replicavano alle accuse di Egeland decidendo lo stanziamento di ben 350 milioni. Meno dei 500 del Giappone, ma considerevolmente di più dei 44 dell’Ue, a cui sono però da aggiungere tutte le singole donazioni dei vari stati europei. La doppia modalità di sostegno dei paesi del Vecchio continente (comunitaria e individuale) fa riflettere su come ancora una volta l’Europa stia perdendo un’ottima occasione per proporsi come attore globale autorevole.

Il campo della solidarietà e dell’aiuto umanitario è sempre sbandierato dagli europei come tipico, addirittura identitario per l’Ue (articolo 321 della Costituzione). Ma pur essendo il campo apparentemente congeniale, l’Europa si è fatta clamorosamente superare concretamente e mediaticamente da chi, come gli Stati Uniti, viene sempre accusato di insensibilità verso le condizioni dei paesi poveri. “I paesi più grandi (dell’Ue, ndr) non rinunciano alla visibilità di un sostegno bilaterale con i paesi colpiti”, ha dichiarato al Corriere della Sera un alto dirigente della Commissione, e in effetti ogni paese è sembrato andare per conto suo, nonostante l’impegno ufficiale alla cooperazione europea. Francia, Italia, Olanda e Lussemburgo hanno litigato nel rivendicare il coordinamento della missione di aiuti europea. Il presidente della Commissione Josè Manuel Durao Barroso è rimasto in vacanza, mentre del responsabile degli esteri Solana si sono perse le tracce e a poco serve aver stabilito un giorno di lutto unico in memoria delle vittime.

“La maggior parte delle persone poteva essere salvata”

Miglior figura hanno fatto gli Stati Uniti, che almeno, con Bush, hanno proposto a Giappone, Australia e India una “coalizione internazionale dei soccorsi”, mostrando di aver compreso la natura globale della questione. E’ chiaro però che anche questa proposta non risolve il problema, perché in realtà, come ha notato l’ex ministro di Blair per lo Sviluppo internazionale, Claire Short, mira solo a indebolire l’unica istituzione internazionale in grado, teoricamente, di fornire una soluzione: le Nazioni Unite, in quanto unica sede democratica possibile per una politica globale. L’assenza ingiustificata dell’Europa e l’impotenza costituzionale delle Nazioni Unite sono i segnali dell’anarchia politica che sta accompagnando l’invio degli aiuti umanitari nel sud-est asiatico.

I cittadini del sud-est asiatico, frattanto, muoiono a causa dell’arretratezza economica, tecnologica e culturale dei propri stati. La distribuzione degli aiuti è avvolta nel caos, a causa della povertà di quei paesi, dell’assenza di infrastrutture adeguate e sicure, ma anche della burocrazia e del pericolo della corruzione (a Colombo, nello Sri Lanka, tonnellate di cibo rimangono ad esempio inutilizzate in aeroporto). Lo scienziato americano Waverly Person ha dichiarato che “la maggior parte delle persone poteva essere salvata”, e Federico Rampini, su Repubblica, ha notato come “nulla del nostro progresso tecnologico è rimasto depositato, a vantaggio di quelle zone, sotto forma di investimenti per la sicurezza e la protezione della vita umana”.

“C’è una comunità di destino: il nostro, ricchi e poveri sono uguali davanti alla tsunami – ha detto pochi giorni fa Walter Veltroni, sempre molto attento alle ragioni del Terzo mondo – E’ come in Blade Runner: alcuni di noi possono anche avere gli ombrelli coi manici luminosi, ma comunque fuori è sempre notte per tutti”. La globalizzazione che ci rende tutti più sensibili ad angosce così lontane non è ancora arrivata al livello della politica, come dimostrano le divisioni nazionaliste dell’Europa e l’impotenza delle Nazioni Unite. Servirebbe una politica globale capace di ridurre la forbice tra paesi ricchi e paesi poveri, e di gestire la sicurezza di luoghi che sempre più appartengono a tutti. “Lo tsunami poteva essere previsto. E’ la povertà che ha preso il mondo di sorpresa”, recita una vignetta amara di Elle Kappa. Non sarà che la politica estera dell’Occidente è tutta da rifondare?

 


 

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