“I
governi stanno rispondendo ad un vero e proprio sollevamento
dell’opinione pubblica”. Bernard Kouchner,
ex ministro francese e fondatore di Medecins sans Frontieres,
ha colto un aspetto fondamentale del modo in cui l’Occidente
sta reagendo al maremoto che il 26 dicembre, nel sud-est
asiatico, ha provocato centinaia di migliaia di vittime:
se la “gara di solidarietà” da subito
sviluppatasi nella società civile ha fatto pronunciare
parole di speranza anche a Giovanni Paolo II, la politica
mondiale è sembrata invece disordinata, inadeguata
a fronteggiare catastrofi globali di queste dimensioni.
La solidarietà dell’opinione pubblica
occidentale
“L’opinione pubblica spinge i governi”,
titolava la Bbc il 31 dicembre, e in effetti i media
e i cittadini occidentali si sono commossi davanti a
quest’immensa tragedia, e hanno subito partecipato
attivamente agli aiuti. La globalizzazione delle telecomunicazioni
ha dimostrato di essere ormai matura, di saper veicolare
un’informazione globale. E’ vero che il
coinvolgimento di turisti occidentali nella tragedia
(60 vittime e 1000 dispersi tra i tedeschi, 122 e 530
tra i francesi, 59 e 3500 tra gli svedesi) ha procurato
all’evento una partecipazione emotiva superiore
a quella, ad esempio, del terremoto iraniano di Bam
del 27 dicembre 2003. E’ vero che, soprattutto
in Italia, non è mancata una certa dose di provincialismo
(i telegiornali annotano ogni tanto dispiaciuti: “Ritrovato
un gruppo di turisti occidentali, ma nessun italiano
ne farebbe parte”). I numeri, tuttavia, parlano
da soli.
Solo nel nostro paese le offerte raccolte con gli sms
spediti dagli utenti Tim, Vodafone, Wind e H3G hanno
raggiunto già quasi 25 milioni di euro. La sottoscrizione
Corriere della Sera-Tg5 ha superato i 3 milioni di euro,
mentre sono due i milioni raccolti dall’Unicef
in collaborazione con il gruppo L’Espresso. Donazioni
ufficiali sono state organizzate anche dalla Caritas,
Medici senza Frontiere, Save the Children, La Stampa
e Il Sole 24 ore. Ma altrove è stato lo stesso,
dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dove il contributo
dei cittadini ha superato quello promesso dal governo
(100 milioni di dollari contro 96). La società
civile si mobilita anche attraverso le migliaia di volontari
delle Ong che gestiranno sul luogo fondi e strutture
anche governative. Infine un modo per ricordare le vittime
dello tsunami è stato anche quello di interrompere
o di rendere più sobri i festeggiamenti per il
capodanno, con concerti e manifestazioni annullate in
tutte le città e petardi e fuochi d’artificio
ovunque limitati.
La drammatica assenza di una politica mondiale
Quello degli aiuti umanitari stanziati dall’Occidente
è stato da subito uno dei temi chiave del dibattito
sviluppatosi intorno al maremoto. Ad aprire la polemica
è stato Jan Egeland, sottosegretario dell’Onu
agli aiuti umanitari, che ha accusato i paesi ricchi
di essere “avari” e “ossessionati
dalle politiche di tagli delle tasse”, quindi
“tirchi” anche rispetto agli aiuti ai paesi
poveri, che invece del previsto 0,7% del Pil nazionale
non vanno al di là dello 0,1-0,2%. E se il Canada
decideva di sospendere il debito dei paesi colpiti dalla
catastrofe, gli altri governi occidentali cominciavano
una gara di generosità che non si è ancora
conclusa. Gli Usa, dopo aver promesso 35 milioni di
dollari, replicavano alle accuse di Egeland decidendo
lo stanziamento di ben 350 milioni. Meno dei 500 del
Giappone, ma considerevolmente di più dei 44
dell’Ue, a cui sono però da aggiungere
tutte le singole donazioni dei vari stati europei. La
doppia modalità di sostegno dei paesi del Vecchio
continente (comunitaria e individuale) fa riflettere
su come ancora una volta l’Europa stia perdendo
un’ottima occasione per proporsi come attore globale
autorevole.
Il campo della solidarietà e dell’aiuto
umanitario è sempre sbandierato dagli europei
come tipico, addirittura identitario per l’Ue
(articolo 321 della Costituzione). Ma pur essendo il
campo apparentemente congeniale, l’Europa si è
fatta clamorosamente superare concretamente e mediaticamente
da chi, come gli Stati Uniti, viene sempre accusato
di insensibilità verso le condizioni dei paesi
poveri. “I paesi più grandi (dell’Ue,
ndr) non rinunciano alla visibilità di un sostegno
bilaterale con i paesi colpiti”, ha dichiarato
al Corriere della Sera un alto dirigente della Commissione,
e in effetti ogni paese è sembrato andare per
conto suo, nonostante l’impegno ufficiale alla
cooperazione europea. Francia, Italia, Olanda e Lussemburgo
hanno litigato nel rivendicare il coordinamento della
missione di aiuti europea. Il presidente della Commissione
Josè Manuel Durao Barroso è rimasto in
vacanza, mentre del responsabile degli esteri Solana
si sono perse le tracce e a poco serve aver stabilito
un giorno di lutto unico in memoria delle vittime.
“La maggior parte delle persone poteva
essere salvata”
Miglior figura hanno fatto gli Stati Uniti, che almeno,
con Bush, hanno proposto a Giappone, Australia e India
una “coalizione internazionale dei soccorsi”,
mostrando di aver compreso la natura globale della questione.
E’ chiaro però che anche questa proposta
non risolve il problema, perché in realtà,
come ha notato l’ex ministro di Blair per lo Sviluppo
internazionale, Claire Short, mira solo a indebolire
l’unica istituzione internazionale in grado, teoricamente,
di fornire una soluzione: le Nazioni Unite, in quanto
unica sede democratica possibile per una politica globale.
L’assenza ingiustificata dell’Europa e l’impotenza
costituzionale delle Nazioni Unite sono i segnali dell’anarchia
politica che sta accompagnando l’invio degli aiuti
umanitari nel sud-est asiatico.
I cittadini del sud-est asiatico, frattanto, muoiono
a causa dell’arretratezza economica, tecnologica
e culturale dei propri stati. La distribuzione degli
aiuti è avvolta nel caos, a causa della povertà
di quei paesi, dell’assenza di infrastrutture
adeguate e sicure, ma anche della burocrazia e del pericolo
della corruzione (a Colombo, nello Sri Lanka, tonnellate
di cibo rimangono ad esempio inutilizzate in aeroporto).
Lo scienziato americano Waverly Person ha dichiarato
che “la maggior parte delle persone poteva essere
salvata”, e Federico Rampini, su Repubblica, ha
notato come “nulla del nostro progresso tecnologico
è rimasto depositato, a vantaggio di quelle zone,
sotto forma di investimenti per la sicurezza e la protezione
della vita umana”.
“C’è una comunità di destino:
il nostro, ricchi e poveri sono uguali davanti alla
tsunami – ha detto pochi giorni fa Walter Veltroni,
sempre molto attento alle ragioni del Terzo mondo –
E’ come in Blade Runner: alcuni di noi possono
anche avere gli ombrelli coi manici luminosi, ma comunque
fuori è sempre notte per tutti”. La globalizzazione
che ci rende tutti più sensibili ad angosce così
lontane non è ancora arrivata al livello della
politica, come dimostrano le divisioni nazionaliste
dell’Europa e l’impotenza delle Nazioni
Unite. Servirebbe una politica globale capace di ridurre
la forbice tra paesi ricchi e paesi poveri, e di gestire
la sicurezza di luoghi che sempre più appartengono
a tutti. “Lo tsunami poteva essere previsto. E’
la povertà che ha preso il mondo di sorpresa”,
recita una vignetta amara di Elle Kappa. Non sarà
che la politica estera dell’Occidente è
tutta da rifondare?
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