270 - 28.01.05


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Quando la gente si
fa motore della politica
Padre Bernardo Cervellera
con Mauro Buonocore

Giornali, radio e tv ci raccontano gli effetti terribili provocati dallo tsunami che ha colpito l’Indonesia e gran parte del Sud Est asiatico. Il numero delle vittime, le devastazioni che si sono abbattute su villaggi, città, intere popolazioni che si trovano ora nella condizione di dover ricostruire la loro esistenza, a partire dalle necessità primarie come la propria casa, combattendo nemici asprissimi e orrendi come le epidemie che portano lo spettro di altre morti e la corruzione che rischia di inghiottire gli aiuti umanitari.
E dall’occidente ricco è partita la “gara di solidarietà”, la comunità internazionale si è mobilitata, ogni paese con la sua proposta e i suoi soldi, ma la gente, e non la politica, si è mossa per prima: “E’ la società civile che ha premuto per una solidarietà sempre più efficace mentre la politica e i governi camminavano nel fango del loro protagonismo”.
Parole di Padre Bernardo Cervellera, direttore di www.asianews.it, l’agenzia legata al Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) ed esperto di questioni asiatiche.

L’occidente si muove verso le zone colpite dimostrando grande impegno, ma secondo lei la spinta è venuta dalla gente.

È importante sottolineare che le prime a muoversi e a mobilitarsi per gli aiuti sono state le popolazioni, la base popolare di tutti i paesi internazionali che hanno iniziato le raccolte spontanee di fondi e a partire come volontari. Gli Stati hanno seguito, l’onda popolare di generosità e solidarietà. La politica è stata in qualche modo
costretta da questa mobilitazione popolare a lavorare e impegnarsi per aiutare i governi e le popolazioni colpite, tant’è vero che gli Usa avevano inizialmente stabilito una somma per lo stanziamento, ma poi la società civile americana ha insistito per un impegno economico maggiore da parte degli Stati Uniti negli aiuti umanitari. Le stesse critiche sono avvenute in Italia e in tutta Europa.
Questo è il segno di una società civile che in certi casi è si dimostra più matura e attenta di quanto non lo siano le leadership politiche.

Riesce a individuare un ruolo specifico dell’Unione europea nella corsa agli aiuti umanitari?

Tutta la comunità internazionale si impegnata per sostenere le popolazioni colpite dallo tsunami, e fra tutti anche l’Europa. Il problema è che da una parte ci sono gli Usa che si sono mossi per primi e con il chiaro progetto di mostrare all’opinione pubblica internazionale (e all’Indonesia che è il maggiore paese musulmano del mondo) che non sono soltanto la potenza della guerra, ma sono anche capaci di generosità e solidarietà.
Dall’altyra parte, invece, i membri dell’Unione europea hanno dapprima cominciato a litigare sulla cifra da destinare alle zone interessate, poi hanno litigato su chi doveva gestire gli aiuti, e alla fine ogni Stato ha fatto singolarmente quel che voleva o poteva. In sostanza, quel che è caratteristico di tutta questa faccenda è che la politica europea nei confronti dell’Asia non ha un volto.

Tutta la comunità internazionale è mobilitata verso la ricostruzione delle aree colpite del Sud Est asiatico, e non fa eccezione la Cina che per la prima volta si è impegnata in un’operazione umanitaria con molti soldi (circa 62 milioni di dollari). A cosa è dovuto questo nuovo impegno della Cina?

Diversi fattori intervengono in questo nuovo attivismo della Cina.
In primo luogo c’è una motivazione regionale, asiatica. La Cina è vista dai paesi asiatici come un grande concorrente perché la manodopera e l’organizzazione del lavoro cinese sono molto competitivi. Soprattutto lo Sri Lanka, l’Indonesia, il Bangladesh, che contano molto sull’industria tessile, sentono questa competizione. E allora il gesto della Cina va nella direzione di voler ridurre la tensione e il senso di competizione da parte dei paesi colpiti dallo tsunami.

Un secondo motivo sta nel fatto che la Cina ha il sogno di diventare la potenza asiatica per antonomasia e per arrivare a giocare questo importante ruolo continentale deve mostrarsi interessata e preoccupata dei paesi che le stanno intorno.
Un terzo aspetto che spinge Pechino a impegnare forti somme di denaro nella ricostruzione del Sud est asiatico sta nella politica multipolare o, in altre parole, nel fare in modso che non siano solo gli Usa, o il mondo occidentale in genere, ad apparire come la potenza della solidarietà.
Un ultimo motivo dell’interesse cinese nelle zone colpite dallo tsunami riguarda il fatto che l’India e l’Indonesia hanno zone ricche di petrolio, una risorsa di cui la Cina ha disperato bisogno.

L’India è un’altra potenza asiatica che ha un ruolo sempre più emergente nella politica e nell’economia internazionale. Nelle vicende legate allo tsunami il governo di Nuova Delhi ha assunto un atteggiamento particolare: ha rifiutato gli aiuti, ha negato il permesso di visita a Kofi Annan e all’Onu. Come spiega questo atteggiamento?

Innanzitutto l’India è stata una vittima dello tsunami.
In secondo luogo sta tenendo un atteggiamento molto coerente con la propria tradizione: la scelta indiana è stata quella di rifiutare aiuti esterni, e soprattutto aiuti che provengano dai governi stranieri, perché l’India cerca di essere indipendente dalle influenze geopolitiche che possono derivare dall’accettare aiuti provenienti dall’esterno. Però, ad esempio, l’India ha consentito aiuti che vengono da organizzazioni non governative, organizzazioni internazionali non legate ad alcun governo. E’ una questione di orgoglio e di indipendenza.

Quando si parla di aiuti umanitari si alza sempre il timore che i soldi non arrivino a destinazione e che le raccolte di denaro si risolvano in un parziale fallimento per i destinatari che ne hanno davvero bisogno. A quali ostacoli vanno incontro gli aiuti umanitari e come crede che stiano procedendo le operazioni umanitarie?

L’Indonesia è un paese molto famoso per la corruzione, però sfido qualunque Stato a dirsi innocente sulla corruzione. È chiaro che bisogna cercare di vigilare e fare in modo che gli aiuti arrivino a destinazione, ma è inutile far finta di essere santi pensando che non ci sia soluzione a questo problema.
Proprio per questo noi missionari del Pime, ad esempio, abbiamo preferito lavorare da un luogo preciso verso un luogo preciso, cioè non abbiamo raccolto soldi in modo generico per consegnarli semplicemente agli Stati colpiti, ma abbiamo scelto di avere un interlocutore, un volto, un responsabile locale che possa distribuire quanto viene consegnato. Nel nostro caso i responsabili sono la Chiesa e i vescovi locali.
Per il resto vedo, per quello che vedo, mi sembra che in Italia si sta lavorando molto a progetti d’emergenza, ma non si vede ancora una prospettiva a lunga scadenza, cosa che invece ci chiedono le personalità locali. In altre parole: i pescatori indiani chiedono una barca, non chiedono semplicemente da mangiare, l’acqua o l’aiuto medico.
Bisognerebbe avere già un programma di ricostruzione di lungo termine.

 

 

 

 

 

 

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