
Giornali, radio e tv ci raccontano
gli effetti terribili provocati dallo tsunami che ha
colpito l’Indonesia e gran parte del Sud Est asiatico.
Il numero delle vittime, le devastazioni che si sono
abbattute su villaggi, città, intere popolazioni
che si trovano ora nella condizione di dover ricostruire
la loro esistenza, a partire dalle necessità
primarie come la propria casa, combattendo nemici asprissimi
e orrendi come le epidemie che portano lo spettro di
altre morti e la corruzione che rischia di inghiottire
gli aiuti umanitari.
E dall’occidente ricco è partita la “gara
di solidarietà”, la comunità internazionale
si è mobilitata, ogni paese con la sua proposta
e i suoi soldi, ma la gente, e non la politica, si è
mossa per prima: “E’ la società civile
che ha premuto per una solidarietà sempre più
efficace mentre la politica e i governi camminavano
nel fango del loro protagonismo”.
Parole di Padre Bernardo Cervellera, direttore di
www.asianews.it,
l’agenzia legata al Pime (Pontificio Istituto
Missioni Estere) ed esperto di questioni asiatiche.
L’occidente si muove verso le zone
colpite dimostrando grande impegno, ma secondo lei
la spinta è venuta dalla gente.
È importante sottolineare che le prime a muoversi
e a mobilitarsi per gli aiuti sono state le popolazioni,
la base popolare di tutti i paesi internazionali che
hanno iniziato le raccolte spontanee di fondi e a
partire come volontari. Gli Stati hanno seguito, l’onda
popolare di generosità e solidarietà.
La politica è stata in qualche modo
costretta da questa mobilitazione popolare a lavorare
e impegnarsi per aiutare i governi e le popolazioni
colpite, tant’è vero che gli Usa avevano
inizialmente stabilito una somma per lo stanziamento,
ma poi la società civile americana ha insistito
per un impegno economico maggiore da parte degli Stati
Uniti negli aiuti umanitari. Le stesse critiche sono
avvenute in Italia e in tutta Europa.
Questo è il segno di una società civile
che in certi casi è si dimostra più
matura e attenta di quanto non lo siano le leadership
politiche.
Riesce a individuare un ruolo specifico dell’Unione
europea nella corsa agli aiuti umanitari?
Tutta la comunità internazionale si impegnata
per sostenere le popolazioni colpite dallo tsunami,
e fra tutti anche l’Europa. Il problema è
che da una parte ci sono gli Usa che si sono mossi
per primi e con il chiaro progetto di mostrare all’opinione
pubblica internazionale (e all’Indonesia che
è il maggiore paese musulmano del mondo) che
non sono soltanto la potenza della guerra, ma sono
anche capaci di generosità e solidarietà.
Dall’altyra parte, invece, i membri dell’Unione
europea hanno dapprima cominciato a litigare sulla
cifra da destinare alle zone interessate, poi hanno
litigato su chi doveva gestire gli aiuti, e alla fine
ogni Stato ha fatto singolarmente quel che voleva
o poteva. In sostanza, quel che è caratteristico
di tutta questa faccenda è che la politica
europea nei confronti dell’Asia non ha un volto.
Tutta la comunità internazionale è
mobilitata verso la ricostruzione delle aree colpite
del Sud Est asiatico, e non fa eccezione la Cina che
per la prima volta si è impegnata in un’operazione
umanitaria con molti soldi (circa 62 milioni di dollari).
A cosa è dovuto questo nuovo impegno della
Cina?
Diversi fattori intervengono in questo nuovo attivismo
della Cina.
In primo luogo c’è una motivazione regionale,
asiatica. La Cina è vista dai paesi asiatici
come un grande concorrente perché la manodopera
e l’organizzazione del lavoro cinese sono molto
competitivi. Soprattutto lo Sri Lanka, l’Indonesia,
il Bangladesh, che contano molto sull’industria
tessile, sentono questa competizione. E allora il
gesto della Cina va nella direzione di voler ridurre
la tensione e il senso di competizione da parte dei
paesi colpiti dallo tsunami.
Un secondo motivo sta nel fatto che la Cina ha il
sogno di diventare la potenza asiatica per antonomasia
e per arrivare a giocare questo importante ruolo continentale
deve mostrarsi interessata e preoccupata dei paesi
che le stanno intorno.
Un terzo aspetto che spinge Pechino a impegnare forti
somme di denaro nella ricostruzione del Sud est asiatico
sta nella politica multipolare o, in altre parole,
nel fare in modso che non siano solo gli Usa, o il
mondo occidentale in genere, ad apparire come la potenza
della solidarietà.
Un ultimo motivo dell’interesse cinese nelle
zone colpite dallo tsunami riguarda il fatto che l’India
e l’Indonesia hanno zone ricche di petrolio,
una risorsa di cui la Cina ha disperato bisogno.
L’India è un’altra potenza
asiatica che ha un ruolo sempre più emergente
nella politica e nell’economia internazionale.
Nelle vicende legate allo tsunami il governo di Nuova
Delhi ha assunto un atteggiamento particolare: ha
rifiutato gli aiuti, ha negato il permesso di visita
a Kofi Annan e all’Onu. Come spiega questo atteggiamento?
Innanzitutto l’India è stata una vittima
dello tsunami.
In secondo luogo sta tenendo un atteggiamento molto
coerente con la propria tradizione: la scelta indiana
è stata quella di rifiutare aiuti esterni,
e soprattutto aiuti che provengano dai governi stranieri,
perché l’India cerca di essere indipendente
dalle influenze geopolitiche che possono derivare
dall’accettare aiuti provenienti dall’esterno.
Però, ad esempio, l’India ha consentito
aiuti che vengono da organizzazioni non governative,
organizzazioni internazionali non legate ad alcun
governo. E’ una questione di orgoglio e di indipendenza.
Quando si parla di aiuti umanitari si alza
sempre il timore che i soldi non arrivino a destinazione
e che le raccolte di denaro si risolvano in un parziale
fallimento per i destinatari che ne hanno davvero
bisogno. A quali ostacoli vanno incontro gli aiuti
umanitari e come crede che stiano procedendo le operazioni
umanitarie?
L’Indonesia è un paese molto famoso per
la corruzione, però sfido qualunque Stato a
dirsi innocente sulla corruzione. È chiaro
che bisogna cercare di vigilare e fare in modo che
gli aiuti arrivino a destinazione, ma è inutile
far finta di essere santi pensando che non ci sia
soluzione a questo problema.
Proprio per questo noi missionari del Pime, ad esempio,
abbiamo preferito lavorare da un luogo preciso verso
un luogo preciso, cioè non abbiamo raccolto
soldi in modo generico per consegnarli semplicemente
agli Stati colpiti, ma abbiamo scelto di avere un
interlocutore, un volto, un responsabile locale che
possa distribuire quanto viene consegnato. Nel nostro
caso i responsabili sono la Chiesa e i vescovi locali.
Per il resto vedo, per quello che vedo, mi sembra
che in Italia si sta lavorando molto a progetti d’emergenza,
ma non si vede ancora una prospettiva a lunga scadenza,
cosa che invece ci chiedono le personalità
locali. In altre parole: i pescatori indiani chiedono
una barca, non chiedono semplicemente da mangiare,
l’acqua o l’aiuto medico.
Bisognerebbe avere già un programma di ricostruzione
di lungo termine.
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