
Si
chiama Echo (Office for Humanitarian Aid) ed è
il braccio operativo dell’Unione in tema di aiuti
umanitari. A guidarla è il francese Louis Michel
che in caso di necessità ha potere di firma per
stanziamenti che possono raggiungere i 30 milioni di
euro. Nel caso del disastro asiatico, ne ha resi disponibili
23 (3 subito dopo la notizia della catastrofe, successivamente
altri 20), ma lo stesso presidente della Commissione
Barroso ha annunciato che l’Unione sta vagliando
la proposta di mettere a disposizione 100 milioni di
euro per gli aiuti immediati e successivamente altri
350 milioni per la ricostruzione a lungo termine.
Tutto bene quel che finisce bene, dunque, ammesso
che si possa utilizzare questa espressione in un contesto
così drammatico? Non proprio, in verità.
Infatti, nonostante la disponibilità di finanziamenti,
a poche settimane dalla firma del Trattato, il Vecchio
Continente, di fronte allo spettacolo di distruzione
e morte dello tsunami, si è reso conto di un
fatto drammatico: “L' Europa non ha una difesa
comune. Né una forza capace di intervenire
nel caso di grandi sciagure naturali”. Così
ha scritto Bernardo Valli in un articolo su Repubblica
dell’8 gennaio. “L' Europa invece si interroga,
fantastica sulla propria unità ma è
ancorata alle vecchie vanità nazionali, si
guarda allo specchio, sono o non sono? cosa sono?
cosa non sono? si abbandona all'introspezione, discute,
dibatte. Di conseguenza esita. Dubita. Ci voleva lo
tsunami, la remota onda micidiale, frantumatasi in
mille altre onde abbattutesi sulle coste dell' Asia
in un raggio di più di mille miglia marine,
per rendere sfacciatamente palese la verità
sull' Europa”. Così ha scritto Valli.
Nei giorni dell’immane catastrofe in Asia,
infatti, l’Unione è riuscita a svolgere
un ruolo importante nell’affidare all’Onu
il coordinamento degli aiuti, evitando una nuova gestione
unilaterale dei soccorsi. Inoltre, al vertice di Jakarta
si è presentata con una sola voce, fatto inedito
e importante per il futuro politico del Vecchio Continente.
Ma ora, hanno notato in molti, essa è chiamata
ad un compito ulteriore, quello di dotarsi di propri
mezzi militari e logistici.
In realtà, già dal 2003 l'Unione dovrebbe
disporre della capacità di mobilitare una forza
di intervento da mobilitare in caso di emergenza,
ma in realtà si tratta di un meccanismo complicato,
impossibile da far partire con una semplice telefonata.
Di questo deficit i paesi dell’Unione sono consapevoli,
tanto che essi stessi hanno auspicato in un comunicato,
in seguito alla vicenda dello tsunami, “un miglior
coordinamento dei mezzi militari”, di “un
miglioramento dei meccanismi di protezione civile
della Comunità” e di “un rafforzamento
della cooperazione tra i consolati”.
Resta comunque un dato importante, quello dell’enorme
partecipazione della società civile dei paesi
europei, uniti da un sentimento di solidarietà
ed empatia, verso un evento così drammatico
e umanamente incomprensibile come quello avvenuto
in Asia. Infatti, i contributi versati volontariamente
dai cittadini sono di inedita entità (tra tutti,
in particolare, spicca il caso tedesco, paese nel
quale si sono raccolti spontaneamente più di
150 milioni di euro). Forse ancora una volta la società
ha anticipato la politica: nonostante i dubbi sull’Europa
e le paure di decisioni imposte dall’alto, che
ancora venano trasversalmente i paesi del vecchio
continente, i cittadini europei chiedono che, se l’Unione
ci deve essere, allora va prima di tutto dotata di
una difesa comune e della capacità di intervenire
compatta in situazioni di guerra, catastrofe e lutto
globale.
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