
Le
metropoli rappresentano certamente l’espressione
più caratteristica della contemporaneità;
in particolare di questi tempi allorché, figlie
predilette della modernità e del progresso, sono
divenute l’elemento centrale di quella che Jean-François
Lyotard ha ribattezzato, nel suo libro del 1979, la
“condizione postmoderna”. E, oggi più
che mai, esiste una “questione città”,
da sempre clivage essenziale della scienza politica
(la famosa frattura centri urbani/campagna) ulteriormente
rilanciata, tra gli altri, dall’esito delle elezioni
Usa, con le metropoli delle due coste oceaniche ultimi
baluardi liberal in una nazione dove le “grandi
pianure” risultano ancor più conservatrici
e reazionarie.
Escono quasi in contemporanea due volumi che ci forniscono
lumi e strumenti critici al riguardo, indagando il “prisma”
della condizione metropolitana da angolazioni e all’insegna
di sfaccettature differenti. Si tratta di Mike Davis
in Città morte.
Racconti di inferno metropolitano
(Feltrinelli, pp. 302, euro 30) e di Clemens Zimmermann
con il suo
L’era delle metropoli (il
Mulino, pp. 222, euro 12,50).
Nel
primo, Davis (nato nel 1946), docente di Storia alla
State University di New York e, soprattutto, uno dei
“campioni” e degli esponenti più
celebri della teoria urbana e della cultura radical
statunitense, si scaglia con la consueta verve polemica
e dovizia documentaria contro il progetto di “omicidio
delle città” concepito e messo in atto
con successo dalla destra repubblicana a partire dagli
anni Ottanta. Città morte costituisce
l’ultimo arrivato della ricca produzione di
Davis, autore sempre interessante – persino
quando non risulta pienamente convincente –
e capace come pochi di contaminare le discipline,
stabilendo nessi e comparazioni (con uno stile molto
da “scienza della complessità”,
una delle specialità preferite e maggiormente
praticate dal mondo intellettuale della West Coast)
tra ambiti culturali apparentemente lontani. Davis
è l’alfiere meritato e meritevole di
una sorta di olismo, molto leftist e di sinistra,
e di un’ecologia urbana che, facendo la “storia
naturale” delle città, si sforza di andare
oltre gli steccati metodologici e gli specialismi
sterili e irrigiditi, dietro i quali intravede –
assai spesso a ragion veduta – l’ombra
del neoliberismo e la pretesa coltivata dal mercato
selvaggio di spazzare via qualunque resistenza al
darwinismo economico e sociale. Talvolta la sua lettura
dei fatti e delle idee che vi soggiacciono rischia
di rivelarsi un po’ troppo manichea, ma, il
più delle volte, ci prende, e in lui si sente
fluire tutta una nobile e intelligente tradizione
di opposizione e spirito critico che gli ultimi decenni
di cronaca americana neoconservatrice e superconformista
ci fanno amaramente rimpiangere. E così la
sua analisi dell’intreccio perverso negli Usa,
sin dagli albori del Novecento, tra politiche urbane,
calamità naturali e disastri ambientali diviene
un manifesto politico contro lo stato delle cose.
Veri e propri “racconti di inferno metropolitano”,
come recita il sottotitolo, sono infatti quelli che
scorrono sotto gli occhi del lettore di questo libro.
Il deserto del Nevada convertito – come e ben
prima della serie X Files, apoteosi del senso
di inquietudine che per Davis domina gli Stati Uniti
dall’inizio del XX secolo – in un terribile
laboratorio militare per provare gli effetti delle
bombe nucleari e di quanto oggi chiameremmo le “armi
di distruzione di massa” (con la conseguente
progenie mostruosa di animali nella zona e le malattie
mortali degli umani sottoposti alle fughe di radiazioni).
La continua, inarrestabile e violentissima speculazione
edilizia, i cui esiti finali hanno visto il trionfo
del decentramento aziendale e la “suburbanizzazione”
dei ceti ricchi delle metropoli, alle prese con la
crisi fiscale derivante dal trasferimento delle attività
economiche più redditizie e dalla fine del
turismo; mentre le “Sobborgopoli” bianche,
recintate e benestanti proliferavano, i centri delle
città andavano in rovina. I riots
dei ghetti e dei quartieri poveri di Los Angeles che
portarono, subito dopo la prima guerra del Golfo,
ad un’occupazione militare della metropoli californiana,
dando carne – e piombo e fuoco… –
ai peggiori incubi degli scrittori cyberpunk. Las
Vegas, la città più postmoderna del
pianeta a giudizio di Davis, scaturita da una serie
di scempi ambientali e devastazioni della natura di
rara violenza.
E, a partire dal fatidico e terribile 11 settembre,
l’ossessione sicuritaria, la manipolazione sfacciata
e l’attentato continuo alle libertà e
ai diritti civili cui è sottoposta la popolazione
americana ed europea – per non parlare delle
discriminazioni e violenze subite dagli “altri”,
non bianchi e non occidentali – nel nome della
“difesa dal terrorismo”, campagna che
risente degli echi di altre persecuzioni (innanzitutto
quelle anticomuniste degli anni Dieci-Venti e del
maccartismo).
Meno inquietante e maggiormente storiografico è
il panorama di alcune città capisaldi dell’età
del Moderno che emerge dal volume, da poco uscito
per i tipi del Mulino, di Zimmermann, specialista
di storia agraria e urbana e professore di Storia
della cultura e dei media presso l’università
di Saarbrücken. Il libro presenta una bella ed
efficace sintesi della storia dell’urbanizzazione
durante l’Otto e il Novecento, l’epoca
del sorgere e dell’affermarsi della “grande
città europea” che costituisce l’incubatrice
per antonomasia di quanto chiamiamo la modernità.
Avvalendosi, quali case-studies concreti, degli esempi
di Barcellona, Torino (particolarmente interessante
poiché si tratta del punto di vista di un non
italiano sulla città dell’unificazione
e sul primo laboratorio del “nuovo” del
nostro Paese), Monaco, San Pietroburgo e Manchester,
l’autore descrive i processi di urbanizzazione
(dalle dinamiche edilizie e dall’organizzazione
dello spazio urbano sino alla strutturazione demografica
in continua mutazione e al sistema dei trasporti),
tenendo però l’occhio sempre puntato
su quello che possiamo considerare il “plusvalore”
dei grandi agglomerati urbani, ovvero il loro essere
produttori di cultura, stili di vita, fenomeni sociali
e innovazione. Insomma, un modo per capire meglio
il presente a partire dai luoghi in cui sempre più
individui hanno cominciato a condividere la propria
esistenza collettiva, come mai era accaduto in nessun
periodo dell’Europa del passato.
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