267 - 11.12.04


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Patria della cultura o degrado postmoderno?
Massimiliano Panarari

Le metropoli rappresentano certamente l’espressione più caratteristica della contemporaneità; in particolare di questi tempi allorché, figlie predilette della modernità e del progresso, sono divenute l’elemento centrale di quella che Jean-François Lyotard ha ribattezzato, nel suo libro del 1979, la “condizione postmoderna”. E, oggi più che mai, esiste una “questione città”, da sempre clivage essenziale della scienza politica (la famosa frattura centri urbani/campagna) ulteriormente rilanciata, tra gli altri, dall’esito delle elezioni Usa, con le metropoli delle due coste oceaniche ultimi baluardi liberal in una nazione dove le “grandi pianure” risultano ancor più conservatrici e reazionarie.
Escono quasi in contemporanea due volumi che ci forniscono lumi e strumenti critici al riguardo, indagando il “prisma” della condizione metropolitana da angolazioni e all’insegna di sfaccettature differenti. Si tratta di Mike Davis in Città morte. Racconti di inferno metropolitano (Feltrinelli, pp. 302, euro 30) e di Clemens Zimmermann con il suo L’era delle metropoli (il Mulino, pp. 222, euro 12,50).

Nel primo, Davis (nato nel 1946), docente di Storia alla State University di New York e, soprattutto, uno dei “campioni” e degli esponenti più celebri della teoria urbana e della cultura radical statunitense, si scaglia con la consueta verve polemica e dovizia documentaria contro il progetto di “omicidio delle città” concepito e messo in atto con successo dalla destra repubblicana a partire dagli anni Ottanta. Città morte costituisce l’ultimo arrivato della ricca produzione di Davis, autore sempre interessante – persino quando non risulta pienamente convincente – e capace come pochi di contaminare le discipline, stabilendo nessi e comparazioni (con uno stile molto da “scienza della complessità”, una delle specialità preferite e maggiormente praticate dal mondo intellettuale della West Coast) tra ambiti culturali apparentemente lontani. Davis è l’alfiere meritato e meritevole di una sorta di olismo, molto leftist e di sinistra, e di un’ecologia urbana che, facendo la “storia naturale” delle città, si sforza di andare oltre gli steccati metodologici e gli specialismi sterili e irrigiditi, dietro i quali intravede – assai spesso a ragion veduta – l’ombra del neoliberismo e la pretesa coltivata dal mercato selvaggio di spazzare via qualunque resistenza al darwinismo economico e sociale. Talvolta la sua lettura dei fatti e delle idee che vi soggiacciono rischia di rivelarsi un po’ troppo manichea, ma, il più delle volte, ci prende, e in lui si sente fluire tutta una nobile e intelligente tradizione di opposizione e spirito critico che gli ultimi decenni di cronaca americana neoconservatrice e superconformista ci fanno amaramente rimpiangere. E così la sua analisi dell’intreccio perverso negli Usa, sin dagli albori del Novecento, tra politiche urbane, calamità naturali e disastri ambientali diviene un manifesto politico contro lo stato delle cose.

Veri e propri “racconti di inferno metropolitano”, come recita il sottotitolo, sono infatti quelli che scorrono sotto gli occhi del lettore di questo libro. Il deserto del Nevada convertito – come e ben prima della serie X Files, apoteosi del senso di inquietudine che per Davis domina gli Stati Uniti dall’inizio del XX secolo – in un terribile laboratorio militare per provare gli effetti delle bombe nucleari e di quanto oggi chiameremmo le “armi di distruzione di massa” (con la conseguente progenie mostruosa di animali nella zona e le malattie mortali degli umani sottoposti alle fughe di radiazioni). La continua, inarrestabile e violentissima speculazione edilizia, i cui esiti finali hanno visto il trionfo del decentramento aziendale e la “suburbanizzazione” dei ceti ricchi delle metropoli, alle prese con la crisi fiscale derivante dal trasferimento delle attività economiche più redditizie e dalla fine del turismo; mentre le “Sobborgopoli” bianche, recintate e benestanti proliferavano, i centri delle città andavano in rovina. I riots dei ghetti e dei quartieri poveri di Los Angeles che portarono, subito dopo la prima guerra del Golfo, ad un’occupazione militare della metropoli californiana, dando carne – e piombo e fuoco… – ai peggiori incubi degli scrittori cyberpunk. Las Vegas, la città più postmoderna del pianeta a giudizio di Davis, scaturita da una serie di scempi ambientali e devastazioni della natura di rara violenza.

E, a partire dal fatidico e terribile 11 settembre, l’ossessione sicuritaria, la manipolazione sfacciata e l’attentato continuo alle libertà e ai diritti civili cui è sottoposta la popolazione americana ed europea – per non parlare delle discriminazioni e violenze subite dagli “altri”, non bianchi e non occidentali – nel nome della “difesa dal terrorismo”, campagna che risente degli echi di altre persecuzioni (innanzitutto quelle anticomuniste degli anni Dieci-Venti e del maccartismo).

Meno inquietante e maggiormente storiografico è il panorama di alcune città capisaldi dell’età del Moderno che emerge dal volume, da poco uscito per i tipi del Mulino, di Zimmermann, specialista di storia agraria e urbana e professore di Storia della cultura e dei media presso l’università di Saarbrücken. Il libro presenta una bella ed efficace sintesi della storia dell’urbanizzazione durante l’Otto e il Novecento, l’epoca del sorgere e dell’affermarsi della “grande città europea” che costituisce l’incubatrice per antonomasia di quanto chiamiamo la modernità. Avvalendosi, quali case-studies concreti, degli esempi di Barcellona, Torino (particolarmente interessante poiché si tratta del punto di vista di un non italiano sulla città dell’unificazione e sul primo laboratorio del “nuovo” del nostro Paese), Monaco, San Pietroburgo e Manchester, l’autore descrive i processi di urbanizzazione (dalle dinamiche edilizie e dall’organizzazione dello spazio urbano sino alla strutturazione demografica in continua mutazione e al sistema dei trasporti), tenendo però l’occhio sempre puntato su quello che possiamo considerare il “plusvalore” dei grandi agglomerati urbani, ovvero il loro essere produttori di cultura, stili di vita, fenomeni sociali e innovazione. Insomma, un modo per capire meglio il presente a partire dai luoghi in cui sempre più individui hanno cominciato a condividere la propria esistenza collettiva, come mai era accaduto in nessun periodo dell’Europa del passato.

 

 

 

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