Questa intervista è tratta
dal numero 86 della rivista Reset
in questi giorni in edicola e in libreria, con il titolo
“Parla un liberale alla Aron molto poco neocon”.
Mark Lilla è professore al Committee for Social
Thought dell’Università di Chicago. Come
filosofo politico, ha la rara abilità di far
valere una profonda conoscenza della tradizione intellettuale
occidentale sulle pressanti questioni politiche del
momento. I suoi contributi a “The Partisan Review”,
“The New York Review of Books” e “The
New Republic” sono imperniati su temi della
vita intellettuale europea (che vanno da Martin Heidegger
e Carl Schmitt nella Germania tra le due guerre a
Michel Foucault e Jacques Derrida nella Francia dopo
la Seconda Guerra mondiale), Leo Strauss e i neo-conservatori,
o anche la politica moderna. È autore di numerose
opere importanti come The Reckless Mind: Intellectuals
in Politics (2001) e The Legacy of Isaiah
Berlin (2001). Grazie alle sue attività
accademiche e saggistiche è considerato un
autentico intellettuale pubblico negli Stati Uniti
e all’estero.
Recentemente definito “un professore dell’Università
di Chicago politicamente inclassificabile”,
Lilla fornisce la sua analisi della connessione tra
Leo Strauss e i neo-conservatori e la sua opinione
sull’avventurismo messianico dell’amministrazione
attuale, sulla politica estera americana e sulla spaccatura
politica tra Europa e Stati Uniti. In tutte le risposte
di Lilla, si sente l’eco di quella che è
la sua premessa, che dobbiamo “dominare il tiranno
interno” praticando l’autocontrollo e
abbracciando la virtù della moderazione.
Fino a che punto (se così è
stato) Leo Strauss ha influenzato i neo-conservatori
di oggi?
C’è stata così tanta cattiva informazione
e disinformazione in giro sull’argomento che
è difficile sapere da dove cominciare. È
vero che esiste una connessione intellettuale tra
gli allievi di Strauss e la nascita del neo-conservatorismo
negli anni settanta. È vero anche che tanti
giovani straussiani americani sono oggi molto impegnati
ideologicamente nella politica repubblicana. Da questi
fatti, tuttavia, non consegue che il pensiero di Strauss
porti necessariamente alla politica neo-conservatrice.
Oggi le sue opere si stanno studiando con profitto
in tutto il mondo, anche in Italia, e al di fuori
degli Stati Uniti nessuno ne ha fatto derivare un
programma ideologico. La questione interessante è
piuttosto che cosa ne sia stato in America dell’eredità
intellettuale di Strauss.
In altre parole, se la connessione tra Strauss
e neo-conservatori convalida o distorce il filosofo
e le sue opere?
La principale preoccupazione intellettuale di Strauss
era quella che lui definiva il “problema teologico-politico”,
con cui intendeva la tensione tra il carattere di
sacralità dell’autorità politica
(se sia o meno corroborata dalla religione rivelata)
e l’atteggiamento scettico e libero del filosofo
autentico. Tutta la sua opera interpretativa e le
sue riflessioni sulla politica sono imperniate su
tale questione. Strauss era un conservatore per natura,
era scettico riguardo al moderno culto del progresso
e apprezzava la sobrietà degli antichi, ma
non era fazioso per natura. Ha avuto i suoi primi
allievi quando è arrivato negli Stati Uniti,
alla metà della sua vita, verso la fine degli
anni Quaranta, e loro hanno cercato di mettere in
relazione gli studi di Strauss sulla storia del pensiero
politico con l’esperienza americana, un compito
che Strauss non si è mai preso la briga di
intraprendere. All’inizio il loro approccio
alla politica è stato, per dirla in breve,
approssimativamente tocquevilliano: in altre parole,
vedevano di buon occhio l’esperimento democratico
americano, ma si preoccupavano dei problemi derivanti
dall’ideologia democratica dell’uguaglianza.
Dopo il 1968, lo straussianesimo è cambiato.
Nel 1973 Strauss è morto, e non molto tempo
dopo molti suoi allievi – il più noto
è Allan Bloom – hanno cominciato a parlare
degli Stati Uniti in termini più apocalittici:
Bloom è addirittura arrivato a paragonare Woodstock
ai raduni di Norimberga. Nel corso degli ultimi trent’anni,
lo straussianesimo come scuola intellettuale è
cresciuto e ora è alla sua quarta generazione.
Ma è cresciuto anche diventando molto più
politico. La ragione di ciò, penso io, non
ha tanto a che fare con gli scritti di Strauss quanto
con l’implosione delle università americane
negli anni Settanta, che ha rafforzato il Kulturpessimismus
degli straussiani e li ha convinti che dovevano diventare
impegnati. Sono stati assorbiti dai neo-conservatori,
e non il contrario. Ora sono parte di un vasto complesso
politico-intellettuale che ha il suo centro a Washington,
ma non sono assolutamente loro a guidarlo. Strauss,
come dicevo, era per sua natura un uomo conservatore;
è difficile immaginarlo compiaciuto dalla retorica
messianica della politica estera ispirata oggi dai
neo-conservatori americani.
Clyde Prestowitz, un conservatore tradizionale,
ha recentemente invocato un ritorno al conservatorismo
vero tracciando una distinzione tra il conservatorismo
e i neo-conservatori con la sua affermazione che “i
conservatori veri non sono mai stati messianici o
dottrinari”. Lei sarebbe d’accordo o no?
Il neo-conservatorismo ha molto poco a che fare, storicamente
o ideologicamente, con il conservatorismo americano.
Il conservatorismo americano è sempre stato
passivo. Come ogni conservatorismo autentico, annette
importanza alla prudenza e alla sua venatura romantica,
che è autentica, ed è espressa solamente
in relazione al passato (che il passato sia la fondazione
americana, o l’Angloamerica, o il protestantesimo
americano, o la semplicità rurale americana).
Ecco perché, in una società rivolta
al futuro come quella statunitense, il conservatorismo
qual era concepito in origine aveva un impatto molto
limitato sulla politica americana ai massimi livelli.
Era sempre un’influenza marginale. Louis Hartz
aveva ragione: per sua natura, l’America è
uno stato liberale e le lotte politiche in genere
vedono contrapposti liberali di destra e liberali
di sinistra.
Il neo-conservatorismo è cresciuto negli anni
Sessanta e Settanta, e in origine è stato concepito
come un ritorno al liberalismo autentico da alcuni
dei suoi padri fondatori come Irving Kristol, Nathan
Glazer, Daniel Patrick Moynihan e Daniel Bell (che
ha ripudiato l’etichetta di neo-con). Non erano
conservatori nel senso tradizionale; erano liberali
“assaliti dalla realtà”, per citare
la memorabile frase di Kristol. Sostenevano lo stato
sociale, anche se non tutti i programmi creati negli
anni Sessanta, molti dei quali sembravano loro controproducenti;
erano anticomunisti ma non bandivano crociate; mostravano
un “blando entusiasmo” per il capitalismo
in un’epoca in cui la sinistra liberale provava
solo disprezzo per il commercio e la vita borghese.
Quello che li ha disturbati negli anni Sessanta era
il tono illiberale e le aspirazioni dei movimenti
studenteschi e della nuova sinistra. Sentivano che
stavano difendendo l’autentica tradizione liberale
di Francis Delano Roosevelt e Harry Truman.
Per gli anni Ottanta, tuttavia, molti neo-con si
erano radicalizzati e non ritenevano più possibile
contenere i cambiamenti sociali frutto degli anni
sessanta da loro rimpianti. Sono diventati reazionari
in senso proprio: qualsiasi cosa volesse la sinistra,
loro si opponevano. Si sono spostati dal partito democratico
a quello repubblicano, si sono uniti all’amministrazione
Reagan, e hanno sviluppato le connessioni con il diritto
religioso. Molti dei pensatori originali di questo
movimento, come Daniel Bell, hanno resistito a questo
cambiamento e hanno interrotto i rapporti con i neo-con
impegnati, che da allora sono diventati una sorta
di “governo ombra” a Washington. Dal 1989
il loro obiettivo si è spostato dalla politica
interna a quella estera, e hanno tentato di gettare
le basi di una nuova politica estera che secondo loro
porrà termine ai traumi del Vietnam.
Si può dire che la politica estera
di Bush è una continuazione di quella di Clinton,
dal momento che quest’ultimo ha dato inizio
all’intervento nella ex-Jugoslavia?
È difficile rispondere a questa domanda perché
dall’11 settembre sono cambiate così
tante cose. Certamente è vero che la politica
estera di Clinton era praticamente uguale a quella
di George Bush Senior, e che senza l’11 settembre
anche la politica di suo figlio si sarebbe mantenuta
nel solco della stessa tradizione. Ma l’11 settembre
ha dato ai neo-con l’opportunità di sperimentare
un nuovo approccio, un approccio preventivo, indipendente
dagli alleati ed esplicitamente imperialistico (nel
senso di voler estendere l’impero della democrazia
liberale, con la forza se necessario).
Esiste una possibilità di ripristinare
il centro vitale, una volta esistente, della politica
estera statunitense, oppure la spaccatura del dibattito
intellettuale in America è tale da rendere
la cosa ormai impossibile?
Il “centro vitale” sviluppatosi sotto
Clinton è scomparso e sembra che stiamo tornando
indietro nel tempo, agli anni Settanta e Ottanta,
quando il disaccordo tra democratici e repubblicani
sulle minacce da affrontare e sugli strumenti corretti
per gestirle era così forte che la discussione
era diventata quasi impossibile. Il successo dei film
grossolani di Michael Moore è un trascurabile
segno nella cultura popolare del fatto che il centro
non terrà.
Pensa che gli Stati Uniti abbiano ancora
qualcosa da imparare dall’Europa (vecchia o
nuova)? E che cosa potrebbe imparare l’Europa
dagli Stati Uniti? E ancora, ritiene che la riconcettualizzazione
europea dell’idea di stato nazionale sia un
aspetto fondamentale del contrasto tra gli Stati Uniti
e le nazioni chiave dell’Unione Europea sul
modo di trattare i conflitti internazionali?
L’Europa e gli Stati Uniti hanno tanto da insegnarsi
a vicenda, se solo fossero in grado di imparare, e
ora non sembra proprio che sia così. Quello
che gli Stati Uniti possono e dovrebbero insegnare
all’Europa occidentale è il valore dello
stato nazionale, anche all’interno di un sistema
di diritto internazionale; la necessità di
usare la forza ed esercitare il potere quando necessario
(solo il potere può far accadere le cose giuste);
e la necessità di fare dei sacrifici economici
per costruire una forza militare credibile in Europa.
Su tutti questi punti, Robert Kagan aveva completamente
ragione, per quanto, se gli europei avessero letto
Raymond Aron, non avrebbero mai avuto bisogno del
sermone di Kagan.
Quello che l’Europa occidentale può e
dovrebbe insegnare agli Stati Uniti è che potrebbe
essere possibile migliorare i governi in tutto il
mondo senza necessariamente democratizzarli, e certo
non con la forza; ci può informare sulle complessità
sociali e culturali di società che l’Europa,
data la sua eredità coloniale, comprende meglio
di noi; ed è in grado di ricordarci la necessità
della cooperazione internazionale, non tanto su basi
morali quanto su basi pratiche e prudenziali. Gli
Stati Uniti sono la più grande potenza mondiale,
ma le minacce che si trovano ad affrontare sono ancora
più grandi, e oggi l’America non sembra
cogliere la differenza.
In un articolo intitolato “Lonely Campus
Voices” apparso sul “New York Times”
del 27 settembre 2003, David Brooks la definisce “un
professore dell’Università di Chicago
politicamente inclassificabile”. Ci si ritrova?
Mi ha divertito, l’ho considerato un segno di
questi tempi di sconvolgimento. Io condivido un liberalismo
americano classico del genere di quello che il neo-conservatorismo
in origine coltivava e difendeva. Il fatto che una
persona simile non rientri in nessuna delle nostre
attuali “classificazioni” significa che
la democrazia americana non comprende più la
propria eredità liberale, con la sua promessa
e i suoi limiti.
(traduzione di Dora Bertucci)
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