267 - 11.12.04


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Usa, esistono ancora
i liberali conservatori?
Mark Lilla con Amy Rosenthal

Questa intervista è tratta dal numero 86 della rivista Reset in questi giorni in edicola e in libreria, con il titolo “Parla un liberale alla Aron molto poco neocon”.

Mark Lilla è professore al Committee for Social Thought dell’Università di Chicago. Come filosofo politico, ha la rara abilità di far valere una profonda conoscenza della tradizione intellettuale occidentale sulle pressanti questioni politiche del momento. I suoi contributi a “The Partisan Review”, “The New York Review of Books” e “The New Republic” sono imperniati su temi della vita intellettuale europea (che vanno da Martin Heidegger e Carl Schmitt nella Germania tra le due guerre a Michel Foucault e Jacques Derrida nella Francia dopo la Seconda Guerra mondiale), Leo Strauss e i neo-conservatori, o anche la politica moderna. È autore di numerose opere importanti come The Reckless Mind: Intellectuals in Politics (2001) e The Legacy of Isaiah Berlin (2001). Grazie alle sue attività accademiche e saggistiche è considerato un autentico intellettuale pubblico negli Stati Uniti e all’estero.

Recentemente definito “un professore dell’Università di Chicago politicamente inclassificabile”, Lilla fornisce la sua analisi della connessione tra Leo Strauss e i neo-conservatori e la sua opinione sull’avventurismo messianico dell’amministrazione attuale, sulla politica estera americana e sulla spaccatura politica tra Europa e Stati Uniti. In tutte le risposte di Lilla, si sente l’eco di quella che è la sua premessa, che dobbiamo “dominare il tiranno interno” praticando l’autocontrollo e abbracciando la virtù della moderazione.

Fino a che punto (se così è stato) Leo Strauss ha influenzato i neo-conservatori di oggi?

C’è stata così tanta cattiva informazione e disinformazione in giro sull’argomento che è difficile sapere da dove cominciare. È vero che esiste una connessione intellettuale tra gli allievi di Strauss e la nascita del neo-conservatorismo negli anni settanta. È vero anche che tanti giovani straussiani americani sono oggi molto impegnati ideologicamente nella politica repubblicana. Da questi fatti, tuttavia, non consegue che il pensiero di Strauss porti necessariamente alla politica neo-conservatrice. Oggi le sue opere si stanno studiando con profitto in tutto il mondo, anche in Italia, e al di fuori degli Stati Uniti nessuno ne ha fatto derivare un programma ideologico. La questione interessante è piuttosto che cosa ne sia stato in America dell’eredità intellettuale di Strauss.

In altre parole, se la connessione tra Strauss e neo-conservatori convalida o distorce il filosofo e le sue opere?

La principale preoccupazione intellettuale di Strauss era quella che lui definiva il “problema teologico-politico”, con cui intendeva la tensione tra il carattere di sacralità dell’autorità politica (se sia o meno corroborata dalla religione rivelata) e l’atteggiamento scettico e libero del filosofo autentico. Tutta la sua opera interpretativa e le sue riflessioni sulla politica sono imperniate su tale questione. Strauss era un conservatore per natura, era scettico riguardo al moderno culto del progresso e apprezzava la sobrietà degli antichi, ma non era fazioso per natura. Ha avuto i suoi primi allievi quando è arrivato negli Stati Uniti, alla metà della sua vita, verso la fine degli anni Quaranta, e loro hanno cercato di mettere in relazione gli studi di Strauss sulla storia del pensiero politico con l’esperienza americana, un compito che Strauss non si è mai preso la briga di intraprendere. All’inizio il loro approccio alla politica è stato, per dirla in breve, approssimativamente tocquevilliano: in altre parole, vedevano di buon occhio l’esperimento democratico americano, ma si preoccupavano dei problemi derivanti dall’ideologia democratica dell’uguaglianza.

Dopo il 1968, lo straussianesimo è cambiato. Nel 1973 Strauss è morto, e non molto tempo dopo molti suoi allievi – il più noto è Allan Bloom – hanno cominciato a parlare degli Stati Uniti in termini più apocalittici: Bloom è addirittura arrivato a paragonare Woodstock ai raduni di Norimberga. Nel corso degli ultimi trent’anni, lo straussianesimo come scuola intellettuale è cresciuto e ora è alla sua quarta generazione. Ma è cresciuto anche diventando molto più politico. La ragione di ciò, penso io, non ha tanto a che fare con gli scritti di Strauss quanto con l’implosione delle università americane negli anni Settanta, che ha rafforzato il Kulturpessimismus degli straussiani e li ha convinti che dovevano diventare impegnati. Sono stati assorbiti dai neo-conservatori, e non il contrario. Ora sono parte di un vasto complesso politico-intellettuale che ha il suo centro a Washington, ma non sono assolutamente loro a guidarlo. Strauss, come dicevo, era per sua natura un uomo conservatore; è difficile immaginarlo compiaciuto dalla retorica messianica della politica estera ispirata oggi dai neo-conservatori americani.

Clyde Prestowitz, un conservatore tradizionale, ha recentemente invocato un ritorno al conservatorismo vero tracciando una distinzione tra il conservatorismo e i neo-conservatori con la sua affermazione che “i conservatori veri non sono mai stati messianici o dottrinari”. Lei sarebbe d’accordo o no?

Il neo-conservatorismo ha molto poco a che fare, storicamente o ideologicamente, con il conservatorismo americano. Il conservatorismo americano è sempre stato passivo. Come ogni conservatorismo autentico, annette importanza alla prudenza e alla sua venatura romantica, che è autentica, ed è espressa solamente in relazione al passato (che il passato sia la fondazione americana, o l’Angloamerica, o il protestantesimo americano, o la semplicità rurale americana). Ecco perché, in una società rivolta al futuro come quella statunitense, il conservatorismo qual era concepito in origine aveva un impatto molto limitato sulla politica americana ai massimi livelli. Era sempre un’influenza marginale. Louis Hartz aveva ragione: per sua natura, l’America è uno stato liberale e le lotte politiche in genere vedono contrapposti liberali di destra e liberali di sinistra.

Il neo-conservatorismo è cresciuto negli anni Sessanta e Settanta, e in origine è stato concepito come un ritorno al liberalismo autentico da alcuni dei suoi padri fondatori come Irving Kristol, Nathan Glazer, Daniel Patrick Moynihan e Daniel Bell (che ha ripudiato l’etichetta di neo-con). Non erano conservatori nel senso tradizionale; erano liberali “assaliti dalla realtà”, per citare la memorabile frase di Kristol. Sostenevano lo stato sociale, anche se non tutti i programmi creati negli anni Sessanta, molti dei quali sembravano loro controproducenti; erano anticomunisti ma non bandivano crociate; mostravano un “blando entusiasmo” per il capitalismo in un’epoca in cui la sinistra liberale provava solo disprezzo per il commercio e la vita borghese. Quello che li ha disturbati negli anni Sessanta era il tono illiberale e le aspirazioni dei movimenti studenteschi e della nuova sinistra. Sentivano che stavano difendendo l’autentica tradizione liberale di Francis Delano Roosevelt e Harry Truman.

Per gli anni Ottanta, tuttavia, molti neo-con si erano radicalizzati e non ritenevano più possibile contenere i cambiamenti sociali frutto degli anni sessanta da loro rimpianti. Sono diventati reazionari in senso proprio: qualsiasi cosa volesse la sinistra, loro si opponevano. Si sono spostati dal partito democratico a quello repubblicano, si sono uniti all’amministrazione Reagan, e hanno sviluppato le connessioni con il diritto religioso. Molti dei pensatori originali di questo movimento, come Daniel Bell, hanno resistito a questo cambiamento e hanno interrotto i rapporti con i neo-con impegnati, che da allora sono diventati una sorta di “governo ombra” a Washington. Dal 1989 il loro obiettivo si è spostato dalla politica interna a quella estera, e hanno tentato di gettare le basi di una nuova politica estera che secondo loro porrà termine ai traumi del Vietnam.

Si può dire che la politica estera di Bush è una continuazione di quella di Clinton, dal momento che quest’ultimo ha dato inizio all’intervento nella ex-Jugoslavia?

È difficile rispondere a questa domanda perché dall’11 settembre sono cambiate così tante cose. Certamente è vero che la politica estera di Clinton era praticamente uguale a quella di George Bush Senior, e che senza l’11 settembre anche la politica di suo figlio si sarebbe mantenuta nel solco della stessa tradizione. Ma l’11 settembre ha dato ai neo-con l’opportunità di sperimentare un nuovo approccio, un approccio preventivo, indipendente dagli alleati ed esplicitamente imperialistico (nel senso di voler estendere l’impero della democrazia liberale, con la forza se necessario).

Esiste una possibilità di ripristinare il centro vitale, una volta esistente, della politica estera statunitense, oppure la spaccatura del dibattito intellettuale in America è tale da rendere la cosa ormai impossibile?

Il “centro vitale” sviluppatosi sotto Clinton è scomparso e sembra che stiamo tornando indietro nel tempo, agli anni Settanta e Ottanta, quando il disaccordo tra democratici e repubblicani sulle minacce da affrontare e sugli strumenti corretti per gestirle era così forte che la discussione era diventata quasi impossibile. Il successo dei film grossolani di Michael Moore è un trascurabile segno nella cultura popolare del fatto che il centro non terrà.

Pensa che gli Stati Uniti abbiano ancora qualcosa da imparare dall’Europa (vecchia o nuova)? E che cosa potrebbe imparare l’Europa dagli Stati Uniti? E ancora, ritiene che la riconcettualizzazione europea dell’idea di stato nazionale sia un aspetto fondamentale del contrasto tra gli Stati Uniti e le nazioni chiave dell’Unione Europea sul modo di trattare i conflitti internazionali?

L’Europa e gli Stati Uniti hanno tanto da insegnarsi a vicenda, se solo fossero in grado di imparare, e ora non sembra proprio che sia così. Quello che gli Stati Uniti possono e dovrebbero insegnare all’Europa occidentale è il valore dello stato nazionale, anche all’interno di un sistema di diritto internazionale; la necessità di usare la forza ed esercitare il potere quando necessario (solo il potere può far accadere le cose giuste); e la necessità di fare dei sacrifici economici per costruire una forza militare credibile in Europa. Su tutti questi punti, Robert Kagan aveva completamente ragione, per quanto, se gli europei avessero letto Raymond Aron, non avrebbero mai avuto bisogno del sermone di Kagan.
Quello che l’Europa occidentale può e dovrebbe insegnare agli Stati Uniti è che potrebbe essere possibile migliorare i governi in tutto il mondo senza necessariamente democratizzarli, e certo non con la forza; ci può informare sulle complessità sociali e culturali di società che l’Europa, data la sua eredità coloniale, comprende meglio di noi; ed è in grado di ricordarci la necessità della cooperazione internazionale, non tanto su basi morali quanto su basi pratiche e prudenziali. Gli Stati Uniti sono la più grande potenza mondiale, ma le minacce che si trovano ad affrontare sono ancora più grandi, e oggi l’America non sembra cogliere la differenza.

In un articolo intitolato “Lonely Campus Voices” apparso sul “New York Times” del 27 settembre 2003, David Brooks la definisce “un professore dell’Università di Chicago politicamente inclassificabile”. Ci si ritrova?

Mi ha divertito, l’ho considerato un segno di questi tempi di sconvolgimento. Io condivido un liberalismo americano classico del genere di quello che il neo-conservatorismo in origine coltivava e difendeva. Il fatto che una persona simile non rientri in nessuna delle nostre attuali “classificazioni” significa che la democrazia americana non comprende più la propria eredità liberale, con la sua promessa e i suoi limiti.

(traduzione di Dora Bertucci)

 

 

 

 

 

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