Chiara Valentini, Fecondazione
proibita,
Feltrinelli, 2004, euro 13,00, pagg. 187
Negli aulici e un po’ polverosi dibattiti filosofici
sempre più fa capolino un nuovo tipo di argomentazione,
utilizzata per mettere alla prova la “verità”,
adeguatezza, ragionevolezza, equità delle teorie
in discussione: e cioè la compatibilità
di queste ultime con la vita quotidiana, con il suo
carico di abitudini e piccole emozioni. Si tratta
di un tipo di “test” che certamente rende
la riflessione un poco meno aulica, e ne abbassa le
pretese mirabolanti, ma contribuisce a renderla sicuramente
meno ideologica.
A differenza della filosofia, il diritto è
sempre stato più attento all’”applicabilità”
delle norme giuridiche nella pratica di vita, correggendo
le leggi nella misura in cui esse risultassero di
fatto inapplicabili. Purtroppo non si può dire
lo stesso della legge 40 sulla fecondazione assistita,
che, massiccia fortezza granitica, si abbatte sulle
singole esistenze creando scompiglio e sofferenza.
È per questo che una brava giornalista come
Chiara Valentini ha deciso di scrivere un libro, Fecondazione
proibita (Feltrinelli), raccontando decine di
storie di vita di singole donne e famiglie, italiani
e non, alle prese con il desiderio di un figlio, e
tracciando al tempo stesso una storia, quella della
nascita e diffusione delle tecniche di fecondazione
assistita, con tutti i casi “eclatanti”
e curiosi che di volta in volta hanno scosso l’opinione
pubblica. Storia emozionante, anche se racchiusa in
una manciata di anni: basti pensare che il primo essere
umano nato ufficialmente in provetta ha oggi appena
26 anni.
Il racconto del back-stage, per così
dire, delle tecniche della fecondazione, ovvero le
complesse e contrastanti motivazioni che accompagnano
la scelta di avere un figlio in maniera “artificiale”,
consente all’autrice di arricchire il quadro
della discussione sul tema, spesso limitata all’opinione
di teologi, filosofi e intellettuali in parte ciechi
di fronte ai reali bisogni dei singoli. A questo proposito,
l’autrice ricorda alcune delle voci critiche
verso la fecondazione in vitro sono state donne, filosofe,
femministe, che in essa vedevano una sorta di riconferma
dell’equazione arcaica tra donna e madre, senza
fermarsi a considerare la possibilità che la
maternità coincidesse con quei desideri profondi
che pure esse si erano impegnate a difendere.
Sebbene dunque il dibattito sulle nascenti tecniche
di fecondazione abbia dato luogo a schieramenti diversamente
popolati, e non riconducibili al secco scontro laici-cattolici,
le vicende raccontate dalla Valentini non possono
fare a meno di soffermarsi sull’asprezza dell’opposizione
cattolica in merito, talmente ferma sulle sue posizioni
da arrivare al paradosso. È l’autrice
stessa a ricordare che ciò che l’ha condotta
ad occuparsi di fecondazione è stato proprio
l’interrogativo, riconosciuto in parte come
ingenuo, sul perché proprio coloro che dichiaravano
di difendere la vita contrastassero le tecniche in
grado di dare vita a chi non poteva generarla naturalmente:
“Mi meravigliava insomma che quei cattolici
integristi e quei conservatori che conducevano campagne
martellanti per il diritto alla vita non fossero d’accordo
neanche quando le donne la vita la volevano dare”
(19).
Ma la storia della battaglia cattolica è puntellata
di episodi che virano nel grottesco. Come quello legato
al documento pontificio Istruzione sul rispetto
della vita umana nascente e la dignità della
procreazione, che mentre vietava anche l’inseminazione
col seme del marito, perché prevedeva la masturbazione
per raccogliere il seme, la consentiva nel caso in
cui l’inseminazione non sostituisse l’atto
coniugale: dando così luogo a curiose interpretazioni
su come ciò fosse possibile (secondo un ginecologo
cattolico, ad esempio, la soluzione doveva consistere
in una copula fatta con un preservativo, dotato tuttavia
di un piccolo foro che non impedisse la procreazione
naturale).
La narrazione delle pressioni vaticane conduce direttamente
l’autrice ad arrivare al racconto dell’approvazione
della legge 40, dopo anni di tentativi falliti di
fornire una regolamentazione più equilibrata
(tra cui l’autrice ricorda quello, definito
in parte ingenuo, della diessina Marida Bolognesi,
che grazie ad esso acquisì peraltro una certa
notorietà), e delle sue conseguenze drasticamente
negative proprio sulle vite concreta e quotidiane
degli individui. Vite che il libro racconta con passione,
senza tuttavia fornire indicazioni definitive sulla
giustezza o meno delle singole scelte, ma mettendone
in luce piuttosto le ragioni, affettive e morali,
dalle quali discendono.
D’altro canto, come spiega suggestivamente
Stefano Rodotà nell’introduzione al volume,
lo stesso desiderio di proibizione spesso non è
figlio altro che della paura. Proprio perché
“vi è una diffusa e persistente difficoltà
sociale nel metabolizzare le innovazioni scientifiche
e tecnologiche quando queste incidono soprattutto
sul modo in cui si nasce e si muore, sulla costruzione
del corpo nell’era della sua riproducibilità
‘artificiale’, sulla possibilità
stessa di progettare la persona”, allora “lo
sconcerto è comprensibile, perché appaiono
sconvolti i sistemi di parentela e l’ordine
delle generazioni, l’unicità stessa delle
persone. È l’antropologia profonda del
genere umano che di colpo, nel giro di pochi anni,
viene messa in discussione. Si manifestano angosce,
si materializzano fantasmi: e il diritto appare
l’unica cura sociale, con una intensa richiesta
di norme, limiti, divieti” (pag. 7, corsivo
mio). Per questo, scelte diverse possono sovente essere
figlie di sentimenti simili e a volte arcaici, proprio
come la volontà di congelare il seme espressa
dai soldati in partenza per l’Iraq esprime il
tentativo di scongiurare la paura della morte e, in
un qualche modo, “sconfiggerla” (“O
morte, dov’è la tua vittoria? O morte,
dov’è il tuo pungiglione?”: versetti
antichi, ricordati dallo stesso Rodotà).
Di fronte al complesso groviglio di paure, bisogni,
desideri e all’aumento esponenziale delle possibilità
offerteci dalla scienza, tanto maggiore appare, secondo
l’autrice, il compito del legislatore: il quale
dovrebbe razionalizzare quei desideri, e fornire loro
una gratificazione compatibile con il rispetto, attraverso
una regolamentazione che, diversamente all’attuale
legge 40, non riduca la complessità del dibattito
sui temi della vita e della morte.
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