Questa intervista è apparsa sul quotidiano
la Repubblica l'8 dicembre 2004
"La nuova Europa, più larga ed eterogenea, è alla
ricerca di quel che la tiene insieme. L'economia non
basta a fare coesione. La religione può aiutare, se
riusciamo a trasformare le differenze in un punto
di forza." Parole di Krzysztof Michalski, uno dei
quattro intellettuali (gli altri: Geremek, Rocard,
Biedenkopf) che hanno cercato una risposta comune
alla domanda "che cosa tiene insieme l'Europa?". Lui
sta al crocevia di relazioni chiave dell'Unione a
25. La sua base è Vienna dove c'è l'Istituto delle
scienze dell'uomo, che dirige e che ha fondato nel
1982. E' polacco e insegna filosofia all'università
di Varsavia e in America alla Boston University, ha
scritto saggi su Heidegger e Husserl. Vicino a grandi
della filosofia contemporanea come Hans G. Gadamer
e Charles Taylor, Michalski è un protagonista, con
la sua importante rivista, "Transit", della discussione
sulla cultura europea e sul rapporto tra religione
e politica. Un altro dato della sua biografia è il
legame di amicizia e di collaborazione con il Pontefice,
dal quale sono nati negli anni i seminari estivi di
Castelgandolfo, da lui organizzati, nonché il libro
prossimo venturo di Karol Wojtyla, Memoria e identità
(che uscirà in primavera, in Italia da Rizzoli). Il
volume scaturisce dai colloqui che lui e Jozef Tischner
- un altro filosofo polacco, scomparso pochi anni
fa - ebbero nel 1993 con il Papa proprio nella sua
residenza estiva.
La rilevanza di questo rapporto personale con Giovanni
Paolo II, reso adesso più visibile in tutto il mondo
dall'imminenza del libro che ha già fatto discutere
prima ancora dell'uscita (per i giudizi su nazismo
e comunismo, mali del secolo scorso), è un tema cui
Michalski è comprensibilmente molto sensibile e di
fronte al quale precisa, con estrema chiarezza, di
non voler in nessun modo coinvolgere, in quel che
dice, nient'altro che la sua personale responsabilità.
La domanda di Prodi cui risponde il vostro
documento: che cosa tiene insieme l'Europa allargata?
Cominciamo da qui.
Non è un semplice problema accademico perché
l'allargamento porta un inevitabile aumento delle
diversità interne all'Unione: i nuovi paesi membri
sono per lo più poveri e, dal punto di vista culturale,
sono più eterogenei rispetto ai quindici stati che
li hanno preceduti, o - ovviamente - ai sei stati
fondatori. Attraverso il processo costituzionale,
d'altro canto, si tenta di ridefinire l'appartenenza
all'Unione in termini più ambiziosi. Tuttavia le forze
coesive tradizionali, che finora hanno tenuto unita
l'Europa, pur non essendo completamente scomparse,
hanno perso gran parte della propria efficacia e si
dimostrano ora insufficienti. Dopo la Seconda guerra
mondiale, infatti, ad assicurare la coesione europea
sono state la necessità di mantenere la pace all'interno
dell'Europa - pensiamo agli allora difficili rapporti
tra Francia e Germania -, e quella di proteggere la
propria libertà - pensiamo all'Unione Sovietica. Oggi
queste necessità - che rappresentavano delle forze
unificanti - sono ormai soddisfatte.
Ma i fattori economici non possono nel tempo
agire in senso coesivo?
Siamo giunti alla convinzione che ulteriori
forze coesive non possano essere ricercate né nell'unione
economica, né in qualche pericolo politico ormai scomparso.
In particolare, la coesione economica può funzionare
nel senso dell'integrazione solo fino a un certo punto:
il mercato in sé non è coesivo, non produce solidarietà,
piuttosto esso la presuppone e presuppone anche delle
istituzioni politiche fondate su una solida cultura.
Il mercato tende a frazionare più che a unire. E'
per questo motivo che ci siamo concentrati sulla cultura
comune europea. Si tratta ora di definire cosa sia
questa cultura
Lei sostiene che la cultura può tenere unita
l'Europa, eppure si potrebbe affermare anche il contrario,
ovvero che è la cultura, a causa delle differenze
che mette in luce, a dividere le persone.
Certamente, e ciò rende la cosa ancora più
interessante. Tuttavia la cultura europea è forte
grazie alle sue differenze. L'Unione Europea dovrà
trovare il modo di gestire queste diversità senza
annullarle in un denominatore comune. La cultura europea
non è un dato di fatto, non è qualcosa che può essere
semplicemente descritto, è un processo o un obiettivo,
la cui definizione implica la politica e non può essere
data a tavolino perché deve essere applicabile dal
popolo a ciò che è ora e a ciò che sarà in futuro
Può fare un esempio?
Credo che la questione dell'immigrazione
sia un ottimo esempio. È un'illusione ritenere che
le politiche sull'immigrazione possano basarsi su
qualche concetto culturale europeo pronto per l'uso
che arrivi a definire i nostri confini: dove possiamo
andare, dove gli altri possono arrivare, a quanti
possiamo permettere l'accesso, e cosa essi debbano
apprendere per poter diventare, come noi, dei bravi
cittadini europei. No. Chi siamo è una domanda aperta.
Il testo della Costituzione europea ormai
è stato redatto e firmato dai capi di governo, la
discussione sul preambolo è terminata. Perché rispondere
ora alle domande sollevate da quel dibattito?
Non era necessario che il nostro documento influenzasse
il testo della Costituzione o che, ora, influenzi
qualche altro testo europeo. L'importante è la discussione
pubblica che, di sicuro, inizierà con il processo
di ratificazione. A questo proposito, vorrei che il
nostro documento stimolasse il dibattito e chiarisse
che né l'economia, né la cultura, né la geografia
possono essere considerate condizioni esterne al processo
politico: nessuna di esse lo è. La sola economia non
condurrà all'integrazione della nuova Unione Europea,
essa richiede, infatti, volontà politica e un processo
politico che deve considerare le realtà culturali,
e anche quelle religiose, senza, con questo, riferirsi
ad esse come a delle realtà precostituite. Il dibattito
pubblico è importante proprio perché, attraverso questo
processo politico, verrà fondata la nuova Europa.
Di quel preambolo costituzionale si è molto
discusso. La Polonia aveva chiesto di inserire nel
testo il nome di Dio. Poi si è parlato delle radici
cristiane. Qual è la sua posizione?
È ovvio che la religione non è una questione
privata e che svolge un ruolo nello spazio pubblico.
La questione è quale sia questo ruolo. Sicuramente
la cristianità è almeno una delle radici dell'Europa.
Non è possibile immaginare l'Europa senza la tradizione
cristiana. Alla religione va non solo concessa ma
fornita la possibilità di agire nello spazio pubblico,
tuttavia, l'unità politica deve fornire questa possibilità
alle istituzioni della società civile in generale.
La politica deve, infatti, assicurare questo spazio
a tutti, senza privilegiare nessuna particolare istituzione.
Ciò che ci interessa è la coesione e non la divisione:
come trovare il fondamento di un'Unione che includa
tutti e non escluda nessuno. E' pericoloso utilizzare
termini generici come Cristianità, o Islam, in una
discussione di questo tipo, riferendosi ad essi come
rappresentassero delle tradizioni da accettare o rifiutare
in blocco.
Ma che cosa significa questo concretamente?
L'obiettivo politico deve essere quello di cercare
nelle religioni quelle forze coesive, non esclusive,
che facciano da collante anche tra membri di diverse
comunità religiose. Personalmente, ritengo che la
Cristianità abbia un grande potenziale coesivo. Questo
è vero anche se la storia, a partire dal diciassettesimo
secolo, ci ha abituati a un ruolo frazionante della
religione all'interno dello spazio pubblico, motivo
per cui molti stati europei hanno generalmente cercato
di escludere o, almeno, di allontanare la religione
dallo spazio politico. Va poi ricordato che la presenza
della religione nello spazio pubblico è complessa:
per quanto l'Europa sia il continente più secolarizzato,
esiste, infatti, un carattere religioso nascosto,
un arcipelago sotto la superficie dell'acqua, in molte
istituzioni laiche della società civile.
La formulazione del testo costituzionale
può dare il giusto spazio alla religione pur senza
farne menzione?
Credo che nessuno ritenga l'attuale formulazione
la più felice possibile, e ci sono numerose proposte
su come menzionare la religione senza escludere nessuno.
Credo comunque che la Costituzione Europea e l'unione
politica che essa rappresenta debbano essere aperte
non solo a tutti coloro che già vivono in Europa ma
anche ai membri futuri e ai futuri cittadini; per
questo motivo, non si può privilegiare nessuna cultura
né alcuna particolare forma religiosa.
Ultimamente si discute molto della presenza
di tematiche religiose nella vita politica, negli
Stati Uniti come in Europa. Pensa che le due situazioni
siano comparabili?
Comparabili ma non simili. Negli Stati Uniti questa
presenza della religione nell'ambito politico non
è affatto una novità e, da questo punto di vista,
l'ultima campagna presidenziale non è un'eccezione
perché da moltissimo tempo la religione esercita una
forte influenza sulla politica. Il caso dell'Europa
è diverso. Rispetto all'Europa, dove dal diciannovesimo
secolo la secolarizzazione è avanzata di pari passo
con la modernizzazione, gli Stati Uniti sono una nazione
molto più religiosa. Anche se è interessante studiare
il ruolo che religioni svolgono all'interno dello
spazio pubblico, ritengo che sia molto più rilevante
ribadire che i gruppi religiosi devono essere trattati
come tali e che lo stato non deve prendere le parti
di nessun particolare gruppo civile, compresi quelli
religiosi. In altre parole, deve esserci una netta
divisione tra chiesa e stato.
In Europa ci sono molte differenze tra i
vari stati membri. Si va dalla Spagna di Zapatero,
alla Polonia cattolica.
Avendo vissuto in diversi paesi, dalla Polonia agli
Stati e all'Austria, ho potuto constatare direttamente
alcune di queste differenze. Tuttavia non sono così
sicuro che esse siano poi così fondamentali. Nel caso
della Polonia, ad esempio, la tradizione si mescola
alla situazione politica. La tradizione ormai centenaria
rende, infatti, la Polonia un paese cattolico, ma
ciò non esclude che essa sia anche anti-clericale:
la chiesa è un'istituzione molto forte, ma anche in
Polonia esiste una divisione tra stato e chiesa. Un
buon esempio può venire dal famoso sciopero del 1980,
all'epoca il primate polacco, considerato un eroe
popolare nazionale, fece trasmettere un appello in
televisione in cui chiese ai lavoratori di tornare
a casa: era spaventato dalla possibilità di un intervento
sovietico. Nessuno, però, seguì il suo consiglio,
eppure lui rimase un eroe nazionale: la gente, semplicemente,
non lo aveva ascoltato.
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