266 - 27.11.04


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Non una ma mille identità
Sergio Fabbrini


Quali indicazioni, o almeno informazioni, possiamo derivare dal conflitto che si è aperto tra la Commissione europea e il parlamento europeo relativamente alla candidatura dell'on. Rocco Bottiglione per il ruolo di commissario per la "Giustizia, Sicurezza e Libertà"? Io ne vedo almeno due rilevanti. La prima è un'indicazione di tipo istituzionale e la seconda culturale. Vediamole.

Potere vs diritti
Comincio dalla prima indicazione. Fino a non molto tempo fa, il Parlamento europeo contava come il due di picche. Seppure eletto direttamente dai cittadini sin dal 1979 (prima i suoi membri venivano designati indirettamente dai legislativi nazionali), il Parlamento europeo è stato tenuto, fino alla fine degli anni Ottanta, in un angolo del processo decisionale comunitario. La sua era una funzione consultiva, in quanto i veri padroni del gioco rimanevano i governi nazionali. Erano loro che nominavano i membri della Commissione europea ed erano loro che tenevano sotto controllo quest'ultima. Le cose sono cambiate sensibilmente nel corso degli anni Novanta. A partire dal Trattato di Maastricht del 1992, il Parlamento europeo ha acquisito sempre più poteri, formali e di fatto. Fino al punto di conquistarsi il potere di giudicare l'operato della Commissione. Come dovette riconoscere il povero Santer che la guidava alla fine degli anni Novanta, e che dovette dimettersi per evitare un veto di sfiducia del Parlamento nei suoi confronti (lasciando così la porta aperta per l'arrivo di Prodi).

Intendiamoci. Non è che il Parlamento europeo abbia gli stessi poteri dei parlamenti nazionali. E principalmente quello di fare e disfare i governi. L'esecutivo (cioè la Commissione) continua ad essere nominato dai governi nazionali ma, per iniziare ad operare, abbisogna dell'approvazione del Parlamento europeo. Si può dire che a Bruxelles si è istituito un meccanismo di controlli e bilanciamenti tra i governi nazionali (che costituiscono il Consiglio europeo e il Consiglio dei ministri) e il Parlamento europeo. Se i primi rappresentano il potere degli stati membri, il secondo (insieme alla Corte europea di giustizia) è venuto sempre di più a rappresentare i diritti dei cittadini degli stati membri. Tale tensione tra potere e diritti si scarica inevitabilmente nella Commissione, in quanto essa deve dimostrarsi capace di tenere in equilibrio l'uno e gli altri.

Ma se così è, allora non può stupire la reazione del Parlamento europeo (ovvero di una sua commissione) alle prese di posizione dell'esponente politico italiano. Probabilmente, nella censura nei suoi confronti sarà confluita l'antipatia o la diffidenza che molti parlamentari europei nutrono nei confronti del governo di centro-destra italiano e del suo leader. Tuttavia, quella censura non può essere spiegata solamente con tali valutazioni. Istituzionalmente, essa è dovuta al fatto che il nostro esponente politico è sembrato non aver compreso che la Commissione deve essere sensibile ai diritti dei cittadini europei, oltre che ai poteri dei governi nazionali. Dopo tutto, è sufficiente seguire le discussioni all'interno del Senato americano relativamente alla conferma o meno dei candidati presidenziali al ruolo di membro della Corte Suprema per capire che la tensione tra potere e diritti è propria di tutte le democrazie composite. Ora, se si vuole che l'Unione Europea incrementi la propria legittimazione democratica, allora è bene che il Parlamento europeo rafforzi la propria azione di promozione dei diritti dei cittadini.

Monopolio vs competizione
Vediamo ora la seconda indicazione, quella culturale. E' stato scritto da più parti che l'Europa è senza anima. Anzi, che è prigioniera di un bizzarro spirito laicista. Secondo l'opinione dell'editorialista de il "Corriere della Sera" Galli della Loggia, in Europa c'è una corrente maggioritaria di pensiero "politically correct" all'interno della quale sono esclusi i cattolici e i loro valori. Secondo l'opinione del presidente del Senato Marcello Pera, "in Europa il pregiudizio anti-cristiano c'è, e purtroppo è molto radicato". Sulla base di quali dati vengono avanzate simili opinioni? In realtà, esse hanno uno scarso fondamento logico ed empirico. Hanno uno scarso fondamento logico, perché l'Unione Europea è per buona parte l'esito dell'influenza del pensiero cristiano sulla politica continentale. Cristiani erano i fondatori della CECA e della CEE e d'origine cristiana sono alcuni dei principi che ne connotano l'identità istituzionale (basti pensare al principio di "sussidiarietà", preso di peso dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica). Hanno uno scarso fondamento empirico, perché l'Unione Europea è stata frequentemente guidata da leader politici cristiani (come alcuni presidenti della Commissione europea degli ultimi vent'anni, basti pensare a Delors, Santer o Prodi), che mai si sono sognati di denunciare l'esistenza di pregiudizi contro di loro.

Seppure (o forse perché) priva di fondamenti logici ed empirici, la denuncia di un pregiudizio anti-cristiano diffuso in Europa testimonia di un malessere all'interno della destra cattolica italiana. E non solo cattolica, se è vero che il presidente Marcello Pera è giunto al punto di affermare che "adesso dobbiamo dirci cristiani. E tutti gli europei dovrebbero dirlo. Soprattutto se laici". Tale malessere ha a che fare con la difficoltà della destra italiana ad elaborare una propria identità in un contesto multi-religioso oltre che multi-culturale. L'Europa, infatti, è destinata a modificare i termini del rapporto tra cattolici e politica. Per sua natura, l'Europa non potrà mai avere un'identità univoca, come invece l'ha avuta l'Italia. Una società di mezzo miliardo di abitanti, attraversata da una molteplicità di divisioni sociali e economiche, regionali e nazionali, religiose e culturali, non potrà che essere una società pluralista e aperta. Nessuna identità potrà mai imporsi sulle altre. Anche la stessa "identità cristiana" dell'Europa è poco più che una metafora. Perché, sul piano storico e sociale, per "identità cristiana" occorre intendere la somma (e non già la sintesi) di identità religiose plurime, fortemente differenziate le une dalle altre, sia teologicamente che culturalmente. Basti pensare alle differenze tra protestanti e cattolici e, quindi, a quelle all'interno degli uni e degli altri. Differenze segnate da vicende nazionali distinte e conflittuali. Dopo tutto, la comune "identità cristiana" non ha impedito agli europei di ammazzarsi reciprocamente. E ciclicamente.

Dunque, il malessere della destra cattolica italiana sembra provenire dalla sua difficoltà a trovare una collocazione in un contesto religioso e culturale competitivo e non più monopolistico. La costruzione dell'Europa sovranazionale ha fatto saltare le protezioni dello stato westfaliano, con la sua riuscita sovrapposizione tra la dimensione religiosa e quella politica. Nell'Europa post-westfaliana non si può più applicare il principio del cuius regio, eius religio. La crisi dello stato westfaliano ha finito per indebolire le posizioni culturali che più di altre si erano definite in relazione al monopolio delle risorse identitarie. L'Europa sovranazionale ha messo in discussione le chiese di stato, ma anche gli stati che si sono proposti come chiesa. L'Europa si presenta come una grande mercato di idee e valori. Proprio perché è un'arena dove competono autorità diverse e giurisdizioni sovrapposte. Alcuni studiosi come Gary Marks l'hanno paragonata ad un sistema neo-feudale ad autorità plurime, altri come Philippe Schmitter ad un condominio. Fatto si è che nell'Europa di oggi non vi può essere una coincidenza identitaria tra politica e religione. L'assenza di tale coincidenza non ha privato l'Europa della sua anima, ma l'ha aperta alla possibilità di avere una pluralità di anime. Avviando finalmente l'Europa verso quell'identità liberale che ha avuto non poche difficoltà a prosperare nei suoi stati membri. Infatti, il liberalismo della diversità mal si è conciliato con il monopolismo dell'uniformità westfaliana. Dunque, é il pluralismo dell'Europa sovranazionale che la destra cattolica italiana sembra temere.

Pluralismo vs fondamentalismo
E sembra temerlo perché essa ritiene che il pluralismo sia in realtà una forma mascherata di "relativismo culturale". Un "relativismo culturale" che ha favorito un processo di secolarizzazione che deve essere contrastato religiosamente. Dove la secolarizzazione viene fatta coincidere, più o meno implicitamente, con l'assenza di valori. Non è così. Non solo perché il processo di secolarizzazione è tutt'altro che evidente. Ma anche e soprattutto perché l'Europa così detta secolarizzata è oggi uno dei posti più civili al mondo. Naturalmente, non civile abbastanza per chi desidera la piena dignità di ogni individuo. Ma civile abbastanza per consentirci di vivere nel rispetto diffuso di alcuni diritti naturali. Ma come sarebbe possibile tutto ciò, se l'Europa fosse una società senza valori? Insomma, non si può guardare all'Europa sulla base dello stesso paradigma, culturale prima ancora che politico, con cui si è interpretato il conflitto storico tra stato e chiesa nei singoli paesi europei (e in Italia in particolare). Come se l'Europa fosse uno stato da contrastare e conquistare, e il cattolicesimo una chiesa da difendere o da promuovere. In Europa non c'è uno stato, né c'è una chiesa, ma una pluralità di forme di aggregazione pubbliche e religiose.

La società europea è pluralista in quanto è connotata da gruppi ed individui che perseguono fini e valori diversi, tutti degni, però, della stessa considerazione culturale e giuridica. Una società pluralista richiede che ogni comunità di valori riconosca la dignità delle altre comunità di valori. E, soprattutto, richiede che ogni comunità (ed ogni individuo) sia disposta (disposto) a confrontare i propri valori con quelli degli altri. E' il confronto tra i valori, e tra i valori e la realtà, che favorisce la maturazione della società (e la stessa ridefinizione dei valori stessi). Se si entra nel pluralismo con l'idea che vi sono dei valori "fondamentali", giusti per definizione, impermeabili alla storia e alla società, e quindi indiscutibili, allora quel pluralismo è destinato a perire. Perché esso verrebbe trasformato in un campo di battaglia tra opposti fondamentalismi, incapaci di ascoltarsi, e desiderosi di affermarsi sugli altri piuttosto che di imparare dagli altri. Nella società liberale non vi può essere una "verità di fondo", proprio perché ve ne sono tante di "verità di fondo".

E' un bene che l'Europa solleciti i cattolici "intransigenti" a fare i conti con le opportunità e i vincoli del pluralismo (ma ciò vale anche per i protestanti o i laici o i mussulmani "intransigenti"). Una società pluralista richiede una politica che sappia preservarne la natura. Non basta la distinzione kantiana tra diritto e morale per riconoscere e rispettare quest'ultima. Perché quella distinzione era stata giustificata da ragioni difensive, mentre il pluralismo implica e richiede una politica attiva. Una politica che sappia promuovere il confronto tra valori diversi, trasformandoli in preferenze e non già in assiomi. Insomma, una politica che riconosca che in una società pluralista non vi sono peccatori, ma individui portatori di preferenze culturali, sessuali, morali diverse. Individui che debbono avere la possibilità di rivendicare la dignità della propria differenza, fino a quando accettano le regole liberali del rispetto reciproco e del confronto argomentato.

In conclusione, l'Europa è culturalmente pluralista, così come istituzionalmente pluralista è la sua espressione politica, l'Unione Europea. Il pluralismo è alla base dell'identità europea. Esso è inconciliabile con le posizioni di monopolio istituzionale e culturale. L'anima delle società e delle politiche pluralistiche è nel fare del pluribus un unum. Dove ciò che unisce è un metodo e non già uno specifico contenuto. Chissà che la posizione critica dei parlamentari europei verso Rocco Buttiglione non si trasformi in un'occasione per fare maturare anche il dibattito pubblico italiano verso prospettive più liberali.

Sergio Fabbrini è professore di Scienza Politica presso l'Università degli Studi di Trento, dove dirige il Dottorato in "International Studies". Direttore della "Rivista italiana di scienza politica". Il suo ultimo libro è (a cura di), Democracy and Federalism in the European Union and the United States. Exploring Postnational Governance, Londra, Routledge, 2004.

 

 

 

 

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