speciale - elezioni Usa 2004


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La bugia, una questione antica come la politica
Intervista a Nadia Urbinati

Questa intervista è pubblicata sul numero 123 del mensile Una città

Nadia Urbinati insegna Teoria politica alla Columbia University di New York. Collabora a varie riviste di teoria e filosofia politica ed ha pubblicato Le civili libertà (ed. Marsilio, 1990); Individualismo democratico (ed. Donzelli, 1997); Mills on Democracy: From the Athenian Polis to the Representative Government (University of Chicago Press, 2002) che ha ricevuto il Eleain and David Sptiz Book Prize come migliore opera sul pensiero liberale e democratico.

La questione delle "armi di distruzione di massa", agitata dai governi americano e inglese come giustificazione della guerra contro l'Iraq, si è rivelata una colossale bugia. Ma qual è il peso, il significato, della bugia in politica e soprattutto: è compatibile la bugia politica con la democrazia?

Quello della menzogna, quindi dell'ingiustizia, come parte della politica è un problema antico quanto la politica perché ha a che fare con la potenza, cioè con l'oggetto vero e proprio della politica. Nessuna forma di governo é estranea a questo problema, nemmeno la democrazia la quale, pure, é fondata sulla pubblicità - nemica naturale della menzogna. Tucidide, nella Guerra del Peloponneso, racconta il dibattito fra gli Ateniesi e i Meli i quali si illudevano di poter restare neutrali nella guerra fra l'Atene democratica e la Sparta oligarchica. Gli Ateniesi, rifiutandola con disprezzo associarono la loro richiesta di neutralità alla debolezza: di fronte al dispiegarsi della potenza non è ammissibile ritrarsi e rimanere neutrali, è assurdo. La potenza può essere contrastata solo con la potenza. Per questo i Meli, che rifiutavano di sottomettersi ad Atene pur non volendo scontrarsi con lei, avevano la sorte segnata. Uno degli elementi del racconto di Tucidide che merita riflessione é che il dialogo tra Ateniesi e Meli si svolge a porte chiuse, tra i soli delegati e ambasciatori, non nell'assemblea plenaria dei cittadini. Nelle città greche - come negli stati moderni - la politica estera non era materia di dibattito pubblico; non importa se si trattava di città rette da democrazia o oligarchia. Al riparo dal popolo significa in segreto - e per tanto esposta naturalmente alla menzogna e all'inganno. Il problema è che, come appunto lo stesso Tucidide mostra, anche in materia di politica estera le decisioni, in una democrazia, devono essere comunque vagliate e votate dal popolo. La decisione tuttavia è un momento - l'ultimo, ma non il solo. Per giungervi l'attore -individuale o collettivo - deve disporre di conoscenze e quindi poter contare sulla certezza delle sue fonti. Diversamente la sua decisione sarà manipolata e la sua libertà condizionata.

Ma può esserci pubblicità e verità in un contesto di politica di potenza? Non è forse questo uno scenario che prova invece la necessità della menzogna proprio per sottrarre all'avversario le armi della conoscenza ovvero del potere? In un contesto come questo, non ha senso parlare di verità, perché l'unica verità è quella dell'utile e della forza; la verità è quella di chi domina e il suo utile é il criterio di giustizia. Per questo, per arrivare alla decisione "giusta" (ovvero decretata come necessaria da chi sa) occorre molto spesso raccontare bugie al popolo.

Secondo Kant, la bugia è il peggiore dei peccati, perché su di essa non si può costruire niente. Se ti mento (anche pensando di farlo per il tuo bene) è perché presumo di poter controllare il tuo futuro. Per questo, dice Kant, la bugia è segno di un potere soverchiante, non semplicemente di potere - il potere del despota o "signore-despota paterno". Con la mia menzogna, infatti, pongo me stesso in una condizione simile a quella di Dio perché quando mento per fare il tuo bene presumo di poter dominare gli eventi futuri, e quindi di avere un potere assoluto su di te e sulla catena degli eventi possibili che determinano la tua vita. Questo potere assoluto - che nessun uomo può e deve avere - è la ragione fondamentale per cui, soprattutto in politica, secondo Kant, la bugia (e la politica che più le è consona, la "ragion di stato") è assolutamente da respingersi.

La seconda ragione (seconda non per importanza, ma per necessità di ordine del discorso) per cui secondo Kant la bugia deve essere respinta è che essa viola il principio fondamentale della giustizia, ovvero la "universabilità" o "generalizzabilità" (cioè il fatto che una proposizione, un'affermazione, ha valore di norma etica nella misura in cui può essere rispettata da tutti e diventare una regola per tutti). La menzogna non può essere un modus operandi generalizzabile. Si può fare della bugia una regola alla quale tutti devono aderire? No, perché se tutti mentissero non ci sarebbe più possibilità di discriminare fra il giusto e lo sbagliato e la menzogna stessa sarebbe annullata. L'apparente paradosso è che perché ci sia la menzogna ci deve essere la verità. La tua menzogna può essere utile ai tuoi (perversi e sbagliati) piani solo perché tu presumi che tutti accettino la norma della verità non della menzogna. Per essere menzognero tu devi volere la verità dagli altri, mentre tu ti esenti dal perseguirla. Quindi, di nuovo, ti poni nella posizione dispotica di volere che tutti, ecceto te, sottostiano alla regola della verità.

La menzogna non può essere condizione di dialogo dunque, perché non può essere condizione né di giustizia né di umana convivenza. Le comunità non si reggono sulla menzogna, e infatti il patto, il contratto, di una comunità ideale è basato sull'opposto della menzogna, su una verità, o una modalità condivisa, fondante...

Se si sa che se tutti barano, nessuno può volersi sedere al tavolo da gioco…

Certo, tu accetti di giocare perché ci sono delle regole comuni -perché la segretezza è eccezione non regola. La menzogna, per questa ragione, non può stare insieme alla politica, se per politica si intende la deliberazione comune, perché deliberazione implica, impone, che noi siamo a conoscenza della realtà dei fatti su cui dobbiamo deliberare. E' vero che non si può avere una conoscenza completa di tutto, perché la decisione stessa la si prende proprio perché non c'è consenso. Occorre presumere un limite alle nostre conoscenze perché si abbia la decisione; si deve però poter avere la certezza che tutti abbiano accesso agli stessi elementi o fonti -che cioè ci sia una conoscenza comune alla quale tutti possono accedere, anche se ciascuno si formerà una diversa opinione. Questa è la regola aurea della democrazia: tutte le persone, almeno in teoria, dovrebbero essere nella condizione di attingere alle stesse sorgenti di conoscenza. Pubblicità non privatezza. Non tutti possono accedere ad un archivio privato; se fosse possibile, questo non sarebbe più provato, ovviamente.

Ci deve essere pubblicità tanto nelle fonti dell'informazione quanto nell'informazione stessa, quanto inoltre negli strumenti discorsivi di coloro che discutono dell'oggetto del contendere. Tutto deve essere pubblico. La pubblicità, nella dimensione della deliberazione pubblica, è l'equivalente della sincerità. Nell'etica abbiamo gli opposti della menzogna e della sincerità; nel sistema di conoscenza, nell'archivio della conoscenza, abbiamo gli opposti di falso e vero; nel sistema politico abbiamo gli opposti di segretezza e pubblicità. Sono coppie di opposti che stanno insieme, legate dalla stessa logica. Per questo Kant dice che tutto quello che è fatto in segreto è naturalmente propenso ad essere ingiusto, sbagliato, dannoso: se infatti fosse giusto, vero e utile verrebbe fatto in pubblico; anzi lo si vorrebbe pubblico non ultimo per desiderio di riconoscimento o per vanità o prestigio personale. Il fatto che tu faccia una cosa in segreto, che tu abbia bisogno delle tenebre per fare quella data cosa, significa che essa è falsa, sbagliata, ingiusta e, soprattutto, che può portare a una grande corruzione nella comunità democratica (o nella comunità degli amici o in quella degli amanti; ovvero in ogni associazione umana).

Una controprova è data appunto dalla politica internazionale, la parte della politica che più è adusa alla segretezza. La politica internazionale è infatti considerata dai pensatori classici e moderni come l'equivalente dello stato di natura o di potenziale guerra. Luogo dove non c'è democrazia o politica fondata sul discorso e il consenso; luogo della guerra, della sospensione della parola e dell'armonia. La politica internazionale è il regno della diplomazia, che è mezza verità.

Eppure tutti sappiamo che in politica "il fine giustifica i mezzi"…

Eppurre "fine" e "mezzo" sono intrecciati profondamente -uno non è disomogeneo all'altro. E questa corrispondenza è sottolineata sia dai teorici realisti della politica che dai critici del realismo. Lo stesso Machiavelli distingue tra la crudeltà del tirrannello e quella del fondatore degli stati; non sono la stessa cosa perché diverso è il fine. Ma come può essere buono il fine, se per raggiungerlo c'è bisogno di mezzi cattivi? Come può il fine essere giusto se per raggiungerlo occorrono mezzi ingiusti? A queste obiezioni in genere si risponde invocando la ragion di stato, ovvero ancora una volta il campo delle politica internazionale, quella di cui si parlava nel dialogo tucidideo fra Ateniesi e Meli, ovviamente tutt'altro che una politica del dialogo.

Eppure non c'è dubbio che il problema della menzogna esista, anche quando e dove c'é spazio per la politica come dialogo pubblico. Michael Walzer, in un bell'articolo su "Dirty hand politics" -"Mani sporche in politica" o "Politica dalle mani sporche"-, si interroga sull'eventuale caso di una causa giusta che richieda mezzi ingiusti e fa l'esempio di un partito democratico, che vuole il bene dei poveri, la giustizia, eccetera, e che, per fare la campagna elettorale o per raggiungere un certo obbiettivo o avere un finanziamento, fa favori o promettere di farne. Di fronte ad un caso del genere, molto consueto dice Walzer, non si può rinnegare il già detto: si tratta comunque di menzogna e immoralità, anche qualora si trovi il modo di giustificarlo. Una giustificazione può essere che così facendo si possono vincere le elezioni. Ma di nuovo: come possiamo saperlo in anticipo?

L'esempio di Walzer (molto machiavelliano) mira a mostrare come in politica non ci sia spazio per l'etica (privata) proprio perché la politica, a volte, impone scelte che violano i principi morali, impone scelte che fanno "perdere la salvezza". Occorre riconoscere che la politica non può essere completamente la politica della verità e della trasparenza (Robespierre era detto l'incorruttibile eppure non fece della Francia una democrazia libera). Non è possibile, non solo in politica estera, ma nemmeno in quella domestica. Non è possibile non solo nei regimi totalitari, dove c'è solo menzogna, ma neppure nei regimi democratici, dove la regola è la pubblicità. La politica, diceva Machiavelli, ha purtroppo a che fare col "dannarsi l'anima". La dimensione della politica è una dimensione tragica; ha a che fare con l'aspetto tragico dell'uomo, con l'affacciarsi sull'abisso, dove il bene e il male si incontrano perché il politico è colui che deve sporcarsi le mani per poter cercare di fare la cosa giusta.

Del resto sappiamo tutti che le città, le nazioni, gli stati, direi le religioni, sono stati fondati con la violenza, non con il dialogo pubblico e democratico: Romolo ha ucciso Remo, Caino ha ucciso Abele. L'atto fondativo, che è grande atto di creazione, è un atto di violenza e di menzogna e la tragicità sta appunto nel limite che la politica impone all'etica. Forse neppure una società giusta può sfuggire a questa dinamica tragica…

Questa dimensione tragica della politica, questa non-moralità, la si vede in maniera estremamente chiara nella politica internazionale, che non è una politica per tutti ma per pochi. Chi sono i grandi politici nella sfera internazionale? Sono quelli bravi a mentire, quelli bravi a convincere su basi precarie, quelli che sanno decidere di guerra e di pace, e così via. Per questo, storicamente, la questione della menzogna ha trovato una specie di accomodamento nello sdoppiamento della politica in due: domestica o interna, e internazionale o estera. Questo sdoppiamento ha portato alla distinzione, in politica interna, fra le forme di governo giuste e ingiuste; fra le forme di governo democratiche e le forme di governo tiranniche; mentre in politica estera queste distinzioni cadono e tutti si comportano nello stesso modo. Che cosa sottolineava Tucidide? Che la differenza fra la grande Atene democratica e le altre poleis stava essenzialmente solo nella politica interna. Pericle nella sua Orazione funebre esalta Atene: "Siamo i maestri dell'Ellade, siamo la città dove c'è libertà e tolleranza, dove ci trattiamo da uguali, dove tutti partecipano al bene comune e partecipano alla discussione ed alle decisioni. Per questo siamo il faro dell'umanità".

Il faro dell'umanità illumina gli altri con la grande civiltà che costruisce dentro le sue mura e che emancipa i suoi cittadini dallo stato di natura. Ma quando esce dai propri confini ripete la duplicità della politica ed agisce come la belva, come se la sola regola fosse la sopravvivenza non la verità. Del resto la figura mitica del centauro, mezzo uomo e mezzo animale, è anche la figura dell'animale umano che fonda le convivenze umane, perché il centauro, nella politica - contrariamente a quello che narravano i miti, nei quali il centauro ammaestrava ed inciviliva gli uomini e poi scompariva - è sempre vivo e presente. In questo contesto, la menzogna viene spesso usata nella politica estera e, come dice Walzer nell'articolo cui accennavo prima, quel che diventa importante è che la giustificazione di tale menzogna non sia menzognera; il che vuol dire che noi possiamo a volte usare vergogna e menzogna, ma solo per perseguire il bene generale, mentre è del tutto da respingere che si usi la menzogna per seguire l'interesse privato. Il presidente Bush, cioè, non può dire: "Bisogna fare la guerra perché quelli che mi sostengono alle elezioni devono poter avere i propri interessi soddisfatti", mentre, può dire "Abbiamo usato l'esagerazione ma l'abbiamo fatto per perseguire una causa giusta: l'interesse nazionale, e la diffusione della libertà in popoli che ancora non ce l'hanno". Il problema è, come sopra dicevamo, che nessuno può controllare la verità della menzogna, cioè nessuno può controllare quanto è lungo il conto della menzogna, dove comincia e dove finisce. La menzogna è insondabile; è per questo che la stessa ragion di stato ha bisogno di grandi eroi, di leaders che devono avere la certezza di poter controllare il male che intendono fare, che cioè devono veramente sapere che quella, e solo quella, è la menzogna, che non ce ne sono altre, ovvero che l'interesse da perseguire, con quella menzogna, è il bene pubblico e non il bene proprio, di qualche gruppo, di chi lo appoggia, eccetera. Ecco perché l'"eroe politico" è tale: perché manipolare la menzogna, usare la menzogna, richiede a sua volta una certa virtù e se questa manca niente più distingue l'eroe dal delinquente.

Nella politica, anche in quella democratica, quindi, i grandi personaggi sono fondamentali, senza di loro non c'è fondazione…

Certamente, perché se io non ipotizzo che chi mi guida abbia una visione più ampia di quella che possa avere io, ed agisca alla luce di essa, come posso fidarmi, come posso farmi guidare? Per questo Machiavelli sottolinea che c'è un abisso tra il Principe e i piccoli tirannelli. Tutti e due si bagnano le mani nel sangue, ma l'uno, il Principe, sa (ed è sincero in questo sapere con sé e con gli altri) che quello che fa lo fa per il bene dello stato - cioè per creare una situazione, una società, uno stato, che possa essere poi mantenuto con le regole della democrazia non della menzogna; gli altri, i tirannelli, invece, agiscono solo per conquistare il potere e usarlo per fini privati (e sono sinceri in cuor loro soltanto ma non con gli altri). Quindi il paradosso è che la menzogna, per essere nobilitata, ha bisogno di un eroe che sacrifichi la sua vita e la sua anima, che si danni per la nostra salvezza - perché, per gli atti abominevoli che commette, si danna l'anima. In qualche modo è come Cristo… Proprio anche per questa vicinanza, Agostino, che riprendeva polemicamente Cicerone per attaccare tutta la teoria politica repubblicana, si chiedeva se ci fosse una vera differenza fra un gruppo di criminali e uno stato visto che ambedue usano strumenti illeciti, immorali, e ambedue si basano sulla potenza, poco importa che una sia la potenza di un territorio più largo e l'altra di un territorio più ristretto, l'una di un numero di abitanti maggiore e l'altra di un numero di abitanti minore. A questa tesi, Machiavelli obietta appunto che non è vero che non ci sia differenza fra una banda di criminali e lo stato; la differenza é nell'atto fondativo che è veramente tale, insomma, perché dà inizio ad una storia, che fonda la memoria nella continuità di quello che è stato fatto all'inizio (è per questo che ricordiamo e facciamo monumenti a capi di stato fondatori e non facciamo monumenti a capi mafiosi).

Certo nell'accadimento del presente è molto difficile, se non impossibile, vedere la differenza tra un atto fondativo e un crimine. E anche se la storia di Roma, cioè quello che è avvenuto 300 o 700 anni dopo l'assassinio fondante di Romolo, dimostra che quell'assassinio ha dato grandi frutti, nulla toglie alla responsabilità del crimine; la storia non lo solleva dalla responsabilità etica del suo atto e, moralmente, Romolo rimane un criminale.
Per questo la "virtù fondatrice" è una virtù che ha dentro di sé il coraggio della perdita dell'anima, il coraggio di andare al di là della distinzione fra "bene" e "male", di essere, direbbe Nietzsche, l'evento del "più che umano", proprio dell'uomo che si mettere completamente nelle mani del suo destino. Tu non hai responsabilità, sei quello che sei, ti chiami Napoleone, ti chiami Romolo, non c'è niente da fare: non puoi scegliere; semplicemente ti fai agire da quello che sei. Mosè, dice Machiavelli, fu chiamato da Dio che gli preparò la fortuna e fece sì che esistesse mentre il suo popolo era schiavo e sottomesso in un paese straniero, in una condizione ideale per voler diventare libero. Questo incontro di virtù e contingenza, è quanto Machiavelli chiama "fortuna". Non è che l'uomo decida: "Sarò un eroe": è un eroe ed è un criminale perché appunto c'è questa coincidenza quasi fortuita della presenza dell'eroe rispetto al fato, al destino.

Ma è pensabile che da un momento fondativo "criminale" nasca e si sviluppi una virtù?

I grandi personaggi sono fondamentali, determinanti, nel momento fondativo, o nei momenti eccezionali, perché sono loro che si fanno carico della dannazione, ma questo fa emergere ancora il fondamentale tema della virtù. Perché, certo, esiste la virtù fondativa, ma non è la sola. Ci sono due forme, due tipi, di virtù politica, non una. C'è la virtù di chi fonda, ma c'è anche, ed anch'essa è fondamentale, la virtù di chi conserva. La virtù di chi fonda è dell'uno preferibilmente (certo, la Repubblica di Venezia venne fondata da molti, ma è un'eccezione, quasi un unicum). Avvenuta la fondazione, la virtù fondamentale diventa quella conservativa, cioè la virtù di chi difende il bene comune che è stato creato con l'atto fondativo. Non a caso, ritornando a Mosè, egli, dopo aver dato le leggi, non entra nella terra promessa perché chi dà le leggi non può usarle per governare, chi fonda non può farsi poi signore di quel che ha fondato. Altre virtù servono. Lo impariamo anche nel rapporto fra genitori e figli: tu fai un figlio, lo vorresti modellare come vuoi, ma il figlio andrà per la sua strada. Tutta la vita è allontanamento ed è giusto che sia così perché, se quello cui hai dato vita è veramente vitale, evolverà molto probabilmente in maniera autonoma e diversa da quella che tu avevi desiderato; e se cerchi di gestirlo come vuoi lo distruggi.

Ma è nella virtù conservativa che si rivela se l'atto fondativo è stato valido. Perché Romolo non può essere considerato come un semplice assassino? Perché nell'atto fondativo di Roma c'erano gli elementi della virtù conservativa chiamata "buon governo", "repubblica". Quel che Romolo ha fatto, quindi, non lo ha fatto per se stesso o per il suo gruppo di gente, ma lo ha fatto "sub specie aeternitis", perché la città vivesse libera e grande senza di lui (secondo Livio la monarchia di Romolo non è stata una monarchia assoluta, perché egli subito istituì il Senato ovvero il primo fondamento del governo misto). La virtù conservativa, la quale non ha bisogno di confrontarsi con l'abisso della scelta irreparabile, della scelta tra bene e male, è perciò molto chiara: è partecipare tutti alla vita della comunità, è fare le scelte, le leggi per il bene della comunità della quale si è parte; è ubbidire a quelle leggi. La virtù conservativa è la virtù del cittadino ordinario che pensa al bene pubblico e non al proprio interesse, ma sa che il suo bene dipende da quello pubblico.

Cosa che però, guardando a quel che succede in molte democrazie, non pare così semplice…

Ma, in effetti, se ben si ragiona, il bene pubblico e l'interesse privato sono dello stesso genere, come aveva capito Tocqueville; perché vivere in uno stato che ha buone leggi, uguali per tutti e che trattano imparzialmente tutti, è interesse di tutti; bene generale, ma perché mio interesse. Se voglio avere, per esempio, la sicurezza della mia proprietà, devo avere delle buone leggi civili e un governo che le rispetti. Ecco perché Rousseau dice che l'interesse generale e quello particolare non sono mai opposti: il giuoco a somma zero non é del governo legittimo; se in una competizione vinco tutto io, alla fine perderò anch'io, perché dalla tua mancanza di compartecipazione scaturirà il fatto che tu non condividi con me le leggi che mi privilegiano; a questo punto perché non aspettarsi una ribellione? E quale sicurezza avrà mai il mio avere senza giuste leggi che responsabilizzino tutti? Sostanzialmente, il bene generale è sempre una via media, in cui ognuno perde qualcosa e vince qualcosa, ma non è vero che il bene generale sia contro quello privato. Non può esistere, non starebbe in piedi se così fosse. Certo tutto questo, cioè la virtù di chi deve conservare una democratica, implica che il cittadino abbia una etica pubblica -la quale, non essendo in fondo contro i sui interessi e quindi contro la sua etica privata, non dovrebbe essere di difficile acquisto e coltivazione -, che abbia il senso della partecipazione e, soprattutto, che possa godere di una sfera pubblica aperta a tutti. Di nuovo: pubblico. "Pubblico" non vuol dire statale ma aperto al pubblico scrutinio e controllo, cioè, appunto, non segreto.

Pubblicità sta contro segretezza, il che vuol dire che le decisioni devono essere prese secondo conoscenza delle cause e delle cose, cosicché tutti possano dare il proprio contributo e controllare. Dice molto bene Aristotele che, mentre la decisione è un atto singolo - nessuno può infatti decidere al mio posto -, la deliberazione è l'atto "dei più", è la specialità "dei più", perché quattro occhi, dodici occhi vedono meglio di due. La cooperazione, anche dal punto di vista prettamente utilitaristico, è funzionale alla buona deliberazione; dopo di che però la decisione è dei singoli. Insomma, la sfera pubblica è la sfera nella quale le virtù della preservazione - cioè, potremmo dire oggi, le virtù democratiche - sono esaltate. Oltretutto, come accennavo, se non c'è sfera pubblica non ci può neppure essere sicurezza dei possessi e degli interessi privati. Tu, insomma, facendo il tuo interesse personale contro quello della collettività, torni, almeno simbolicamente, nello stato di natura, in cui ciascuno fa il proprio comodo, e dove vince solo il più forte, dove non c'è più verità o falsità ma potere fattuale, dove ogni giudizio morale é sospeso. In questo caso però, non solo non sei più in grado di metter in cantiere un'impresa comune con me e altri, ma non sei nemmeno in grado di assicurare i tuoi stessi interessi contro l'arbitrio o la forza, cioè il nudo interesse privato altrui. Torniamo quindi al discorso di Kant: dove non si dà sincerità non si dà comunità e la sincerità presume una condizione di relazione, cioè si pubblicità.

Quindi, nella conservazione e nell'evoluzione del fondato, cioè di uno spazio pubblico, la menzogna, l'ingiustizia, non possono trovare posto…

Infatti, e questo spiega perché la menzogna ha più o maggiore peso nella sfera internazionale dove non c'è uno spazio pubblico, non c'è una società di cittadini che controllano e chiedono conto. Certo noi possiamo provare ad inventarla, a costruirla: la Società delle Nazioni, l'ONU. Noi, cioè, possiamo cercare di creare questa realtà fatta di convenzioni e regole comportamentali che imitano la comunità politica nazionale, cioè quello che generalmente esiste nei paesi che appartengono all'ONU (o per meglio dire ai più decenti di essi). Ma proprio in questo tentativo di creazione e di invenzione c'è la dimostrazione che c'è bisogno di sincerità perché c'é bisogno di pace. Perché lo scopo della creazione di una comunità internazionale, cioè di una sfera esterna simile a quella interna, è di potere interagire per vie di pace anziché con la guerra.
Quando avremo pace vera? Come diceva Kant nel discorso "Per la pace perpetua", avremo la pace non semplicemente quando non ci sarà la guerra, ma quando non ci saranno più le condizioni perché la guerra ci sia, cioè quando non ci sarà più spazio per la menzogna e la segretezza. In altre parole, non ci sarà più bisogno di bugie e segretezza quando non ci saranno più tiranni, quando tutte le società saranno "repubbliche"; allora i popoli potranno avere uno spazio pubblico e interagire insieme secondo gli stessi principi che coltivano al loro interno: pubblicità, reciprocitá, rispetto dei patti invece di sgambetti, eccetera.

La menzogna è il peggior tarlo della democrazia. Indubbiamente la possiamo giustificare con lo stato di necessità, ma è una giustificazione comunque problematica, perché significa dover dare un posto alla menzogna, localizzare la menzogna all'interno della verità. E' un grande tema, una grande sfida della politica, perché il problema centrale della politica è come domare la contingenza, come domare l'eccezionalità, come domare quello che è indomabile, come mettere argine all'irrazionalità umana; e la menzogna, secondo il detto kantiano, è la quintessenza dell'irrazionalità, perché, come abbiamo già visto, si può essere menzogneri solo perché si presume che tutti gli altri non mentano. Dunque, si può davvero giustificare la menzogna con lo stato di necessità? Pare proprio di no.

Come Machiavelli sapeva bene, il tema centrale della politica è come mettere argini alla bestialità. I filosofi politici hanno dedicato molte delle loro riflessioni sui modi per mettere argini a questa tracimante forza in- o dis-umana che appartiene all'umano.

Locke, per esempio, nel "Secondo Trattato del Governo", riconosce la presenza dell'irrazionale quando dá prerogative al monarca. Locke comprende che ci sono momenti eccezionali nei quali le pratiche ordinarie che gli esseri umani hanno inventato per vivere in pace (leggi, elezioni, tribunali) non funzionano (per esempio quando si hanno nemici alle porte e quando c'è una grandissima carestia, una calamità). Sono i momenti di estrema eccezionalità, in cui non c'è il tempo di convocare le assemblee, di far sapere come stanno le cose e di deliberare insieme; momenti in cui la decisione deve essere immediata oppure, proprio per la sicurezza di tutti, non può essere rivelata (perché "il nemico ti ascolta"). In quei momenti è necessario istituire un potere che ci preservi da questi inconvenienti, una sorta di potere dittatoriale. Locke dà questo potere al monarca, non al Parlamento; a chi ha in mano l'esecutivo (e l'esercio). Per Locke, in quei casi eccezionali, il monarca può fare anche cose -introdurre pene eccezionali, sospendere l'habeas corpus, sospendere lo stato di diritto - che sono contro la legge dello stato e, addirittura, "anche violare la legge naturale". Ma tutto ciò, sottolinea Locke, solo per il bene dello stato, per il bene generale. In questo modo la responsabilità del sovrano è enorme perché, di nuovo, o è un grande reggente e uomo onesto - e allora può forse riuscire a gestire la disonestà senza farsi travolgere - oppure è un disonesto e allora può eccedere nei suoi poteri eccezionali e diventare un tiranno che solo la violenza potrà rimuovere. Il difensore si fa tiranno.

Anche per gli antichi Romani non si poteva essere dictator per più di tre mesi…

Infatti: console per un anno e dittatore per tre mesi... Nella Roma repubblicana il dittatore aveva il potere di sospendere le leggi ordinarie, di fare leggi eccezionali, ma il suo era un potere regolato dalla legge scritta, che quindi riconosceva e situava il potere eccezionale perché presumeva che in politica non si può evitare di aver a che fare con l'eccezionalità; come direbbe James Madison, perché non siamo angeli ma esseri umani. I Romani erano così consapevoli di questo fatto che hanno pensato di regolare l'eccezione; hanno voluto mettere una regola alla violazione della regola proprio per tenere l'eccezione sotto controllo e proprio perché sapevano che non ci si può fidare della bontà degli uomini; perché è vero che qualche volta può esserci "il grande uomo", Cincinnato, ma siccome non si può fare affidamento sul caso e siccome gli esseri umani sono sempre tentabili dal potere, i Romani avevano incluso i dittatori nella norma.

La regola sopperisce all'eccezionalità della virtù, che in casi eccezionali può non esserci. In questo meccanismo vediamo di nuovo il tentativo di ingabbiare la possibilità della menzogna (o della violazione della regola) in un ambito che non può in teoria essere fondato sulla menzogna come é appunto quello della vita della repubblica. Potremmo quindi vedere la politica democratica come un grande meccanismo costruito per far sì che il pubblico riesca sempre ad arginare il segreto, il privato. Norberto Bobbio, nel suo saggio sul "Futuro della democrazia" dice che, in democrazia, le sorgenti di segretezza sono essenzialmente due: la burocrazia e il potere militare, due poteri intrinsecamente non democratici di cui, però, la democrazia non può fare a meno. Nella burocrazia e nell'apparato militare, che sono parti del potere esecutivo, vige la gerarchia, l'obbedienza senza discussione, una piramide di responsabilità, potere e competenze; un ordine che non è democratico, bensì ineguale, e nel quale non c'è deliberazione pubblica, non ci sono gli aristotelici venti occhi che vedono meglio di due, ma c'è solo un occhio che vede per tutti (per questo tali poteri devono poter vedere solo secondo i canali stabiliti dalle regole e solo in un settore specifico e limitato). L'esecutivo è un grande problema per la democrazia; è un potere di cui essa non può fare a meno, ma che é, come metteva in guardia Rousseau, quasi sempre all'origine dei problemi di libertà.

Non a caso è un potere che ha regole sue, e spesso coperto dalla discrezione. Le discussioni e le decisioni dell'esecutivo possono essere fatte (e vengono fatte) a porte chiuse, nelle stanze del potere, come si suol dire.
Quindi, dove non c'è democrazia, dove ci sono forze organizzate in maniera inegualitaria, in maniera burocratica, c'è l'origine del problema; presumibilmente nell'ambito internazionale e nell'esecutivo, cioè proprio i due luoghi in cui, come é molto chiaro negli Stati Uniti d'America, si decidono le politiche che ora un po' tutti subiamo. Io penso che ci sia una saggezza comune a noi tutti ordinari cittadini, una vox populi si usava dire; cioè che gli essere umani abbiano la capacità di capire la differenza tra giusto e sbagliato, per questo credo che, se gli americani avessero a disposizione tutte le informazioni relativamente a quello che l'amministrazione Bush ha fatto e ha detto, se i media facessero veramente il loro lavoro, è difficile pensare che gli elettori votino a maggioranza per Bush.

Tuttavia non si può dire che negli Stati Uniti non ci sia democrazia…

Uno dei problemi della democrazia è che, e qui bisogna nuovamente ritornare a Machiavelli, più grande è la libertà interna, quindi la possibilità di superare e risolvere i conflitti, più c'è la spinta a tentare l'espansione; perché i conflitti interni sono volano di libertá e di benessere fino a quando ci sono risorse per soddisfarli. Ma da dove prendere le risorse? Dalla potenza, che è il motivo per cui gli Ateniesi hanno distrutto Melo. Un paradosso della democrazia è che essa, per funzionare veramente, dovrebbe essere ovunque, in tutti i paesi. Per questo, Kant pensava che solo quando le relazioni internazionali fossero state tenute da paesi repubblicani allora ci sarebbero state le condizioni per una pace mondiale. A questo punto il problema è il seguente: come facciamo ad aiutare il progetto kantiano a realizzarsi? Una soluzione parrebbe essere l'imposizione: tutti devono essere democratici per forza. Ma questo sarebbe un errore, perché la democrazia si regge sul consenso; occorre volerla o comunque non osteggiarla. La libertà non si impone, è la tirannia che si impone. L'altra soluzione é la via indicata da Kant il quale, consapevole che non si poteva far diventare tutti democratici con un atto di volontà, cercò una soluzione che neutralizzasse la volontà. Dice Kant che, poiché la nostra natura è sempre scontenta di quello che ha, poiché vuole sempre di più, la civilizzazione è necessariamente portata a creare un sistema affinché l'uno combatta l'altro senza annullarsi. La guerra porta l'uomo oltre i confini del suo stato, ma è il commercio che lo farà circolare liberamente. Il denaro vincerà sulla forza delle armi.

E' il caso della Cina attuale: anche volendo non vi si può certo imporre la democrazia dall'esterno, con le armi, ma si può sperare che il suo sviluppo economico, lo sviluppo di una forte società civile, porti prima o poi ad un tale esito…

Esatto, è il sistema economico globale. Tra le due forme d'azione che l'uomo ha, l'azione attraverso l'interesse o in maniera indiretta e l'azione attraverso il potere diretto o politico, l'una marcia con le regole delle armi e della violenza, l'altra marcia con le regole della convivenza e dell'interesse e può portare alla democrazia. E' la via anti-giacobina, è la via dell'egemonia contro la via della coercizione, della forza.

Il paese dove era presente il ceto medio più forte di tutti i paesi arabi era l'Iraq e dieci anni di embargo l'hanno distrutto completamente, poi si è andati con le armi a "portare la democrazia"…

La questione dell'Iraq è una tragedia, aldilà dell'Iraq. E' una tragedia dell'insipienza, della disonestà e dell'arroganza dei governanti americani i quali hanno in mano una potenza imperiale incontrastata. Questo è il problema vero: la mancanza di contrappesi internazionali. Se ci fosse un bilanciamento internazionale ci sarebbe una forma controllo. Il vero problema dell'umanità attuale è che cosa fare per imbragare il potere mono-imperiale. Un corollario della "pace perpetua" di Kant è l'equipollenza degli stati; cioè che i vari paesi siano simili in potenza. Ma se uno è enorme, come sono oggi gli Usa, come può sottostare a regole comuni? Si sottomette se e quando gli conviene. E la scelta è solo sua. Il problema è quindi quello di uno sbilanciamento della forza. Il problema è americano; esiste oggi una "questione americana". Lo stato americano ha un potere militare ed economico e finanziario smisurato (l'unione di questi poteri in un solo paese é cosa rara ed eccezionale). L'unica via può forse venire dall'Europa, ma soprattutto la Cina pare di capire, e da altre parti del mondo, se nei modi loro propri e non in maniera frontale riusciranno a porre il loro peso e a far capire agli americani quanto sia conveniente a tutti che essi controllino sé stessi.

La speranza, ecco di nuovo Kant, è che si trovino delle forme di cooperazione regionale -che il modello europeo, ad esempio, possa ispirare altri luoghi del mondo come il Sudamerica o l'Africa; o che la Cina acquisti potere di controllo nella regione asiatica- per creare argini e forme di contenimento. Confederazioni parziali non globali, contrappesi. Chi è democratico dovrebbe mirare a questo.

Si può obiettare che questo è utopismo, idealismo; ma é una critica miope perché non vede che il problema è di agire "come se". Se vogliamo salvarci dobbiamo imparare a ragionare col "come se" invece che con l'"è". Il "come se" è una filosofia della creazione, della speranza perché é un invito a operare "come se" il mondo dovesse essere retto da regole di pace (John Rawls architettò una società giusta facendo proprio un ragionamento che Kant chiamerebbe di "schematismo trascendentale" o del "come se"). Del resto noi agiamo molto spesso guidati dal ragionamento del "come se"; tutti i giudizi che pervengono a scelte e progetti (deliberazioni) sono di carattere ipotetico, sempre. La menzogna non ha spazio nel "come se", perché tu, se sei in una situazione di menzogna, non puoi pensare "come se", per la semplice ragione che il "come se" ipotizza e quindi non può presumere di controllare tutto. La filosofia del "come se" è oggi una filosofia della possibilità, del far marciare un discorso di democrazia. Dicevamo prima che il nodo tragico attorno a cui ruota la politica è il fatto che noi non siamo angeli, ma un misto di bene e di male. Allora, come fare affinché degli esseri contradditori vivano insieme in pace? L'unico modo è cercare di farli agire "come se" fossero angeli (la Costituzione americana nella mente geniale di Madison doveva fare proprio questo). Non si può eliminare il principio di realtà, non si può far diventare l'essere umano quel che non è, occorre partire da quel che è e rispettarlo per come é, un misto di possibilità opposte. Quel che si può fare è questo, non altro, per questo occorrerebbe agire "come se" ovvero con ragione oculata, aiutando dove possibile, la formazione di confederazioni; esercitando, dove possibile, la forza del diritto; lavorare affinché si allarghino le possibilità del "come se".

In una bellissima pagina - scritta nel 1789 ed in cui parla dei nascenti Stati Uniti, che egli considerava un modello per il futuro -, Condorcet scriveva che quando sarà possibile avere un forum mondiale, in cui ogni paese manderà i propri delegati, ciò non significherà aver sconfitto o eliminato la guerra; ma significherà perlomeno metter coloro che vogliono la guerra nella situazione di dover giustificare la loro scelta in pubblico, davanti a tutto il mondo; di dover dire perché la diplomazia non basta più. Giustificare davanti a tutti che la pace non può ottenere risultati; che la guerra sola lo può. Indubbiamente non sarà facile dire apertamente a tutti "Noi vogliamo fare la guerra", e si dovranno portare ragioni per convincere che la guerra é giusta e necessaria. Molto probabilmente si diranno bugie. Eppure sarà proprio questo a costituire il loro problema. Fino a quando gravissime decisioni come la guerra vengono prese in camera caritatis, nelle stanze chiuse del potere, non ha senso porsi il problema della menzogna.

Ma oggi possiamo dire che Bush ha detto delle bugie e questo è accaduto perché tutto il mondo ha operato affinché quella che sembrava una verità si rivelasse per quello che era, cioè una bugia. Ciò significa che c'è una opinione pubblica mondiale, e che è estremamente potente anche se il suo potere è indiretto e informale. Forse stiamo imparando a comportarci come se ci fosse una comunità mondiale...

 

 

 

 

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